VerbErrando: Produci, consuma…

Veruska Armonioso
ROMA
– Produci. A trentaquattro anni per una lavastoviglie in cucina.
Lavaggio eco, che ti fa sentire meno colpevole ogni volta che pigi on.
Produci. A trentaquattro anni per un lavoro a tempo indeterminato che ti permetta
di andare al cinema e a mangiare la pizza il sabato sera. Multisala a Cinisello Balsamo,
che prima era una campagna con la latteria che vendeva i formaggi di mula e adesso è una città lego piena di pizzerie bio, con ingredienti a chilometri zero, a lievitazione zero, a farina zero, a prezzi zero, eat as you can.
Produci. A trentaquattro anni per accendere un mutuo per avere la tua casa di proprietà, un’Ici da pagare, degli interessi e delle rate di mobili presi da Ikea, che giusto in una casa tua possono entrare, visto che sai di non poterli smontare mai più dopo aver girato l’ultima vite.
Produci. Figli che saranno persone qualunque, che masticano gomme a bocca aperta e ti digeriscono in faccia, ridendoci su, ‘ché tanto mica hanno ucciso nessuno che si devono vergognare.
Produci. Cambiamenti continui e perituri, psicotici, confusi. Geografici, sentimentali, di stile, di abbigliamento.
Produci. Calcare mentale, di quello che ti necrotizza il grigio delle giornate, il grigio dei ricordi, il grigio della materia.
Produci. Distruzioni. Interne, come diceva Yates in Bugiardi e InnamoratiDentro ognuno di noi- e nello spazio tra i nostri corpi e le nostre storie, ovvero in quella cosa che si chiama legame- non si dà altro che disgregazione”.
Produci. Legami, come “sostanze fisiologicamente agoniche e disgregate” perché, del resto, l’uomo è questo: “una cosa che ci illude per deluderci, un grumo, una mistura, un ordigno prepotente e fragilissimo che deve di continuo difendersi da sé stesso inventandosi miraggi e divagazioni”.  “Tutti straordinari fabbricatori di abbagli.”[1]
Produci. Misericordia e compassione, autoassoluzione e Viagra.

Consumi. A trentaquattro anni l’idea come concetto. L’ideale come motivazione. L’azione come conseguenza.
Consumi. A trentaquattro anni la fame di un’appartenenza, unica, solida, imperitura.
Consumi. A trentaquattro anni la speranza come “rischio da correre”.
Consumi. La parola. Come la voleva Majakovskij…che “… esploda nel discorso come una mina e urli come il dolore di una ferita e sghignazzi come un urrà di vittoria”.
Consumi. Lo spirito e le tradizioni. Che Yukio Mishima cercava di tenere saldi addosso a sé come valori supremi: “Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! E’ bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore  all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! E’ il Giappone! E’ il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo.”[2]
Consumi. L’eroismo. Perché, come diceva David Foster Wallace ” … il vero eroismo non riceve ovazioni, non intrattiene nessuno. Nessuno fa la fila per vederlo. Nessuno se ne interessa”[3].

Crepa. Vladimir Vladimirovič Majakovskij, per amore non ricambiato.
“A tutti. Se muoio, non incolpate nessuno. E, per favore, niente pettegolezzi. Il defunto non li poteva sopportare. Mamma, sorelle, compagni, perdonatemi. Non è una soluzione (non la consiglio a nessuno), ma io non ho altra scelta. Lilja, amami. Compagno governo, la mia famiglia è Lilja Brik, la mamma, le mie sorelle e Veronika Vitol’dovna Polonskaja. Se farai in modo che abbiano un’esistenza decorosa, ti ringrazio. […] Come si dice, l’incidente è chiuso. La barca dell’amore si è spezzata contro il quotidiano. La vita e io siamo pari. Inutile elencare offese, dolori, torti reciproci. Voi che restate siate felici”[4].

Crepa. Yukio Mishima, per patriottismo tradizionalista.
“La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre”[5].

Crepa. David Foster Wallace, per depressione.
“La persona che ha una così detta “depressione psicotica” e cerca di uccidersi non lo fa aperte le virgolette per sfiducia o per qualche altra convinzione astratta che il dare e avere nella vita non sono in pari. E sicuramente non lo fa perché improvvisamente la morte comincia a sembrarle attraente. La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi o io se ci trovassimo davanti alla finestra per dare un’occhiata al paesaggio; cioè la paura di cadere rimane una costante. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme. Eppure nessuno di quelli in strada che guardano in su e urlano “No!” e “Aspetta!” riesce a capire il salto. Dovresti essere stato intrappolato anche tu e aver sentito le fiamme per capire davvero un terrore molto peggiore di quello della caduta.”[6]

Produci, consuma e crepa. Lo dicevano ventisette anni fa i CCCP in Morire.
In sostanza di questo si tratta. Che tu viva per la pizza del sabato o per ideali romantici, che tu combatta ogni giorno o nessuno, che te ne accorga oppure no, produrrai e consumerai sempre qualcosa e sempre, ineludibilmente, morirai. L’unica differenza la farà la volontà, di mettere fine a una vita per tua scelta o di attendere che faccia da sé. Nessuna morale o presa di posizione, semplice cronaca.
E per chi si domandasse da che parte sto, io non sto da nessuna delle due.
Io sto nell’accettazione. Della sconfitta e dei cambiamenti.


[1] Yeats “Bugiardi e Innamorati”, Minimum fax 2011

[2] Discorso prima del suicidio rituale, Tokyo 25 novembre 1970

[3] Il re pallido, Einaudi – Stile libero 2011

[4] Biglietto di addio di Majakovskij.

[5] Biglietto di addio di Mishima.

[6] Infinite Jest, Einaudi – Stile libero 1996

I nostri “Ricordi di scuola” e i migliori anni della nostra vita

Giulio Gasperini
ROMA – Ciascuno di noi ha pochi ricordi indelebili, come quelli della scuola. A scuola cresciamo, diventiamo adulti, cominciamo a conoscere noi stessi e gli altri, ci confrontiamo con la vite e con la realtà, ci esageriamo le persone che vorremmo: e ci sorprendiamo a considerarli i migliori anni della nostra vita. Giovanni Mosca nella scuola trascorse pochi anni, come maestro. Di questo mestiere, a cui rinunciò per dedicarsi al giornalismo, i suoi “Ricordi di scuola”, editi nel 1968 da Rizzoli, sono una testimonianza preziosa e irrinunciabile: ci aiutano a capire come funzionasse la scuola, nel passato non troppo distante, ma, soprattutto, cosa “fosse” e dove avesse intenzione di andare.
Quel che di più importante, infatti, si evince dalla lettura di queste pagine, redatte dall’occhio d’un maestro giovane e con poca esperienza ma non per questo acerbo né ingenuo, edotto di teorie didattiche e formative ma anche consapevole del proprio entusiasmo e dell’opportunità della deroga, è il legame di profondo rispetto che si instaurava tra tutti i partecipanti all’azione: allievi, genitori, maestri, istituzione scolastica. Tutti contribuivano alla realizzazione del progetto educativo di cui la scuola era referente ultimo e, forse, più determinante. Tutti concordavano su quali fossero gli obiettivi principali, le possibilità di deroga, gli spazi per la flessibilità, i giusti ruoli e i giusti spazi, le giuste pretese e i corretti giudizi.
Non c’è, in “Ricordi di scuola”, nessun’atmosfera idilliaca né idealizzata, alla maniera di “Cuore”; nessuna deificazione di alunni professori o programmi scolastici. Semplicemente, uno sguardo tenero ma non indulgente, ironico e sagace dimostra quanto buono poteva esserci in un’istituzione che, di lì a poco tempo, sarebbe stata colpita in pieno dalla potenza dirompente e stravolgente delle proteste studentesche e del ’68. Parrebbe quasi dirci Mosca che la rivoluzione, se cieca e incontrollata, rischia di privarci anche dell’essenzialità e della positività del buono.
È un racconto lungo di tenerezza e di affetto, che si concreta in figure plastiche, reali, concrete, che maturano e che impartiscono preziosi insegnamenti. Sono personaggi magistralmente contornati, raccontati nel loro ambiente privilegiato ed esclusivo: personaggi che crescono e maturano, esattamente come fanno gli alunni, in uno scambio continuo di esperienze e di insegnamenti; mai univoci né unidirezionali. Personaggi come la signorina Cenci, che, amante del suo mestiere, persino d’estate, quando la scuola è vuota e abbandonata, percorre leggera i corridoi e va a dare l’acqua alle piante rimaste nella classe; o come il maestro Garbini, che al pari dei suoi studenti fantastica su un cavallo bianco; o ancora, come la maestra Marini che, con la prospettiva di un fiore e di un amore, saprà cambiare e diventare più buona e meno severa coi bambini del suo doposcuola.
Alunni e insegnanti sono protagonisti allo stesso tempo, sullo stesso palcoscenico: ma sono forse i maestri a ricevere la rivalutazione più importante, dalla pena intelligente dell’ex giovane maestro Mosca. Sono tutti insegnanti, cioè, che hanno a cuore il loro mestiere, che non difendono inutilmente gli alunni ma ne esaltano le peculiarità e i talenti, che, anche quando li sgridano, ne conservano in cuore e nelle intenzioni l’affetto più profondo: una scuola, tutto sommato, radicalmente giusta negli intenti.

“Four fish. Il futuro dell’ultimo cibo selvatico”

ROMA Slow Food Editore porta in libreria “Four fish. Il futuro dell’ultimo cibo selvatico” di Paul Greenberg, scrittore e da sempre appassionato pescatore. L’autore ci accompagna in un viaggio culinario alla ricerca dei quattro pesci che dominano i nostri menù – salmone, branzino, merluzzo e tonno – e svela il nostro rapporto compromesso col mare e la sua fauna. Solo tre decenni fa, quasi tutto il pesce che mangiavamo era selvatico. Oggi la sovrapesca dilagante e una rivoluzione biotecnologica senza precedenti ci hanno portati a un punto in cui il pesce selvatico e quello di allevamento occupano parti uguali di un mercato complesso. Alla fine abbiamo compreso che il nostro cibo è migliore se prodotto su piccola scala, in armonia con i ritmi della natura. “Four Fish” di Paul Greenberg analizza questo assunto dal punto di vista dell’oceano, in modo appassionato e brillante. I pesci di cui ci cibiamo meritano lo stesso tipo di rispetto e di coscienza politica dei prodotti della terra.

“Cedimenti”…realtà o fantascienza?

Silvia Notarangelo
ROMA – Quando la ventisettenne Martina eredita un po’ a sorpresa la villa in Sicilia di quel nonno appena conosciuto, non può certo immaginare a cosa andrà incontro. Ha pochi ricordi di quella grande casa affacciata sul mare e, tra quei pochi, non è compreso lo scheletro di un enorme edificio che va innalzandosi proprio di fronte la casa, un’autentica “porcata edilizia”. Inizia con questa amara scoperta “Cedimenti”, il suggestivo romanzo pubblicato da Edizioni Ambiente e scritto a quattro mani da due autrici che si firmano con lo pseudonimo Francesca Vesco.

Una scoperta inaspettata per Martina quanto tristemente nota alla comunità di Valduci, che convive con la piaga dell’abusivismo e la prepotenza di certi uomini, poco raccomandabili, con i quali “non è prudente mettersi contro”. Il costruttore in questione, responsabile dell’ennesimo ecomostro, ha un nome, Giacomo Iraci, e una reputazione non proprio cristallina. La frase con la quale si congeda da Martina, al termine di un incontro velatamente intimidatorio, sembra una vera e propria minaccia: “Accetti il mio consiglio, lasci questo posto”. Le parole, dure come pietre, scuotono la ragazza. All’improvviso, tutto le appare incredibilmente chiaro: e se il nonno non fosse morto in seguito ad un incidente ma ci fosse dietro la mano di qualcuno? Si spiegherebbe, così, la presenza nella villa di una pistola: forse l’anziano temeva per la sua incolumità. Ma come dimostrarlo? In assenza di prove, nessuno le avrebbe dato retta. Meglio, allora, agire da sola. Ma visto che nulla capita per caso, ecco che Martina si imbatte prima in Paolo, un giovane e affascinante ingegnere, poi in un attivista ambientalista, Giuliano Chimenti. Saranno loro a lasciarsi trascinare dal suo desiderio di giustizia in un gioco pericoloso, la cui posta in palio si farà sempre più alta. Una battaglia di cui diventeranno protagonisti alcuni insospettabili batteri di laboratorio, capaci di corrodere il cemento provocando inspiegabili quanto inarrestabili cedimenti.

“Le novità in libreria scelte per voi da ChronicaLibri”

Alessia Sità

ROMA – Cosa ci aspetta in libreria per questa primavera 2012? Sicuramente tante proposte interessanti che, come sempre, riusciranno a soddisfare i gusti di tutti i lettori. Si parte con le novità targate Edizione Ambiente che in questi giorni segnala l’uscita di “Boschi & Bossoli” di Michael Gregorio ed “Eating Planet 2012”, il primo libro del Barilla Center for Food & Nutrition realizzato in collaborazione con Worldwatch Institute, disponibile in libreria dal 26 aprile. Per gli amanti della storia, Isbn Edizioni suggerisce “I giorni veri” di Giovanna Zangrandiil diario della resistenza di una donna e di una grande scrittrice – pubblicato nella collana dedicata al Novecento italiano e ristampato a pochi giorni dalla ricorrenza del 25 aprile. Avagliano Editore ricorda il giornalista e scrittore Antonio Ghirelli, scomparso da poco, attraverso i suoi libri: “Un secolo di risate” e “Una bella storia”. Le Edizioni Pendragon annunciano l’imminente uscita di due coinvolgenti romanzi: “Adéu di Vasco Rialzo e “Ferro e Fuoco” di Romano De Marco. I giovanissimi potranno invece avventurarsi fra le novità di Carthusia Edizioni, che segnala “Io non mi separo” di Beatrice Masini e Monica Zani; “Il coraggio di pensare a Dio” di Domenico Barrilà ed Emanuela Bussolati; “C’era, lassù al castello” di Roberto Piumini e Gianni De Conno; “Gigin Zucchina” di Chiara Patarino ed Elena Prette. Da non perdere, inoltre, due importanti uscite: il toccante romanzo di Saverio Fattori “12:47 Strage in fabbrica” pubblicato da Gaffi Editore e “Saranno infami” di Alberto Paleari edito da Fandango Libri. Fra le sue novità, Mondadori annovera “Un perfetto sconosciuto” di Lesley Lokko, l’ultimo lavoro di Carlos Zafon Ruiz “Il prigioniero del cielo” e “Una ragazza da sposare” di Madeleine Wickham (Sophie Kinsella). E per finire il nostro viaggio alla scoperta delle tante novità editoriali, segnaliamo “Le nuvole di Timor” di Marco Ferrari, edito da Cavallo di Ferro, disponibile in libreria dal 17 maggio.

 

VerbErrando: Waiting for good

Veruska Armonioso
ROMA – “Ora che aveva superato la sorpresa si sentiva improvvisamente stanco. Si trascorre una vita intera preparandosi a qualcosa. Prima ci si sente offesi e si vuole vendetta. Poi si attende.”
Settant’anni fa, il grande scrittore ungherese Sándor Márai metteva al mondo Le Braci e raccontava l’oblio dell’attesa, scandendone con superba incandescenza tutte le fasi, tutte le conseguenze…le conseguenze. Perché quando si attende si è soli, da soli “… nella solitudine si impara a comprende ogni cosa, e non si ha più paura di niente”. Sándor Márai sapeva bene cosa volesse dire essere soli e attendere, perché lui era passato dai lustri di un successo e di una fama meritata, ai bui dei margini nei quali i cataclismi politici lo avevano confinato. Per lui attendere era la risposta. Aveva la fiducia completa nel’attesa che avrebbe portato qualcosa, avrebbe dato indietro qualcosa. A lui diede indietro domande…domande capitali come “Chi sei?… Cosa volevi veramente?”. Márai, attraverso la voce eterea di Krisztina, diceva:
“Alle domande più importanti si finisce sempre per rispondere con l’intera esistenza. Non ha importanza quello che si dice nel frattempo, in quali termini e con quali argomenti ci si difende. Alla fine, alle fine di tutto, è con i fatti della propria vita che si risponde agli interrogativi che il mondo ci rivolge con tanta insistenza.” Attesa come esercizio di pazienza, di fede, non di tattica di difesa come ci suggerisci Sun Tzu ne “L’arte della guerra”. Fiducia verso l’arrivo di qualcosa, di qualcuno. Di qualcuno che cambierà il corso della nostra vita, dei nostri destini.
Qualcuno che farà pur qualcosa, qualsiasi cosa, a patto che porti dei cambiamenti, come per Kavafis, ad esempio, erano i barbari:

“ – Cosa aspettiamo riuniti in piazza?

Oggi devono arrivare i barbari.
– Perché tanta inerzia nel Senato?
E perché i senatori siedono e non legiferano?
Perché oggi arrivano i barbari.
Che leggi hanno ormai da fare i senatori?

Quando verranno i barbari le faranno loro
[…]


– Perché tutto a un tratto questa apprensione, tutta questa agitazione?

(Come si sono fatte serie le facce.)
Perché si svuotano rapidamente le strade e le piazze

e tutti se ne tornano a casa pensierosi?
Perché si è fatta notte e i barbari non sono comparsi.

Anzi, qualcosa è venuto dai confini
e ha detto che di barbari non ce ne sono più.
E adesso cosa sarà di noi senza i barbari?

Quella gente, dopotutto, era un soluzione.”
L’attesa, la vita. L’attesa, la solitudine. La vita, la solitudine… La solitudine. Sentirsi soli. Essere soli. In solitudine ci si conosce, ma riconoscersi è un’altra cosa. Ci si riconosce solo da fuori, fuori dal proprio cerchio.
Kafka diceva che ci sono due regole per cominciare a vivere “… restringere il tuo cerchio sempre più e controllare continuamente se tu stesso non ti trovi nascosto da qualche parte al di fuori del tuo cerchio”. Ci richiamava alla solitudine e, nel farlo, usava la confortante immagine di una geometria che contenga, senza spigoli contro cui sbattere. Gli spigoli, gli angoli, sono loro che ci distraggono. La curiosità di andare a vedere cosa nascondono, ci spinge, crudelmente, a non prestare attenzione a quello che, invece, c’è di qua, davanti, dalla nostra parte, e ci spinge a perderci…certo, perdersi è perfetto se ci si conosce… se ci si
conosce, uscire dal cerchio è un bel gioco e rientraci è uno scherzo. Ma se non ci si conosce? Che cosa si fa se si esce dal cerchio senza conoscersi?
Kafka sapeva bene dell’esistenza di questo rischio e scelse il cerchio. La confortante rassicurazione di una geometria facile e comoda per tutti.
Ma la solitudine, che cos’è? E’ una sedia vuota accanto alla tua o una casa con una sola sedia? Riflettevo in questi giorni sul tempo e la solitudine. Sul sentirsi soli e l’essere soli.
Su come questi due diversi stati d’animo influenzino il tempo che viviamo per esperienze, scelte, reazioni, azioni. Su come questi due diversi stati d’animo influenzino, appunto, l’attesa.
Allora ho pensato a Beckett, a come abbia stravolto il binomio attesa-solitudine e a come lo abbia svuotato, e, nello svuotarlo, lo abbia riempito.

“ Estragone: mi domando se non sarebbe stato meglio restare soli, ciascuno per conto suo. eravamo fatti per seguire la stessa strada.
Vladimiro (senza offendersi): Non è sicuro.
Estragone: No, non c’è niente di sicuro.
Vladimiro: Possiamo sempre lasciarci, se credi.
Estragone: Ormai non vale più la pena. (Silenzio).

Vladimiro: E’ vero, ormai non vale più la pena. (Silenzio).

Estragone: Allora andiamo?
Vladimiro: Andiamo.
Non si muovono.”

Per Beckett la solitudine è in due, due che sono uno, perché nell’attesa si può non essere da soli ma si è comunque soli… come nell’attesa di una risposta, di un esito, di un arrivo… come nell’attesa della morte…un’attesa vuota, un’attesa stanca, un’attesa senza la fede cieca di Penelope, o senza la speranza di Borgna… un’attesa del niente. Un niente.
Esistono, però, altre attese. Sono quelle che ho scelto di vedere. Sono le attese che si vivono con il sorriso, quelle che si trascorrono con una trepidazione bambina, che ti ricorda quando aspettavi il Natale per scartare i regali. L’attesa per un nuovo incontro, l’attesa per una nascita, l’attesa per una nuova stagione… l’attesa per raggiungere un desiderio ed esaudirlo.
Che l’attesa di questo 25 aprile, amici, ci ricordi il sapore delle attese belle e ci faccia venire voglia di provarne ancora; che questa attesa sia liberazione e, nel renderci liberi, ci faccia sempre essere presenti a noi stessi e ci ricordi che la libertà è un dono per metà, per l’altra metà è una meta da raggiungere.
Che la libertà sia uno status in divenire e non un punto d’arrivo.
E che le nostre attese siano, comunque, una soluzione e ci portino verso un qualche dove!

 

Costantino Favafis, Aspettando i barbari, Passigli 2005

Franz Kafka, Aforismi di Zürau, Adelphi, 2004

Samuel Beckett, Aspettando Godot, Einaudi 1956
Eugenio Borgna, L’attesa e la speranza, Feltrinelli 2005
25 aprile giornata della liberazione d’Italia

“10 Libri per la Giornata Mondiale del Libro”

ROMA – In tutto il Mondo il 23 aprile il libro diventa protagonista di una festa fatta di parole ed emozioni. La Giornata Mondiale del Libro e del diritto d’autore, proclamata dall’Unesco nel 1995 per il 23 aprile – giorno dell’anniversario della morte di Miguel de Cervantes, William Shakespeare e festa di San Giorgio – ha lo scopo di far scoprire il piacere della lettura e di valorizzare il ruolo sociale degli autori. ChronicaLibri vuole suggerirvi i “10 Libri per la Giornata Mondiale del Libro”, 10 Libri per festeggiare le buone letture, i libri e gli autori.

1. Quaranta Sonetti di W. Shakespeare
2. Persuasione di J. Austen
3. Una sola moltitudine di F. Pessoa
4. La leggenda del santo bevitore di J. Roth
5. La foto sulla spiaggia di R. Riccardi
6. Memorie di un libraio di S. Beach
7. Una solitudine troppo rumorosa di B. Hrabal
8. Fuori catalogo. Storie di libri e librerie di R. Pinto
9. La manomissione delle parole di G. Carofiglio
10. Quaderno proibito di A. de Céspedes

 

“Bodas de sangre”, Lorca e le nozze insanguinate.

Marianna Abbate

ROMA – Un’atmosfera magica, inquietante e un tantino afosa- quella delle tragedie di Garcia Lorca. Uno dei miei autori preferiti, sia per la sua lirica pesante e carica di duende, sia per i versi più riflessivi, ma soprattutto per il suo teatro. Nel tempo in cui in Italia Pirandello cercava con impeto un autore per i suoi personaggi, molti personaggi avevano trovato il loro autore in Garcia Lorca. Un uomo piccolino, scuro e introverso- ma passionale, forte e rivoluzionario. Ha osato sfidare il regime, un po’ in stile manzoniano- raccontando la storia contemporanea vestita di passato, e questa sfida è venuta a costargli la vita. Bodas de sangre- Le nozze di sangue, sono solo un pretesto per avvicinarsi alla sua letteratura teatrale. Un mondo popolato da donne, dipinte in ogni sfaccettatura: deboli e prive di diritti, ma forti delle tradizioni, del coraggio e di un desiderio di sopravvivenza che gli uomini sembrano avere perduto, in qualche lontana battaglia per una Libertà senza volto.

In un mondo in cui il razionalismo sembra aver preso potere su tutto, in cui in tutto il mondo si celebra la guerra, unica pulizia, la Spagna sembra galleggiare in uno spazio-tempo lontano, astruso. Che vede protagonista il surrealismo di Dalì e Bunuel, e il ritorno in auge del Cante Jondo e della magia Andalusa.

Le nozze combinate, contro la volontà di una sposa innamorata, non possono avere luogo. Perché l’amore vero e la passione preferiscono la morte e la tragedia ad una vita spenta e non voluta. I protagonisti sono spinti da forze occulte, molto più grandi di quelle che guidano e regolano la società contemporanea. Forze che sono metafora della poesia, della passione della libertà. Quelle stesse forze che porteranno gli spagnoli nelle piazze a combattere. E ridaranno ai poeti il loro posto nel mondo.

Cronache Golose. Vita e storie di cuochi italiani

ROMA – “Tutto nella cucina di Pierangelini rimanda all’esecuzione, al tocco, allo stile. L’irripetibilità del gesto è forse la forza e al tempo stesso il limite più grande di questo re Mida capace di cambiare con le mani anche il sapore di un’alice semplicemente sfilettandola: è difficile trasmettere questo sapere a un allievo. Cosa, infatti, sostanzialmente mai successa. Il gesto irripetibile, il rapporto con la materia, la cessione di emozioni sono elementi fondamentali in questa cucina, tanto da impedire deleghe. Così come sono la  forza di uno stile riconoscibile tra mille, fatto di conoscenza maniacale  del prodotto, qualunque esso sia, senza trucchi o alchimie tecniche”.

Racconti di vita e di cucina, storie di brigate e di incontri fatali, ricette simbolo e introvabili. Questi gli spunti per narrare l’evoluzione della cucina italiana negli ultimi cinquant’anni. “Cronache Golose. Vite e storie di cuochi italiani” è il lavoro a quattro mani di Marco Balasco e Marco Trabucco per Slow Food Editore.
Dall’Harry’s Bar al Trigabolo, da Alfonso Iaccarino a Massimo Bottura, da Lidia Alciati ad Annie Féolde, dal risotto mantecato di Nino Bergese all’assoluto di cipolle di Niko Romito. Un appassionante viaggio nell’alta ristorazione italiana di oggi senza dimenticare i grandi di ieri. Per scoprire cosa nasconde un grande piatto.

Renbooks: quando il fumetto è letteratura

Giulio Gasperini
ROMA – In Italia il fumetto ha una tradizione nobile e mai esausta: da Tex Willer, di Gianluigi Bonelli, a Cocco Bill di Benito Jacovitti, da Diabolik delle Sorelle Giussani a Valentina di Guido Crepax passando per Sturmtruppen di Franco Bonvicini e le fortunatissime serie di Dylan Dog di Tiziano Sclavi e Corto Maltese di Hugo Pratt. La casa editrice bolognese Renbooks, di recente fondazione, ha deciso di puntare sul fumetto come concreta e non svilente forma letteraria, proponendo però un catalogo tutto speciale e unico: una serie di opere a tematica omosessuale. I primi esperimenti già offerti ai lettori italiani sono tutti esempi di come, soprattutto all’estero, il genere sia in pieno sviluppo e abbia già offerto interessanti esempi, sia come testualità che come espressione grafica.
Nel catalogo molti sono i manga giapponesi: si leggono al contrario e sorprendono per le tematiche lievi e dolci, così come sono i disegni, che spesso rappresentano situazioni casalinghe o comunque intime incursioni di vita. “Baciando il cielo”, di Kotaro Takemoto, è una raccolta di brevi storie, di vario tipo e con vari personaggi. Sono storie di teneri amori, di incontri furtivi, di tradimenti sofferti, di sguardi lanciati e non raccolti, di proposte timide, di ancor più timidi rifiuti, di ragazzi che tentano l’ultima carta per non veder fuggire il loro amore. Sono tutte situazioni che chiunque di noi, almeno una volta nella sua vita, si è (o si sarà, o si potrebbe) trovare costretto ad affrontare. E c’è della poesia, in queste storie: una quantità incessante di poesia, mai stucchevole ma sempre delicata e precisa, mai inutile. La poesia che c’è in ogni incontro, in ogni casualità, in ogni nuova decisione che si prende e in ogni nuova vita che, immancabilmente, ne deriva.
“Rica’tte Kanji?!” di Rica Takashima, invece, sorprende per l’ingenuità di questa “novellina a Tokyo”: abbandonata la campagna e armata soltanto del suo sorriso timido e ingenuo Rica Takashima si trasferisce a Tokyo per frequentare l’università e si troverà nel gorgo della vita di Ni-Chome, popolare quartiere gay di Tokyo, conquistandosi un futuro e piegando Miho, un’incallita mangiatrice-di-donne, a un tenero e casto amore. La sua dolcezza e la sua semplicità finiranno per ammaliare la ragazza più navigata, che si trova a fare i conti con un sentimento nuovo e mai provato prima, e con una gelosia che nasce dalla passione più vera e pura; e che, per questo, è anche più destabilizzante.
Diverso è “Shirtlifter”, del canadese Steve MacIsaac: le sue storie sono più oscure e complesse, pur trattandosi sempre di rapporti complicati e tradimenti seriali. I personaggi di MacIsaac si trovano spesso ad affrontare situazioni estreme, per le quali non sempre riescono a trovare soluzioni serene e pacifiche. Sono tutti racconti autobiografici, incentrati su sesso e politica, su diversità culturali e separazioni, su lontananze e strategie di accettazione. Si parla di malattie, di compromessi, di tradimenti per noia, di distanze caratteriali e comunicative: la vita è più dura, più difficile da masticare e più sofferto è anche lo scavo psicologico, intimo.
Tutte queste storie, però, hanno un punto in comune: si tratta di storie concrete, storie riproponibili nelle nostre quotidianità, nei nostri giorni personali e privati. E il fumetto non le sminuisce, per nulla; ma dona loro carne e fiato.