Carlo Mazzoni racconta i suoi “Due Amici”

Silvia Notarangelo
Roma – Esistono dei libri da cui è difficile separarsi, perché la lettura scorre veloce, la storia è incalzante, ogni riga aggiunge quel qualcosa di nuovo e, a volte, inaspettato, che costringe, inevitabilmente, ad andare avanti. Due amici”, il romanzo di Carlo Mazzoni pubblicato da Fandango, appartiene a questa categoria. ChronicaLibri ha intervistato l’autore:
Lei racconta la storia di un’amicizia che sembra perfetta. Talvolta sbilanciata, conflittuale, eppure indissolubile. Esiste davvero un sentimento così forte, capace di superare tutto, litigi, incomprensioni, persino tradimenti? Come è nata l’idea di questo romanzo?
Non so se esista, un’amicizia così forte. Non so se esista un legame, fra due persone, così forte. A volte ci credo, a volte ne dubito.

Questa è l’idea, la domanda alla base del romanzo. Sono cresciuto credendo a un’amicizia, vivendo un’amicizia e lottando per essa. Oggi questo legame è incrinato, per cui la mia domanda è più aperta che mai.

Ho letto che si è diplomato al Conservatorio. Anche Gio, uno dei due protagonisti, studia musica e suona il pianoforte. Ci sono altri elementi autobiografici?
Io sono in parte Matteo e in parte Gio. Io soffro di diabete da quando ho dieci anni, vivendolo così come ho scritto per Matteo. Il mio carattere somiglia a quello di Matteo, la mia infanzia è simile a quella di Matteo. Sono sempre io però che partivo per New York come Gio nel libro, io che prendevo la distanza dal mio amico per cercare la mia identità. Molti dettagli mescolano le due figure, come l’esame al Conservatorio di Alessandria che nel romanzo lascio al personaggio di Gio. 
“Due amici” ripercorre l’evoluzione di una patologia, il diabete, che, pur condizionando la vita di Matteo, non gli impedisce di continuare per la sua strada, di realizzarsi, di divertirsi. Tralasciando i risvolti più drammatici a cui Matteo andrà incontro, pensa che la possibilità di convivere con la malattia, senza, per questo, privarsi di nulla, possa essere una chiave di lettura del libro?
Il diabete è una lezione di rigore, di concentrazione. Il diabete, la malattia in genere, ti costringe a chiederti dove davvero vuoi andare, cosa davvero ti interessa nella vita. Una malattia ti lascia precario davanti al futuro, amplia la tua nostalgia per il passato, ti fa sperare di vivere ogni momento che ti è concesso al limite delle tue forze. Il diabete per me è, oggi mi viene da dirlo, un sintomo di fortuna: una malattia che davvero mi ha insegnato moltissimo.
Il romanzo risulta estremamente coinvolgente grazie anche ad uno stile asciutto, ad un ritmo serrato, in cui non c’è mai una parola di troppo. Una scelta voluta?
 Ho lavorato molto all’italiano di questo libro. Cercando una grammatica più lineare, la costruzione del periodo più logica. Leggendo un qualsiasi articolo di giornale, quando incontrate una frase principale che inizia con ‘ma’ o ‘eppure’, provate a rileggerla togliendo la congiunzione: il significato verrebbe espresso meglio. In italiano è sbagliato iniziare una frase con una congiunzione, nonostante oggi tutti scrivano così. 
Cito dal testo “Quando tocchiamo il fondo o crediamo di toccarlo, ci calmiamo, smettiamo di avere paura e iniziamo a sopravvivere – non a vivere – a sopravvivere”. Che cosa contraddistingue, secondo lei, una vita “vissuta” da una legata a semplice “sopravvivenza”?
Vivere a pieno è quello che Matteo si impegna a fare, quello a cui costringe Gio – senza tollerare debolezze, scorciatoie, facilitazioni. Vivere in pieno significa non accontentarsi, credere in quello che si fa, avere uno scopo e essere in corsa per realizzarlo. Vivere significa mettersi in discussione, non essere mai sicuri di niente e curiosi di tutto, rifiutare le abitudini. Vivere significa moltiplicare i propri talenti – riprendendo la frase del Vangelo che cito in ogni mio romanzo, a cui io credo tantissimo. Chi nasconde la propria mina e la restituisce così come l’ha ricevuta: costui non vive, ma sopravvive.
Può svelarci qualche progetto futuro? Sta lavorando ad un nuovo libro?
Sto lavorando a un nuovo romanzo. Ci vorrà molto tempo prima di vederlo compiuto. A novembre lancerò in rete “Il fuoco”, a cui sto lavorando dall’inizio di quest’anno, su Itunes, Netflix e Youtube. E’ una canzone, una melodia, una poesia, una preghiera: la preghiera di Gio davanti al suo amico che muore.

Lei racconta la storia di un’amicizia che sembra perfetta. Talvolta sbilanciata, conflittuale, eppure indissolubile. Esiste davvero un sentimento così forte, capace di superare tutto, litigi, incomprensioni, persino tradimenti? Come è nata l’idea di questo romanzo?
Non so se esista, un’amicizia così forte. Non so se esista un legame, fra due persone, così forte. A volte ci credo, a volte ne dubito. Questa è l’idea, la domanda alla base del romanzo. Sono cresciuto credendo a un’amicizia, vivendo un’amicizia e lottando per essa. Oggi questo legame è incrinato, per cui la mia domanda è più aperta che mai.

Ho letto che si è diplomato al Conservatorio. Anche Gio, uno dei due protagonisti, studia musica e suona il pianoforte. Ci sono altri elementi autobiografici?
Io sono in parte Matteo e in parte Gio. Io soffro di diabete da quando ho dieci anni, vivendolo così come ho scritto per Matteo. Il mio carattere somiglia a quello di Matteo, la mia infanzia è simile a quella di Matteo. Sono sempre io però che partivo per New York come Gio nel libro, io che prendevo la distanza dal mio amico per cercare la mia identità. Molti dettagli mescolano le due figure, come l’esame al Conservatorio di Alessandria che nel romanzo lascio al personaggio di Gio.

“Due amici” ripercorre l’evoluzione di una patologia, il diabete, che, pur condizionando la vita di Matteo, non gli impedisce di continuare per la sua strada, di realizzarsi, di divertirsi. Tralasciando i risvolti più drammatici a cui Matteo andrà incontro, pensa che la possibilità di convivere con la malattia, senza, per questo, privarsi di nulla, possa essere una chiave di lettura del libro?
Il diabete è una lezione di rigore, di concentrazione. Il diabete, la malattia in genere, ti costringe a chiederti dove davvero vuoi andare, cosa davvero ti interessa nella vita. Una malattia ti lascia precario davanti al futuro, amplia la tua nostalgia per il passato, ti fa sperare di vivere ogni momento che ti è concesso al limite delle tue forze. Il diabete per me è, oggi mi viene da dirlo, un sintomo di fortuna: una malattia che davvero mi ha insegnato moltissimo.

Il romanzo risulta estremamente coinvolgente grazie anche ad uno stile asciutto, ad un ritmo serrato, in cui non c’è mai una parola di troppo. Una scelta voluta?
Ho lavorato molto all’italiano di questo libro. Cercando una grammatica più lineare, la costruzione del periodo più logica. Leggendo un qualsiasi articolo di giornale, quando incontrate una frase principale che inizia con ‘ma’ o ‘eppure’, provate a rileggerla togliendo la congiunzione: il significato verrebbe espresso meglio. In italiano è sbagliato iniziare una frase con una congiunzione, nonostante oggi tutti scrivano così.

Cito dal testo “Quando tocchiamo il fondo o crediamo di toccarlo, ci calmiamo, smettiamo di avere paura e iniziamo a sopravvivere – non a vivere – a sopravvivere”. Che cosa contraddistingue, secondo lei, una vita “vissuta” da una legata a semplice “sopravvivenza”?
Vivere a pieno è quello che Matteo si impegna a fare, quello a cui costringe Gio – senza tollerare debolezze, scorciatoie, facilitazioni. Vivere in pieno significa non accontentarsi, credere in quello che si fa, avere uno scopo e essere in corsa per realizzarlo. Vivere significa mettersi in discussione, non essere mai sicuri di niente e curiosi di tutto, rifiutare le abitudini. Vivere significa moltiplicare i propri talenti – riprendendo la frase del Vangelo che cito in ogni mio romanzo, a cui io credo tantissimo. Chi nasconde la propria mina e la restituisce così come l’ha ricevuta: costui non vive, ma sopravvive.

Può svelarci qualche progetto futuro? Sta lavorando ad un nuovo libro?
Sto lavorando a un nuovo romanzo. Ci vorrà molto tempo prima di vederlo compiuto. A novembre lancerò in rete “Il fuoco”, a cui sto lavorando dall’inizio di quest’anno, su Itunes, Netflix e Youtube. E’ una canzone, una melodia, una poesia, una preghiera: la preghiera di Gio davanti al suo amico che muore.

Da Fandango "Due amici", il nuovo romanzo di Carlo Mazzoni

Silvia Notarangelo
Roma – Due trentenni, Matteo e Giò, più che amici, più che fratelli. Un rapporto viscerale, indissolubile, capace di rendere le loro vite intimamente legate. Carlo Mazzoni racconta, per Fandango“Due amici” ovvero la storia di un’amicizia, di un sentimento che va oltre le divergenze, oltre il tempo e le distanze che potrebbero scalfirlo. Metà settembre, Matteo si accascia improvvisamente. Nella sua testa una vena va in frantumi. In un attimo, si ritrova disteso in un letto di ospedale, la situazione è disperata, il primario decide di intervenire. Nella sala di attesa Giò è sconvolto, incapace di reagire, di credere che lì, a pochi metri da lui, a lottare per la vita, c’è proprio Matteo, il suo migliore amico, quell’amico con il quale ha condiviso tutto. Inevitabile che la mente inizi a vagare alla ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi, ripensando a quei tanti, troppi momenti trascorsi insieme, momenti lontani, ma così prepotentemente vivi nella memoria di Giò. I ricordi prendono il sopravvento. Le interrogazioni a scuola, le feste, i viaggi privi di una meta, il lavoro, le donne. Sempre insieme, lui e Matteo, con la loro spensieratezza, la voglia di vivere, il desiderio di “cercare, camminare per le vie del mondo, per le arterie degli uomini, senza trovare riposo”.
Sono simili, anzi, quasi uguali: parlano, si muovono, ragionano e rispondono allo stesso modo. Eppure si fanno del male, discutono, litigano, si rendono la vita difficile, ma nulla sembra poter intaccare la loro amicizia. Anche quando Giò prova a dire basta, a spezzare questa catena che, talvolta, appare soffocante, eccolo toccare il fondo, perdere il controllo, lasciarsi andare. Lo intuisce ma non riesce ad ammetterlo, è l’assenza di Matteo a rendere la sua vita priva di significato. Per questo, di ritorno da New York, in una camera di ospedale, il mondo sembra crollargli addosso. “Non puoi morire”, continua a ripetere.
Perché qualunque cosa succeda, qualunque persona, qualunque situazione dovranno affrontare, Matteo e Giò saranno lì, l’uno per l’altro, ad aspettarsi.