News: scelta la cinquina del Premio Campiello

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PADOVA – La cinquina del Premio Campiello 2013 è stata scelta. Saranno “L’ultimo ballo di Charlot” (Sellerio) di Fabio Stassi, “La caduta” (Nutrimenti) di Giovanni Cocco, “Tentativi di botanica degli affetti” (Bompiani) di Beatrice Masini, “Geologia di un padre” (Einaudi) di Valerio Magrelli e “L’amore graffia il mondo” (Mondadori) di Ugo Riccarelli a contendersi la 51esima edizione del Premio Campiello. Nella mattinata odierna nell’Aula Magna Galileo Galilei del Palazzo del Bo dell’Università degli Studi di Padova è stato assegnato anche il Premio Opera Prima a “Kate, io” di Matteo Cellini pubblicato da Fazi Editore con la seguente motivazione: “Opera di forte maturità e di elegante felicità stilistica, Cate, Io di Matteo Cellini (Fazi editore) racconta con leggerezza la condizione sofferente propria di chi, diciottenne e smisuratamente obesa, si trova a fare i conti non solo con se stessa e il proprio fisico, ma anche con una famiglia di autentici “eroi della dismisura”. Il racconto si sviluppa nel segno d’una tenera, amabile, sorridente autoironia proprio grazie allo spirito combattivo di Cate, tanto da farne quasi uno “stile di sopravvivenza”.

 

Istituito nel 1962 per volontà degli industriali del Veneto, il premio viene assegnato a opere di narrativa italiana. Nella sua storia il premio ha visto il successo delle opere in concorso confermato sia dalle vendite ma anche dalla trasposizione cinematografica di alcuni di esse. Oggi il Premio, ritenuto uno tra i più prestigiosi d’Italia e tra i più importanti nel panorama editoriale italiano, è un canale con il quale gli Industriali Veneti intendono offrire il loro contributo alla promozione della narrativa italiana e a incentivare e diffondere il piacere per la lettura nella consapevolezza che un premio trovi la sua massima ragion d’essere nel “creare nuovi lettori”.

 

“I Peggiori” di Chiara Zaccardi: quando il male serpeggia fra i banchi di scuola

i peggiori_chrL_recensioneGiorgia Sbuelz
ROMA 
– “I Peggiori” sono sette ragazzi che frequentano un costoso liceo privato a Cles, California. Figli ripudiati e incompresi di genitori fragili e assenti, hanno scelto la ribellione e la violenza per riempire il loro vuoto o semplicemente la loro noia. “I Peggiori” è anche il titolo del romanzo d’esordio di Chiara Zaccardi, pubblicato da Noubs Edizioni.  L’autrice ce li presenta uno ad uno, lo fa in maniera generosa, un capitolo a testa, scavando nell’intimo del loro vissuto e non risparmiandoci nulla: dettagli scabrosi, inclinazioni perverse, schemi distruttivi e autodistruttivi germogliati da infanzie disperate e amplificati dall’ambiente della provincia americana, dove imperversa il comandamento supremo del consumismo e dell’apparire, belli e ricchi, ad ogni costo.

Già il preambolo sembrerebbe una condanna per chiunque, eppure no. L’incubo deve ancora iniziare e lo scenario adoperato come incipit della tragedia è proprio il liceo che malamente li tollera. I ragazzi sono costretti a seguire un programma serale di rieducazione, così sei di loro, il settimo non si presenta, si ritrovano soli nell’aula magna della scuola. Presto vengono narcotizzati e caricati su un furgone. Al loro risveglio si ritroveranno prigionieri in uno scantinato, messi alle catene proprio da due insospettabili professori che li sottoporranno ad ogni genere di sevizia e tortura.

Da questo momento comincia la seconda parte del romanzo, la Zaccardi non lascia nulla all’immaginazione del lettore: ogni atto di violenza fisica e sessuale viene descritto con dovizia di particolari e gli aguzzini dimostrano una creatività sadica che lascia sbigottiti. La narrazione si fa concitata, il romanzo acquisisce un’unitarietà narrativa complementare al lungo preludio iniziale, che si snodava a singulti, come un sipario che si apriva appena per poi richiudersi repentinamente. E il sipario adesso si spalanca completamente sullo spettacolo dell’orrore, in un crescendo di situazioni violente e imprevedibili, dove la psicologia dei personaggi viene messa a fuoco per emergere e delinearsi, unendo il gruppo nella tragedia, come mai era stato possibile tra i banchi di scuola. Piani e soluzioni escogitati tra bagni di sangue che vedono l’alternarsi dei ruoli tra vittime e carnefici, come ogni romanzo horror che si rispetti. Tentate fughe, fughe e inseguimenti, in uno sprofondare inesorabile nell’abisso della crudeltà umana. Poi la salvezza… ma di chi? E a che prezzo?
Ci si aspetterebbe a questo punto che cali il sipario, lasciando il lettore alle sue amare riflessioni. Ancora una volta si rimane sorpresi. Nulla è mai come sembra, pare sussurrarci l’autrice.  Terza parte del romanzo: si contano le vittime. Qualcuno non ce l’ ha fatta, qualcun altro riporterà danni permanenti. Mutano le dinamiche familiari dei protagonisti e viene da domandarci se non sia questo il premio per l’orrore subito. I ragazzi sembrano risollevati, l’aspettativa è che qualcosa in loro sia cambiato… forse sì. Invece no. Lo si capisce dalla scelta di partecipare ad un famoso talk show, e dalla pubblicazione di un libro col resoconto particolareggiato del loro rapimento; il titolo è eloquente: “Tortura”.

Il lettore sorride, conosce questo romanzo, anzi lo sta finendo di leggere. Mancano solo poche pagine. Arriviamo al finale… Colpo di scena che ribalta tutto. Non avevamo forse detto che nulla è mai come sembra?

Ripercorriamo mentalmente il romanzo a ritroso, come fosse un vecchio video tape e lasciamo scorrere velocemente le immagini al contrario. Stoppiamoci al momento del talk show, dove il conduttore di grido pone la banale, eppure fatidica, domanda:
“Spesso si è soliti affermare che il confine tra il bene e il male è labile, e non sempre ben definito. Credete sia una frase corretta anche per questo caso?”
Il bisogno di identificare chi sia vittima e chi carnefice è atavico nei processi mentali umani. Serve un buono e un cattivo. Uno che si macchi della colpa, un altro che la espii. Lo sa bene la giovane autrice, che affronta la narrazione guizzando impeccabilmente da una parte all’altra di questo schema. Le parole vengono usate come proiettili e il linguaggio è crudo, epurato da qualsiasi eufemismo, diretto come un pugno. Ciniche constatazioni servite come perle di saggezza condiscono il ritratto di una certa gioventù, dannata dalla nascita, che non ha nessuna voglia di redimersi, anzi che nel vuoto esistenziale ci sguazza. Forse una nuova razza tenace frutto dell’evoluzione tecnologica e dell’involuzione dei rapporti umani. Questi i peggiori di cui si parla in questo prorompente esordio letterario. Questa la risposta di uno dei peggiori alla domanda del conduttore:
“Nei Vangeli Gesù dice: “il bene è ciò che ti rende libero”. Non è qualcosa di preciso. E’ molto più facile definire il male. Il male è ciò che opprime” .
Così Chiara Zaccardi ci fa guardare bene in faccia questo male che opprime, proponendocelo in tutte le sue macabre declinazioni e in manifestazioni che non avremmo mai avuto l’ardire di pensare. Ma non lo esorcizza, non è questo il suo compito, il suo compito è raccontarcelo abilmente nella forma migliore o, è il caso di dirlo, nella sua forma peggiore. Obiettivo decisamente centrato.

 

“A piedi in Valle d’Aosta”: la montagna anche d’estate.

A piedi in Valle d'AostaGiulio Gasperini
AOSTA – La montagna ha due stagioni: l’inverno e l’estate. Se la mente naviga subito ai picchi e alle discese innevate, bisogna considerare che anche l’estate ha le sue ricchezze. Perché in estate la montagna è un luogo da esplorare camminando, percorrendo sentieri e raggiungendo rifugi. Le due guide, “A piedi in Valle d’Aosta”, scritte da Stefano Ardito e pubblicate da Iter Edizioni (nella collana “A piedi in Italia”) sono uno strumento dettagliato e funzionale per conoscere le vie e i cammini più suggestivi. I due volumi comprendono 116 itinerari dell’Alta Valle e 132 della Bassa Valle, comprendo interamente il territorio della piccola regione, immersa tra le vette più alte d’Europa, dal Monte Bianco al Cervino, dal Monte Rosa al Gran Paradiso. Vengono esplorate tutte le valli, nominati i laghi e i castelli medievali disseminati sul territorio. Le informazioni sono dettagliate e precise, ogni sentiero è accompagnato da una cartina utile per capire partenze e arrivi. Ciascun sentiero è inoltre dotato di una pratica scheda che ne traccia brevemente le caratteristiche e fornisce tutte le informazioni utili per intraprendere la camminata, dal tempo di percorrenza alla difficoltà del sentiero. Le due guide “A piedi in Valle d’Aosta” si rivelano uno strumento utile, addirittura fondamentale, per cominciare a vivere la montagna anche d’estate, scoprendo le tante possibilità offerte e il tanto divertimento che può offrire. Perché la montagna non significa soltanto Cervinia e Courmayeur, ma anche vie immerse nel verde e nel profondo del bosco, che offrono la possibilità di un relax a contatto con la natura: niente di più naturale per rilassarsi e ricaricarsi a vita nuova!

L’amicizia è “Una stella nel buio”

una stella nel buio_recensione_chronicalibri ROMA“Dove vado? Vorrei scappare, proseguire per quella valle, là in fondo, dove l’erba diventa verde a mano a mano che ci si avvicina al Giordano. Vorrei entrare nel fiume e farmi portare dalla corrente, via, sotto un altro cielo, sotto alberi diversi dagli ulivi.” Una stella nel buio”, il libro di Lucia Tumiati pubblicato da Topipittori si affaccia nel panorama della letteratura per ragazzi come una bellissima e sorprendente novità. Con i disegni di Joanna Concejo, “Una stella nel buio” è la storia di due bambini, pastori, entrambi troppo giovani per un lavoro così duro, che si incontrano e condividono le piccole esperienze di ogni giorno. Le loro non sono esperienze comuni: siamo in Galilea all’epoca di Erode e i due protagonisti senza nome si incontrano al pascolo, camminano scalzi, passano le loro giornate al freddo dietro al bestiame e si sacrificano spesso per la famiglia. Pur avendo tutte queste cose in comune i due ragazzi sono molto diversi tra loro e sarà questa differenza a far nascere tra loro una grande amicizia.

Per loro è bello farsi forza a vicenda, ascoltarsi e capirsi. Nonostante uno dei due sembri più debole e solitario, le sue parole sembrano quelle di un adulto e la sua consapevolezza quella di un uomo. Perché il figlio di Maria e del falegname cela nel suo sguardo quella preoccupazione? E’ lui il figlio in pericolo? Come mai tutta questa confusione, eppure lui ha sempre una risposta che conforta e fa andare avanti, per questo è bello stargli vicino e ascoltarlo, anche se a volte, le sue parole suonano un po’ strambe. Così, anche l’altro bambino guarda al mondo degli adulti con più attenzione, ascolta le loro paure e osserva le loro titubanze.

 

Lucia Tumiati utilizza una scrittura delicata e precisa per narrare un commovente spaccato di vita comune di un ragazzo uguale agli altri ma diverso dall’umanità.

“Il ragazzo selvatico”: ChrL intervista Paolo Cognetti

Il-ragazzo-selvaticoMichael Dialley
AOSTA – “Il ragazzo selvatico” abbandona la città per ritrovare se stesso, abbandona gli agi per “l’idea più assoluta di libertà”, la montagna. Di questo e di molto altro parliamo oggi con Paolo Cognetti, autore de “Il ragazzo selvatico” il libro edito da Terre di Mezzo e già recensito da ChronicaLibri la scorsa settimana.

 

Leggendo il suo romanzo mi sono chiesto più volte che cosa l’abbia spinta a raccontare e analizzare così concretamente la situazione della montagna oggi, nel 2013. C’è qualche avvenimento che l’ha spronata oppure è un suo semplice interesse?

“Il ragazzo selvatico” in realtà è un diario. Passo diversi mesi all’anno in una baita in Val d’Aosta: la prima volta fu un’esperienza di eremitaggio, ora per fortuna ho i miei amici e un po’ mi sono inserito nella comunità locale. L’amore per la montagna risale all’infanzia, quando ci trascorrevo l’estate. Da grande volevo provare a viverci in modo radicale, così non ho cercato una casa in paese ma su in alto, a duemila metri, tra gli ultimi boschi e i pascoli estivi. In primavera lassù non c’era davvero nessuno. In quella solitudine e in quel silenzio il bisogno di scrivere è arrivato spontaneo, e così è nato questo libro.

 

Il protagonista del romanzo parte da Milano per rifugiarsi in una baita in montagna: questo ritorno alle origini, alle cose semplici, al punto dove l’uomo ha iniziato a prendere consapevolezza delle proprie capacità, è un viaggio che dobbiamo fare fisicamente o, secondo lei, è un viaggio interiore, da fare con la nostra anima e la nostra interiorità?

Un momento. Per chi è nato in città, come me, la “vita semplice” non è uscire a spaccare la legna o zappare l’orto, ma prendere la metropolitana o bere un cappuccino al bar. Per le persone con cui sono cresciuto è più semplice girare di notte per Londra o Berlino che farsi mille metri di dislivello a piedi, e queste sono le nostre origini, così come quelle di un montanaro che si sente a suo agio in un bosco, o di uno che è nato al mare e fin da bambino nuota come un pesce. Per me la città non è caotica, angosciante, disumana; è sempre stata casa mia e per molto tempo ci ho vissuto bene. Poi ho sentito il bisogno di mettermi alla prova. Di stare da solo, vivere in un ambiente selvatico, usare il corpo, imparare ad arrangiarmi. Di certo c’era il fascino dell’avventura. Credo che uno possa fare un’esperienza del genere anche trasferendosi in una città straniera o imbarcandosi su una nave mercantile: ogni viaggio vero, e cioè rischioso, solitario, lontano dal mondo conosciuto, diventa un’esplorazione interiore.

 

Paolo CognettiL’analisi della montagna è straordinaria, vengono messi in luce punti di forza e debolezze che, comunque, arricchiscono sempre l’uomo. Le Alpi oggi vengono vissute in due modi diversi e opposti tra loro: uno è l’atteggiamento nel voler conservare la montagna, facendola diventare un museo, un luogo di arretratezza, secondo una visione che l’ha condannata per moltissimi secoli; l’altro è quello della sempre più intensiva urbanizzazione per rendere appetibile la montagna a tutti i cittadini che, se si spostano, vogliono in ogni caso trovare le stesse comodità della vita in città. Secondo lei è possibile trovare una terza via?

A me pare che la montagna di una volta sia finita per sempre, e questo non è un bene né un male. Nel senso che non era una vita più sana o felice della nostra, e infatti gli stessi montanari non sono più disposti a farla: non sono solo i cittadini a desiderare le comodità, su, proviamo a chiedere a un montanaro di oggi di rinunciare alla macchina o alla televisione o al cellulare, di salire in alpeggio a piedi, di lavorare senza mezzi a motore o di mangiare polenta e latte a pranzo e cena… D’altra parte, quando si parla di urbanizzazione, immagino ci si riferisca alle stazioni turistiche, perché il resto della montagna mi sembra tutt’altro che urbanizzata, anzi abbandonata, inselvatichita. I turisti vogliono piste da sci, alberghi, ristoranti, seconde case; i montanari vogliono lavoro perciò costruiscono quello che chiedono i turisti, e in più strade, dighe per fare un po’ di soldi vendendo l’acqua, impianti di risalita: questa è la montagna italiana degli ultimi cinquant’anni, un immenso cantiere edile, e non mi piace per niente.
Credo che adesso stia succedendo qualcosa di nuovo. Forse la terza via è quella di chi in montagna vuole andare ad abitarci, perché cerca uno stile di vita diverso. Gente giovane, che spesso ha una sensibilità ecologica più spiccata di chi ci è nato. Non tutti ci andiamo a fare i pastori o i contadini, a cercare una vita fuori dal tempo: tanti di noi ormai lavorano in rete, però sentono il bisogno di avvicinarsi alla natura e magari vogliono dare ai loro figli un ambiente diverso in cui crescere. Quali sono le esigenze di persone così? Io vorrei coltivare l’orto, però ho bisogno anche dell’adsl; adoro girare nei boschi ma devo anche raggiungere un aeroporto in tempi accettabili. Il prossimo autunno mi sposterò dalla mia baita in Val d’Aosta direttamente a New York. Ecco, vorrei vivere nella natura ma non fuori dal mondo. Le Alpi sono perfette in questo senso: un ambiente naturale magnifico, non lontano dalle grandi città e dal cuore d’Europa. Dovremmo salvaguardarle come un tesoro prezioso e allo stesso tempo renderle accessibili, attrezzate per lavorare e abitarci. Per me il futuro è questo.

 

Quanto c’è di suo all’interno del romanzo? Sono situazioni e luoghi di fantasia o reali?

Come dicevo non c’è nulla di inventato. Sono vere le persone, i luoghi e le cose che mi sono capitate. Ho omesso il nome del paese, ma credo che almeno la zona sia facilmente riconoscibile per chi frequenta questi posti. L’unico elemento di finzione è che la mia avventura nel libro dura sei mesi, da maggio a ottobre; nella realtà sono stati diversi anni.

 

Quali sono le 3 parole che, come scrittore, preferisce?

Le parole mi piacciono tutte, sono gli uomini che le sviliscono. Provo pena per quelle che, per essere troppo frequenti nell’uso, perdono di significato. E ancora di più per le parole delle frasi fatte e dei luoghi comuni, parole che abbiamo ridotto a gusci vuoti. Ogni volta che ne scriviamo una dovremmo ricordarci che cosa vuol dire davvero, e restituirle il suo valore.

Dalla carta a facebook, il racconto di Amélie Nothomb diventa corale

amelièROMA – Amélie Nothomb è tra gli scrittori contemporanei più amati e prolifici: dal 1992 ha pubblicato più di venti romanzi tradotti in 45 paesi diversi. I suoi libri, editi in Italia da Voland, riscuotono sempre un grandissimo successo; l’ultimo di questi successi è “Barbalù”, il romanzo che diventerà presto un film diretto da Daniel Auteuil. Come si addice allora, a ogni star 2.0, anche Amélie Nothomb entra in rete e regala ai suoi tanti fan italiani la possibilità di scrivere insieme un grande racconto. Dal 27 maggio al 7 giugno 2013, infatti, partendo dall’incipit di un racconto dell’autrice franco-belga inedito in Italia, gli utenti di Facebook avranno l’opportunità di far proseguire la narrazione in base alla loro creatività, con una sorta di scrittura collettiva. L’iniziativa, ideata e lanciata da GoodBook.it  in collaborazione con la scrittrice franco-belga e l’editrice Voland, ha delle semplici regole: ogni frase aggiunta dovrà avere un senso logico e una lunghezza massima di cinque righe. Al termine di questo divertente esperimento, Amélie leggerà il “racconto collettivo” e il risultato, insieme al racconto inedito scritto dall’autrice (download in pdf), verrà pubblicato su Facebook.

“La donna lumaca” di Rosaria Iodice

La-donna-lumaca-Lupo-editoreAlessia Sità

ROMA – “Solo quando ti rendi conto che vivi in compagnia dei tuoi ricordi capisci che è finita. Ma il cuore ti cade a pezzi se hai troppi rimpianti con cui fare i conti.”

E’ con questa profonda riflessione che ha inizio il romanzo di Rosaria Iodice, “La donna Lumaca”, pubblicato da Lupo Editore. Angela ha trascorso un’intera esistenza cercando di assecondare le convenzioni di un’epoca, trascurando e dimenticando se stessa. Ha sempre sacrificato la sua felicità nella morsa dei sensi di colpa e dell’autocensura, che solo a tratti è riuscita ad addolcire in un momento estremamente delicato nella sua vita: la maternità. A fare da sfondo alle vicende della protagonista è l’Italia del secondo Novecento, con tutti i suoi conflitti e le sue rivoluzioni, che ne hanno segnato indelebilmente il corso della storia. Angela ha visto la guerra, ha conosciuto la sofferenza, è figlia delle turbolenze di una società in cui l’aborto oltre ad essere “una tragedia intima” è illegale e perseguibile dal codice penale. E sarà proprio l’Amore a cambiare totalmente la sua vita. L’incontro con uomini sbagliati, le scelte difficili e dolorose, plasmeranno il cuore e la mente della futura Nanda, la quale sentirà per sempre la necessità di espiare un passato infelice. In un periodo storico in cui le donne non hanno gli stessi diritti degli uomini, solo il coraggio di Teresa – la caporeparto della sartoria in cui Angela lavora durante gli anni della sua gioventù – le svelerà l’esistenza di un universo femminile, fatto di diritti e di reciproco aiuto. Nonostante tutto, però, l’inguaribile insicurezza e i pregiudizi del tempo, rappresenteranno continuamente un ostacolo nella sua vita. Dietro al timore di perdere la sua unica vera felicità- rappresentata dalla figlia Roberta – la protagonista cela un’altra grande paura: quella di ritornare ad amare o forse imparare ad amare ed essere amata per la prima volta. A segnare la vita di Angela-Nanda non saranno solo le proprie vicissitudini, ma anche tragici eventi, come il terremoto dell’Irpinia del 23 novembre 1980. Da allora, l’aria di precarietà inizia a farsi sempre più pressante. “I terremoti nella vita non sono soltanto quelli provocati dalle placche della terra e dal Vesuvio che mugugna in sordina. Ci sono terremoti che ci cambiano dentro e che fondamentalmente segnano il passaggio tra un prima e un dopo nelle nostre vite”.

Il romanzo di Rosaria Iodice diventa metafora dell’incapacità di vivere liberandosi dalle proprie paure, insicurezze e dai demoni che abitano la mente e il cuore. Il guscio di lumaca dentro cui Angela si nasconde, per fuggire la cattiveria del mondo, diventa impenetrabile nel momento in cui decide di cambiare la sua identità in Nanda. “La donna lumaca” è un romanzo fatto di attimi di vita quotidiana, immersa in un contesto socio-politico-culturale difficile, che inevitabilmente condanna la protagonista a un’esistenza di menzogna e spaesamento. Nonostante tutto, però, Rosaria Iodice riesce a creare quel lume di speranza che prelude a un futuro di riscatto.

Le ricette declinate a letteratura in “Le relazioni culinarie”.

Le relazioni culinarieGiulio Gasperini
AOSTA – Niente è sensuale come il cibo, coi suoi colori i suoi sapori i suoi odori. In “Le relazioni culinarie”, sorprendente romanzo di Andreas Staikos, edito in Italia da Ponte alle Grazie nel 2001, sono proprio le ricette le assolute protagoniste, perché è intorno a loro che la trama si sviluppa. Due uomini che abitano uno di fianco all’altro coltivano due passioni in comune: una per la cucina e una per la stessa donna, che riesce a gestire e mantenere una relazione con entrambi.
La rivalità dei due uomini diventa però amicizia, che si costruisce man mano, si solidifica e si rafforza nella prospettiva dello stesso amore (per lei) ma principalmente nell’ottica della stessa passione (quella culinaria). Il disvelamento della situazione, la consapevolezza di amare la stessa persona, la sorpresa nello scoprirsi così simili son momenti, snodi della vicenda, sottolineati dagli odori, dai profumi, dalle intuizioni ai fornelli che si concretano attraverso finestre aperte e terrazze adiacenti, attraverso visioni immaginate di pentole sfrigolanti e di forni incandescenti. La cucina diventa il luogo perfetto, l’ambiente privilegiato per far accadere coincidenze.
Le ricette protagoniste sono quelle tipiche della cucina greca, dalla moussaka ai dolmades, dalla youvarlakia al patsàs. Sono tutte narrate nel romanzo, usate come suture tra quadri e situazioni diversi, fino ad arrivare a scandire le fasi della lotta tra i due uomini per il possesso della donna; ma lei mai sarà di nessun dei due, lasciando a entrambi l’illusione del loro potere e un futuro di rimpianti da gustare in compagnia. Le ricette diventano quasi pozioni, formule segrete che conservano, nonostante la spiegazione, degli elementi di mistero; sono piccoli ricami di sentimento che non vengono interamente svelati, ma conservano gelosamente zone d’ombra, nei tempi di cottura, nell’esatto tempo di marinatura, nelle proporzioni tra ingredienti. La storia, tutto sommato, fa da cornice ampia: tutta la vicenda ruota intorno all’abilità culinaria dei due, che pare l’unico elemento di interesse per la donna, una dispotica e viziata creatura che non conosce pentimento né vergogna. Gli ingredienti, i passaggi, le misure: sono un canto, un salmo incessante che piove sulle vite dei protagonisti della storia per renderle meno tristi e grigie, meno intrappolate in una quotidianità che, nonostante non sia propriamente modesta, diventa però carceriera.
In “Le relazioni culinarie” diventa letteratura anche la semplice ricetta, che si carica di aspettativa e di attese, di prospettive erotiche e amorose, mentre vengono snocciolate dalla donna come irresistibili preliminari, come vere e proprie serenate d’amore: “Sono coralli, coralli di riccio di mare annegati in un cucchiaio d’acqua dell’Egeo”.

“Oh…” stupore e follia nel nuovo libro di Djian

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Luigi Scarcelli
Parma
“Il demonio si impossessa di un corpo ventiquattr’ore su ventiquattro o vi penetra solo a momenti?”La storia, problematica e controversa, di una donna di cinquant’anni é trattata da Philippe Djian nel libro “Oh…” nuova uscita della casa editrice Voland.

 

Michéle, questo il nome della protagonista, è una produttrice cinematografica di successo, con una vita molto complessa: il suo passato è terribilmente segnato dalla figura del padre, il cosiddetto “mostro d’Aquitania”, in carcere da trent’anni per aver fatto una strage a danno di innocenti bambini.  Per questo vive una giovinezza tremendamente difficile, una identità pesante da portare, ed è aiutata solo dalla madre, la controversa Irène e da Richard, fidanzato che sarebbe diventato suo marito. Nel presente Michele si è in parte riscattata, è infatti una donna di successo, rispettata  ma ancora al centro di una famiglia problematica: ormai separata da Richard, madre di un figlio,Vincent, immaturo e scontroso, convinto di costruire una vita con l’opportunista Josie, neomamma di Edouard. Unica vera confidente è Anna, sua amica e socia lavorativa alla quale però nasconde di avere una relazione con il marito Robert.

E il futuro? è proprio da qui che inizia il romanzo: Michéle è stata appena vittima di uno stupro in casa sua e dovrà capire chi è stato il suo violentatore, del quale non sa nulla e neanche immagina l’identità. Intanto la sua vita procede tra alti e soprattutto bassi: il rapporto con Vincent, la relazione clandestina e ormai priva di passione con Robert, l’invidia per la nuova fidanzata del suo ex marito Richard andranno di pari passo con la ricerca del violentatore e l’entrata in scena di Patrick, misterioso vicino di casa.

Il libro si legge tutto d’un fiato: è suddiviso in soli due capitoli,di cui il primo è la quasi totalità del romanzo mentre il secondo è l’epilogo, e le vicende della vita quotidiana di Michèle si accompagnano al ritmo quasi da thriller della ricerca dello stupratore.

Molto interessante è il modo in cui viene delineata la psicologia della protagonista: il suo minimizzare lo stupro, non volerlo denunciare per “quieto vivere”, il rapporto problematico con la madre e il marito da cui è separata ma del quale non sopporta dover conoscere la nuova bella e giovane fidanzata, il tutto sottolineato dalla narrazione in prima persona della protagonista. Philippe Djian scrive la storia di una donna, una donna la cui vita è attraversata dal lato oscuro e macabro che si manifesta negli uomini  (il padre, Robert, il misterioso stupratore) che ne entrano a far parte.

“L’ Italia in presadiretta. Viaggio nel paese abbandonato dalla politica”

l'italia in presadirettaROMA – Non facciamo politica e non parliamo quasi mai di politica, ma di informazione sì. Per questo oggi parliamo di “L’ Italia in presadiretta. Viaggio nel paese abbandonato dalla politica” di Riccardo Iacona (Chiarelettere).

Mentre intorno all’informazione si fa terra bruciata, le inchieste di Riccardo Iacona rappresentano una delle poche finestre ancora aperte sull’Italia. In questo libro Iacona racconta il paese che ha visto. Tra la gente, registrando storie, rabbia e passioni. In presa diretta. Con i magistrati e gli uomini delle forze dell’ordine che combattono una battaglia solitaria contro la ‘ndrangheta. Negli uffici pubblici, documentando, telecamera nascosta, come si ottengono le autorizzazioni a costruire eludendo la legge. In provincia di Napoli, dove da anni il tribunale è in una sede provvisoria, senza vigilanza né metal detector: “Qui si può entrare anche con un bazooka”. Sul Canale di Sicilia, tra uomini, donne e bambini sdraiati nei barconi con i corpi ustionati dal carburante rovesciatosi. E ancora la scuola al fallimento, il grande business dell’acqua ai privati, gli affitti pazzi e la politica inesistente sulla casa. Questa è l’Italia che la televisione non vorrebbe più raccontarci.