"Giovanna d’Arco": le nuove confessioni d’una donna (forse martire e fatta santa)

Giulio Gasperini
ROMA –
Giovanna d’Arco, la pulzella d’Orléans, morì veramente arsa sul rogo? Era Giovanna quella donna condannata e incappucciata che fu sacrificata alla punizione suprema, con l’accusa d’essere strega ed eretica ma con la reale motivazione d’una vergognosa e umiliante sconfitta militare? Maria Luisa Spaziani recupera non soltanto una versione differente e divergente della storia ma persino un metro popolare della poesia italiana per ridare voce, consapevole, all’eroina del Medioevo, a una donna che fu bambina, che fu soldato, che fu martire in uno spazio ridotto al capogiro, e alla fine, come riscatto dei colpevoli, riverita come santa. “Giovanna d’Arco” (Marsilio, 1990) è un poemetto in ottave, il metro dei canti popolari e poi cavallereschi (quello, per intendersi, dell’Orlando Furioso e della Gerusalemme Liberata), anche se la Spaziani non lega gli endecasillabi con le rime, ma li lascia sciolti, più ariosi; li fa respirare e a noi ci culla nella loro musicalità ammaliante.

La primavera di Giovanna cominciò nel momento della sua vocazione, grazie a quell’angelo che scese sicuro e potente a chiamare chiunque all’azione: Giovanna sentì e Giovanna partì, giovane giovane e insicura persino del suo nome. Si fidò della voce. E la stessa voce la salvò, la preservò dalle fiamme che bruciarono un altro corpo e la protesse dall’offesa, dalla quale fu purificata e riscattata per un umano pentimento di chi, quella fanciulla, l’aveva sacrificata e fatta morire. Giovanna però visse, perduta in un luogo remoto, amata da un uomo che sapeva di non essere riamato e che, per non soffrire più, partì volontario per una terra dalla quale sapeva che difficilmente sarebbe tornato.
Giovanna soffrì, nell’esilio; soffrì la lontananza dai campi, dalla polvere, l’inedia che assoggetta anche l’animo più nobile. Lei volle sempre fare, agire, per servire un bene più grande di lei. In quel castello, umido e buio, non trovò amore, né gioia. In quel riposo forzato, in quella noia paralizzate, Giovanna si sentì fors’anche in colpa, per esser fuggita, suo malgrado, al destino per lei apparecchiato: nessuna fiamma l’aveva arsa, nessuna morte l’aveva accolta.
E decise di tornare, un’ultima volta, a calpestare quella terra che l’aveva vista protagonista di imprese leggendarie. Tornò, incauta, a Orléans; lì la riconobbero, perché la vera pure d’animo non si può nascondere. L’acclamarono quasi regina, la celebrarono già santa. Ma la Pulzella doveva esser morta, perché è “difficile spiegare, a chi è mortale, come la morte può fingersi vita”.

"Altri seguiranno": un testimone che fu vero martire.

Giulio Gasperini
ROMA –
Col sangue scrisse le sue poesie Alexandros Panagulis. E le imparò a memoria, perché anche se gliele avessero sequestrate, sarebbe stato sempre in grado di ricordarle. Le scrisse, Alekos, durante la disumana prigionia nel carcere di Boyati, in quella cella loculo progettata e costruita appositamente per lui, per contenere la sua furia e il suo urlo di libertà. Era il 1968; per Panagulis, dopo l’attentato fallito al capo della Giunta dei colonnelli (e promotore del colpo di stato) Georgios Papadopoulos, cominciarono i duri e oscuri anni delle torture e delle violenze, che trovarono un prepotente sfogo creativo in queste poesie che, di nascosto, riuscirono a esser spedite fuori dal carcere e a esser pubblicate. In Italia, meritarono l’ammirazione di Pasolini e il Premio Viareggio. Flaccovio, editore di Palermo, nel 1990, le ha ripubblicate: “Altri seguiranno”, più che titolo d’una silloge, infatti, vuol essere un ammonimento, un auspicio; ma, ancor di più, una certezza d’avvenire.

“Un uomo” è stato definito, Alekos, da Oriana Fallaci; lei seppe, in un libro oramai leggendario, trasformare la sua fiaba, la fiaba dell’eroe che muore ucciso da tutti, in un ruggito, in un grido da frantumare la gola, in un urlo di indocile umanità. Lei lo ha trasformato, universalmente, nel paradigma assoluto della libertà; lei lo ha reso l’eroe per antonomasia, il combattente per la libertà somma, il condottiero dal coraggio indomito ma anche dell’incontentabile irrequietudine. Lei lo ha presentato, però, anche come un poeta uno di quelli che sapevano (e ci credevano) che la poesia potesse avere una parte fondamentale nella ricerca e nella lotta per la libertà: un poeta, insomma, che considerasse la poesia come azione, come ‘fare’, e non soltanto come mero esercizio di forma e stile.
Alekos ha sempre cantato la sua utilità, di persona ribelle, ma non la sua necessarietà, in una umile certezza di essere soltanto colui che mostra quella strada che poi gli altri dovranno percorrere: non importa se lui cadrà, non importa se sarà sacrificato, perché il suo messaggio sarà tramandato, sarà sventolato come vessillo di libertà, e altri seguiranno nella sua eroica impresa. Fiducioso, Alekos!, ottimista della forza che i profeti hanno sulle masse, della bontà del loro insegnamento. Ma i profeti, si sa, finiscono per urlare nel deserto, riempiendosi la bocca di sabbia e di sempre assediante frustrazione.
Panagulis scriverà di non poter essere vinto; di esser sicuro che il suo messaggio, la sua Idea, portata insieme alla Croce, sarà un monito (e un faro) per tutti colore che, dopo di lui, verranno. La storia, purtroppo, ha dimostrato altre verità, altre inevitabili omertà. Come quella sulla sua morte; senza reali condanne.