Intervista ad un autore “Clandestino”

Marianna Abbate
ROMA – Vi ricordate la recensione del “Clandestino” (Edizioni Sonda) che ho pubblicato a novembre? E’ inutile che annuiate, andate a rinfrescarvi la memoria e poi tornate su questa pagina a leggere la simpatica intervista all’autore, che serve fondamentalmente a dimostrare che io non ho capito nulla delle intenzioni dello scrittore. Ma d’altronde non è forse questo il destino di ogni critico che si rispetti? Chissà cosa ne penserebbero Dante e Leopardi di tutte le dietrologie prodotte sulle loro opere. Allora perché non approfittare del fatto che l’autore possa risponderci di persona e non correre a intervistarlo? Ecco a voi Ferdinando Albertazzi.

Quali sono gli ingredienti di un buon giallo?
Tono, brillanza e purezza son gli “ingredienti” che differenziano qualsivoglia colore dai suoi “gemelli”. Vale dunque anche per il giallo, che sia colore o… genere letterario.

Perché ha scelto di scrivere per i ragazzi?
Non scrivo affatto per i ragazzi. Non in esclusiva, almeno. Il fatto che nelle mie storie ci siano ragazzi in pagina non significa che siano destinate unicamente a loro. Altrimenti là dove in pagina ci sono invece cani, gatti o maiali, dovremmo considerarle storie per cani, gatti e maiali… Scrivo, questo sì, i ragazzi, indagati soprattutto lungo il frastagliato  percorso verso l’adultità e quindi insieme ai “grandi”. Se una storia che “punta” preferenzialmente i ragazzi non ha almeno qualche valenza anche per gli adulti, è una storia da cestinare.

Quali sono le differenze tra un noir per ragazzi e uno per adulti?
Per come si stanno differenziando le generazioni, per certe impensabili disinvolture “guardonesche” e non solo che mostrano i ragazzi, direi che, paradossalmente, un noir anche per ragazzi deve essere assai meno ingenuo di quello che va a infoltire il catalogo “per adulti”.

Lei insegna in un corso di scrittura creativa: quali consigli si sente di dare a chi vuole iniziare a scrivere, in particolare per i ragazzi?
Non aver paura di avere il coraggio di provarsi, di scommettere contro la pagina bianca. Senza smettere, al contempo, di leggere tanto e senza accontentarsi dei risultati che si pensano già raggiunti. Usare insomma molto il cestino della carta straccia, nella consapevolezza che il difficile non è cominciare bensì durare e che  il temperamento e la qualità letteraria sono tra i fattori decisivi della durata.

Che rapporto ha con i suoi lettori? Le scrivono, vengono alle presentazioni? Come sono, insomma, i giovani lettori?
Durante gli incontri, quelli che hanno la lettura nel DNA sono curiosi e avidi, desiderosi di farsi prendere dalle narrazioni. Quelli che, al contrario, si avvicinano alle storie in pagina con scarso entusiasmo o sono addirittura refrattari,  si lasciano però catturare dai laboratori musicali che Gabriella Perugini ha ideato e realizza per i miei libri. Diversi a seconda delle storie, ovviamente. Sono per lo più proprio quei ragazzi lì, quelli che non leggono volentieri o non leggono affatto, ad apprezzare gli incontri attraverso i laboratori musicali (soltanto così, d’altronde, parlo dei miei libri con i ragazzi), dove sono peraltro artefici. “Ah, ma se si può leggere così, allora…”, commentano stupiti e invogliati. Ed è una conquista davvero promettente, quella che principia dai loro sguardi magari di ironica sufficienza, via via accesi da un incredulo interesse…

 

 

I 10 Libri più venduti della settimana… non abbiamo detto i più belli!

1. Il diavolo certamente di Andrea Camilleri (Mondadori), 10,oo euro

2. La carta più alta di Marco Malvaldi (Sellerio), 13,00 euro

3. Amore, zucchero e cannella di Amy Bratley (Newton Compton), 9,90 euro

4. Nebbia rossa di Patricia Cornwell (Mondadori), 20,oo euro

5. Le prime luci del mattino di Fabio Volo (Mondadori), 19,oo euro

6. I menù di Benedetta di Benedetta Parodi (Rizzoli), 15, 90 euro

7. La dieta Dukan di Pierre Dukan (Sperling&Kupfer), 16,oo euro

8. Grazie no di Giorgio Bocca (Feltrinelli), 10,oo euro

9. Il meglio di me di Nicholas Sparks (Frassinelli), 20,oo

10. L’educazione delle fanciulle di Luciana Littizzetto e Franca Valeri (Einaudi), 10,oo

*Dati: Corriere della Sera – Immagine: Panorama

“Romeo e Giulietta” dal 30 gennaio 1595 al 30 gennaio 2012, la storia d’amore senza tempo

Alessia Sità
ROMA – “Il suo unico  pensiero era scoprire chi fosse quella bellezza che insegnava al fuoco come risplendere, chi fosse quella gemma che pendeva sulla guancia della notte come un orecchino prezioso. Una bellezza troppo preziosa per questa terra. Era come una bianca colomba in mezzo a un branco di corvi: sì, così si mostrava quella giovane donna in mezzo alle sue coetanee, nel suo vestito bianco e alato.”
La tragedia dei due sfortunati amanti veronesi,  resa immortale dal grande dramma di William Shakespeare, ritorna il libreria con “Romeo e Giulietta. Adattato in prosa per tutti” di Davide Orsini edito da Fermento.
Nella bella Verona del XIV secolo, si consuma la toccante vicenda dei due adolescenti innamorati che, per un “disegno beffardo della vita”, decidono di porre fine alla propria esistenza, seppellendo così definitivamente l’odio lacerante che divide le rispettive famiglie: Montecchi e Capuleti.
L’intramontabile capolavoro shakespeariano, messo in scena  per la prima volta il 30 gennaio 1595 dalla compagnia Lord Chamberlain’s Man, ha fornito nel tempo il pretesto per numerosi libretti, balletti, musical, fino alle svariate trasposizioni cinematografiche e teatrali. Tra queste la versione diretta nel 2004 dallo stesso Orsini, intitolata “Verona – non giurare sulla luna”. Con grande maestria e straordinaria sensibilità, l’autore ci regala un vero e proprio romanzo in cui i sentimenti sono al centro dell’intreccio. Pagina dopo pagina, il lettore assiste a eclatanti scene di duelli, vite che si incrociano, fugaci sospiri amorosi e drammi familiari …
Dalla suggestiva descrizione del primo incontro fra Romeo e Giulietta al galeotto ballo di casa Capuleti, fino alla tragica e struggente morte dei due, si ha come la sensazione di percepire  e condividere ogni emozione e ogni turbamento che accompagna i due giovani all’epilogo del loro travagliato amore.
A 417 anni esatti dalla prima messa in scena, Orsini ha il merito di aver saputo narrare in prosa moderna e accessibile a qualsiasi lettore la passione che lega i due amanti, riuscendo a penetrare nel cuore e nella mente di ogni singolo personaggio.

“Francesco Borromini”: l’arte e il riscatto del proprio limite.

Giulio Gasperini
ROMA – Francesco Borromini lo si ricorda sovente soltanto per contrasto a Gian Lorenzo Bernini. Due superbi architetti che arricchirono la Roma barocca, due anime distanti e diverse, due concezioni divergenti: di forme, di spirito, di materia; di carne e fiato. Leros Pittoni, con la sua opera “Francesco Borromini. L’iniziato”, edita da De Luca Editori nel 1995, tenta il riscatto dell’uomo Francesco. Si cimenta in codest’impresa perché riscattare l’artista è facile: il Borromini architetto basta riscoprirlo, riportarlo alla luce degli studi, riprenderlo con discernimento e attenzione, esaminarlo di nuovo con prudenza ma perizia. È riscattare l’uomo che diventa più complesso, più arduo: perché Borromini fu personaggio scomodo e scomposto, troppo frugale e d’animo semplice per poter armonizzarsi con l’esuberanza del secolo, con la sua pretesa costante e irrinunciabile allo spettacolare, allo stupore, alla meraviglia.
Borromini fuggì sempre la Chiesa, grande mecenate del suo tempo: cercò di separarsene sempre e risolutamente. Fu uomo scisso tra la passione per la Roma esagitata e caotica del suo secolo migliore e il bisogno intimo e profondo della tranquillità e della sicurezza dei suoi monti, quelli della sua Svizzera lontana, che lo lasciavano tranquillo e placato come uno specchio d’acqua alpino. Ma la febbre del lavoro, l’entusiasmo per il plasmarsi delle forme e delle linee, la dedizione all’arte non potevano lasciarlo appagato del mediocre. Volle osare, nonostante i rifiuti e le diffidenze; volle sempre presentarsi per quello che veramente era, per quello che voleva conservare di sé stesso: un uomo integro, fedele ai propri dogmi e alle proprie necessità interiori, capace di non tradirsi e di accettare piuttosto la morte alla tirannia della società.
Leros Pittoni, scrittore conterraneo dell’architetto, analizza, più poeticamente che architettonicamente, le opere romane del Borromini, da San Carlo alle Quattro Fontane alla partecipazione al Baldacchino di San Pietro, significando ogni linea, ogni intento, ogni apertura e ogni varco, ogni spazio e ogni volume, e tessendo la narrazione delle opere con la biografia del grande genio. Sicché la storia delle opere diventa la storia del Borromini: è la sua travagliata disamina di un sé stesso sospettato sempre peccatore, sempre imperfetto, sempre inappagato dell’idiozia altrui, che sottrae valore a chi merita e conferisce onore a chi – mutatis mutandis – non dovrebbe meritare neppure pietà.
Il presunto scontro tra Borromini e Bernini è sempre aperto e sempre invocato anche da una certa critica attenta ai disagi e agli scandali da copertina: le opere del Bernini respirano il ponentino, si inondano di luce, giocano con l’acqua e l’aria, si incurvano alla pretesa d’evidente perfezione. Le opere del Borromini, all’opposto, a uno sguardo distratto quasi si nascondono, si crepano d’ombra, si incurvano in un sentire che è punizione del sé stesso, ma anche riscatto del proprio limite; a costo della morte.

“La maestra di cucina”, cucinare è facile se sai come farlo

ROMA “La maestra di cucina” (Dalai Editore) di Alessandra Spisni è arrivato in libreria a novembre e da allora ha scalato le classifiche di vendita. Il grande pubblico l’ha conosciuta grazie alle ricette, semplici e squisite, che prepara su Rai Uno a La prova del cuoco. Ma Alessandra Spisni e molto più di una cuoca televisiva. Chef dall’età di 25 anni, ha dedicato tutta la sua vita alla cucina, aprendo nel 1993 una scuola frequentata da allievi provenienti da tutto il mondo, una vecchia casa nella quale si insegna l’arte di ricevere secondo la tradizione bolognese. In questo libro, che contiene tutte le ricette che l’hanno resa famosa (dalle tagliatelle fatte in casa al pollo alla cacciatora, dal Tortellino d’oro al Ciuccio mascarpone e Nutella) Alessandra insegna a cucinare come lei. Con semplicità, con gli ingredienti giusti e in tempi più che ragionevoli, adatti a chi in cucina non ci passa la giornata ma in tavola ama il cibo buono e sano. Perché e facile cucinare come una vera chef se sai come farlo. (scheda libro a cura della casa editrice)

Toilet, racconti da leggere in bagno.

Marianna Abbate
ROMA – Nell’anno passato mi sono incontrata veramente di sovente con un’ossessione nei confronti dell’attività da bagno. Il primo ritrovo è avvenuto nell’estate, quando ho sfogliato la rivista fotografica “Toilet paper”, con immagini a dir poco inquietanti e una copertina molto ambigua. Poi una ragazza, amica di amici, ha portato il suo libro appena pubblicato, che aveva in copertina un bel rotolo di carta igienica ed era stato scritto, secondo lei, proprio per una lettura in bagno. Ma all’origine di tutta questa tendenza sui racconti e articoli da “bagno” c’è 80144 Edizioni. E’ il 2007 quando la casa editrice romana pubblica “Toilet” una raccolta di racconti da leggere in bagno.  Ad oggi toilet ha pubblicato oltre 150 autori, tra i quali spiccano i nomi di Antonio Pennacchi e Pulsatilla e moltissimi autori emergenti.  “Toilet anno uno” raccoglie i racconti di 17 autori per un libro di 15o pagine che vi indica anche i tempi di lettura, così, per ogni vostra esigenza. Vi chiederete, perché qualcuno debba scrivere una cosa simile? Non è forse meglio scrivere per un cassetto che scrivere per un WC? Ebbene, per quanto io sia tentata di dirvi alla Fiorello/Brunì que volgaritè, devo riconoscere che l’idea non è poi tanto malvagia. Effettivamente in quel luogo specifico, potrebbe essere meglio leggere un libello così piuttosto che scomodare un possente romanzo. Non ve la prendete, giovani autori, per aspera ad astra: ora la gavetta dello scrittore passa dalla toilette. Non so dirvi se tutti i racconti hanno la medesima funzione lassativa: alcuni sono divertenti, altri fanno ridere un po’ meno. Ma se pensate che questo è il meglio di un anno di racconti già pubblicati, potete fidarvi almeno un po’ e ingerire questa pastiglia invece del solito SanPellegrino.

“Gli occhi della lingua”, la lettura interna di Jaques Derrida

Silvia Notarangelo
ROMAJacques Derrida non ha certo bisogno di presentazioni. Francese, di formazione fenomenologica, deve la sua fortuna filosofica alla tematizzazione del decostruzionismo.

Nel 2011, a sette anni dalla sua scomparsa, Mimesis Edizioni ha pubblicato “Gli occhi della lingua”, un volume curato da Luigi Azzariti-Fumaroli, in cui il Derrida riflette su una lettera del 1926, indirizzata da Gershom Scholem a Franz Rosenzweig.
La sua è una “lettura interna” che si sforza di attenersi il più possibile al testo tralasciando eventuali contaminazioni, richiami o commenti personali.
Nella lettera Scholem manifesta tutta la propria inquietudine di fronte a ciò che ha identificato come un “male interiore” che sta progressivamente lacerando il sionismo. Si tratta della secolarizzazione, della modernizzazione della lingua ebraica, in parte legata alle necessità della comunicazione quotidiana. Un male che, secondo Scholem, porterà non solo alla perdita della lingua sacra, di una lingua per natura non concettuale, ma determinerà anche un suo “ritorno vendicatore”, destinato a colpire quanti l’hanno profanata. Perché se è vero che non si può evitare di parlare la lingua sacra, si può, però, parlarla nello “scostamento, nella distrazione, come dei sonnambuli sopra l’abisso”.
Il tono, di ispirazione apocalittica, non lascia però trapelare quale sia il vero atteggiamento di Scholem, se di paura o di speranza in un ritorno della voce di Dio attraverso una lingua pronta, in qualunque momento, a risvegliarsi.
Non meno contraddittoria, come osserva Derrida, è anche la sua posizione in merito alla secolarizzazione. L’attualizzazione della lingua sacra è, in realtà, impossibile, la secolarizzazione non è altro che una “façon de parler”, una fraseologia vuota, un mero artificio retorico. E allora, non esiste alcuna lingua cattiva che viene a corrompere una lingua sacra, ma una “non-lingua alla quale si sacrifica la lingua sacra”. Un sacrificio che, nel distruggerla, non potrà che manifestarla e salvarla.

Leggi che fanno ridere e sentenze che fanno piangere dal ridere

Stefano Billi
ROMA – Che l’Italia sia un popolo non solo di santi, navigatori e poeti, ma anche di legislatori, questo i cittadini lo sanno bene. Perché in Italia di leggi ne sono state approvate moltissime, così tante che si è addirittura addivenuti a coniare il termine dell’ipertrofia normativa, proprio per indicare l’incredibile ammontare di regole di condotta a cui devono conformarsi i consociati. Ed è quasi lapalissiano riconoscere che tra quella moltitudine di norme, talune manifestino un contenuto irrilevante per la società a fronte dei cambiamenti socio-culturali occorsi nel tempo all’interno della realtà nazionale.

Di questo, e di alcune determinazioni creative della giurisprudenza italiana, si occupa il libro intitolato “Bestiario giuridico 1. Leggi che fanno ridere e sentenze che fanno piangere dal ridere”, scritto da Giuseppe D’Alessandro e pubblicato dalle edizioni Angelo Colla. Questo testo ha la caratteristica di avvolgere l’autore in un raffinato clima umoristico, che lascia sorridere di fronte a leggi e sentenze dai contenuti spesso esilaranti. Dimostrazione questa che il diritto non è una campo del sapere arido e sterile, ma piuttosto assolutamente vivo, dinamico e talvolta divertente. Tra le pagine, dunque, prendono voce numerosi esempi della creatività legislativa e giurisprudenziale italiana, tutti elencati con una precisa attenzione dell’autore nella citazione delle fonti giuridiche inserite nell’opera. Non solo, perché Giuseppe D’Alessandro riporta pure le bestialità che in campo normativo affliggono l’ordinamento europeo.

Insomma, questo “bestiario giuridico” descrive quali e quanti mostri traggono vita nel panorama della creazione del diritto e della sua applicazione, lasciando intendere tra le righe tuttavia che in molti casi, di fronte alla richiesta di giustizia, il cittadino trova solo la dura ed implacabile legge.

Un libro consigliato a tutti, non solo ai cultori delle materie giuridiche, perché – parafrasando un celebre brocardo latino – il diritto è anima e struttura della società in cui viviamo.

“Il libro della Shoah. Ogni bambino ha un nome…”

ROMA “La memoria è qualcosa di delicato, dunque, e non ci si può giocare sopra, pena il rischio di farsi male e di bruciarsi le ali […]”
Dal 2000, quando venne istituita dallo Stato italiano, ogni anno il 27 gennaio si celebra la Giornata della Memoria. Ma come spiegare ai più piccoli che in questo giorno non si celebrano i morti e il ricordo delle sofferenze imposte bensì la vita e la storia? Nel difficile percorso che porta alla consapevolezza del passato ci accompagna “Il libro della Shoah. Ogni bambino ha un nome…” di Sarah Kamiski e Maria Teresa Milano pubblicato dalle Edizioni Sonda.

Un volume ricco e complesso sulla storia della Shoah e della Seconda Guerra Mondiale, un libro intenso che si offre come strumento per insegnanti ed educatori al fine di crescere le nuove generazioni alla tolleranza e alla consapevolezza del passato. “Il libro della Shoah” è diviso in tre parti: la prima parte dedicata alle Narrazioni di diversi autori, tra cui Lia Levi e il suo toccante racconto. Vissuti è la parte dedicata alla storiografia: foto, testimonianze e cronologie riportano al grande dramma del Novecento. L’ultima sezione, il Laboratorio, è dedicata ai lettori – grandi e piccoli – e alla loro voglia di confrontarsi e rielaborare le sezioni precedenti.  Cartine geografiche, glossario e tante tavole colorate completano un’opera che riassume in modo eccellente una drammatica fetta di Storia.

L’intervista di ChronicaLibri a Marco Santochi, autore di “Rinascere per caso”

Alessia Sità

ROMA – Ho sempre pensato che i libri che riescono a lasciarti qualcosa dentro, anche a distanza di tempo, sono veramente pochi. Le letture che non si dimenticano, sono quelle che entrano nel profondo dell’anima e che una volta terminate lasciano una strana sensazione, paragonabile quasi al vuoto. A me è successo con “Rinascere per caso”, l’ultimo lavoro di Marco Santochi pubblicato da Felici editore. Un romanzo imprevedibile fino all’ultima pagina e illuminate su molti aspetti sociali e industriali legati all’ecologia.
Per saperne di più, ChronicaLibri ha intervistato il docente universitario di Tecnologie e sistemi di lavorazione, che ci racconta come la sua attività di ricerca scientifica si sia intrecciata a quella di scrittore.

Cosa ha ispirato il suo romanzo “Rinascere per caso”?
L’attività di ricerca scientifica che ho svolto nel campo del riciclaggio dei prodotti di consumo giunti al termine del loro ciclo di vita è stata la prima fonte di ispirazione: credo che in alcune pagine di descrizione tecnica, indispensabile per far entrare il lettore nella tematica, questa origine si percepisca. C’è stata anche la voglia di divulgare, di far conoscere ai non addetti ai lavori che cosa accade al nostro computer o cellulare, quando si getta via: certamente una mia deformazione professionale.
L’altra fonte d’ispirazione sono state le immagini, facilmente reperibili in rete e che hanno fatto il giro del mondo, di discariche a cielo aperto di prodotti elettronici in paesi orientali o africani: una varia umanità, molti bambini, che rovista in cumuli di spazzatura elettronica (e-waste), alla ricerca di qualcosa di ancora sfruttabile o riciclabile con metodi certamente pericolosi per loro e per l’ambiente circostante: immagini crude, inaccettabili ai nostri giorni.

Tecnologia e consumo, un binomio ormai inscindibile. Leggendo il suo libro si è portati a fare, inevitabilmente, una profonda e attenta riflessione sull’ambiente e sull’ecologia. Esiste, secondo lei, una vera coscienza sociale a riguardo?
La coscienza sociale su ambiente ed ecologia sta aumentando e sono certo che le nuove generazioni ne saranno dotate in misura maggiore. Siamo in piena Green Economy, secondo alcuni la terza rivoluzione industriale. I media insistono molto sull’aspetto “verde” di prodotti, servizi, abitudini, stili di vita. Le aziende sanno che oggi un prodotto di largo consumo si vende bene solo se rende il consumatore partecipe alla lotta contro l’inquinamento e lo spreco di risorse naturali e lo fa sentire meno responsabile del degrado ambientale. Fino a 10 anni fa, chi acquistava un’auto preoccupandosi dell’emissione di CO2? Oggi questo è un dato tecnico presente in qualunque pubblicità di nuovi modelli. Inoltre un prodotto o servizio “verde” oggi fa tendenza.
Da considerare anche la legislazione europea e degli stati membri, che prevede già obblighi e limitazioni che riguardano il consumatore: per fare qualche esempio ben noto, la raccolta differenziata, la necessità di rivolgersi alle isole ecologiche per certi tipi di rifiuti,  la chiusura dei centri storici al traffico. Il cittadino di oggi non può non essere coinvolto.
Una forte coscienza sociale deriva comunque da una conoscenza dei problemi, è un fatto culturale. Se da un lato i media da vari anni fanno bene la loro parte, una vera e diffusa coscienza sociale è ottenibile solo con l’educazione scolastica fin dalle prime classi. Per questo credo che i programmi di insegnamento anche nei primi cicli scolastici debbano prevedere lo studio di questi temi: si tratta di preparare i futuri cittadini e consumatori. In alcune pagine del libro ho toccato questo aspetto pedagogico.

Qual è il messaggio che vuole dare con “Rinascere per caso”?
Rispondere che il messaggio dato è l’importanza dell’ecologia, del corretto smaltimento dei rifiuti elettronici, della lotta ai metodi illegali di gestione di questi rifiuti sarebbe banale e riduttivo oltre che poco invitante per un lettore di romanzi. Direi invece che alcuni prodotti da noi usati quotidianamente, come il computer e il cellulare, sono contenitori di nostre idee, sensazioni, piccoli segreti: dati che crediamo gelosamente custoditi in questi prodotti. Con questi strumenti hi-tech si crea un connubio che non si distrugge facilmente quando li gettiamo via perché vecchi o non funzionanti: essi conservano sempre una parte, spesso importante, della nostra vita. Rinascere per caso si basa proprio sul fatto che un cellulare viene gettato via senza togliere la SIM e i messaggi registrati. Quando viene trovato, esso provoca imprevedibili cambiamenti di vita per le due protagoniste. Effetto casuale, ma possibile, delle informazioni che contiene!

Ha già in programma qualche nuovo libro?
Sto pensando a un libro su alcuni effetti perversi della globalizzazione, in continuità con il mio primo romanzo Vittime globali. In particolare sulla concorrenza tra i lavoratori del mondo industrializzato occidentale e quelli dei paesi emergenti: spesso una lotta tra poveri che fa perdere il lavoro ai primi e fa lavorare in condizioni stressanti e inaccettabili i secondi. Mi piace indagare sulle conseguenze sociali e umane delle scelte tecnico industriali, magari spingendo alcune situazioni ai limiti estremi. Spero di riuscire a portare a termine questa mia terza fatica, ma soprattutto di interessare i miei lettori.

Tre aggettivi per definire “Rinascere per caso”.
Avvincente. Non un thriller come il primo, ma comunque un intreccio di due storie parallele di cui si capisce il legame solo nelle ultime pagine. Un finale difficilmente prevedibile, a detta di alcuni lettori.
Eco-globale. L’ecologia è il tema dominante. La necessità di affrontare le problematiche ambientali, in questo caso il problema dei rifiuti elettronici, in ottica globale è una seconda chiave di lettura.
Sentimentale. Uno dei mie primi lettori lo ha considerato una storia d’amore: non mi aspettavo questo giudizio. In effetti ciò che spinge una delle due protagoniste verso la ricerca caparbia del cellulare è l’amore per il marito da poco deceduto.