Arduino Sacco, “L’amante della massaggiatrice cinese”: una lunga visione erotica

lamante-della-massaggiatrice-cinese_chronicalibriGiorgia Sbuelz
ROMA – Esistono amori, falsi o veri, sventolati in piazza, urlati nei social, scritti sui marciapiedi. Esistono altri amori, falsi o veri, che si consumano in sordina, che si nutrono di fantasie e che è meglio lasciar segreti. Certe storie nascono nel silenzio di logori anfratti urbani e silenziosamente si consumano, lontane dalla ribalta. L’amante della massaggiatrice cinese di Rosa Santoro è una di queste storie. Comincia così:
Un pomeriggio ho visto Amneris. Bella, tonda e corposa.
Lei lavorava al Centro Massaggi Elisir. La mia finestra era sparata sul suo negozio. Una donna intelligente la cui bellezza esteriore non era da meno a quella interiore. I suoi due occhi morati radiavano tutto il viso, e i puntini di lentiggini sembravano spruzzati vivacemente sulla sua pelle”.
La finestra è quella di un professore sessantenne, in pensione, completamente solo e afflitto da una malattia che può placare solo a dosi di morfina. Amneris è giovane, non parla l’italiano, ma le sue mani parlano per lei e scivolano sul corpo stanco di quest’uomo, lo accudiscono, lo coccolano, forse lo amano. Continua

"L’acino della notte": del ciclo stagionale, ovvero della nostra sopravvivenza.

Giulio Gasperini
ROMA –
L’uomo non può vivere senza la natura. La natura, viceversa, può esistere (e indubbiamente lo fa meglio) senza l’uomo. E non è un discorso soltanto ecologista, questo, ma, come appunto si scopre dalle poesie di Giuliana Rigamonti, è anche un discorso poetico. Sì, perché l’uomo è sempre vissuto suddito del ciclo stagionale: sono stati i freddi e i caldi, i dì brevi e i dì lunghi, il ritorno di Zefiro e la sua partenza, a condizionare le scelte, quelle più quotidiane ma più fondamentali, del genere umano tutto, in ogni sua latitudine e longitudine. “L’acino della notte” (eccellente volumetto pubblicato dalla grande casa editrice Scheiwiller, nel non remoto 2006) è un cammino iniziatico, fors’anche un po’ misterico (e in questo senso si spiega l’abbondante ricorso della poetessa ai geroglifici egizi, al loro potere significante e alla loro vastità di significato), in un’educazione stagionale che ci permetta di ritornare all’origine del nostro cammino.

Così ci convinciamo, di nuovo, dell’indispensabilità che la natura sia rispettata (e, soprattutto, obbedita).
L’uomo vive se (e solo se) segue docile il ritmo delle stagioni, il loro lente e persistente convertirsi dall’una all’altra, dall’inverno alla primavera, dalla primavera all’estate, dall’estate all’autunno, dall’autunno all’inverno, rincorrendosi sempre in un ciclo continuo e costante; ma mai monotono – ed è questa la più straordinaria portata della poesia della Rigamonti. Ogni evento stagionale, pur nella sua prevedibile ciclicità temporale, lascia sempre l’uomo senza fiato, perché è pur sempre una prima volta: nulla è mai uguale, identico, se non l’idea che supporta il tutto. “Il grido di caccia / delle stelle”, le ombre che “cantano sempre da sole”, la “luce matura fra le persiane” sono tutti legami che (co)stringono l’uomo in un perenne debito di riconoscenza. La natura è feconda, generosa (“il geco scoppia di luna”); la natura è la referente di ogni declinazione d’umano (“Io comincio dove il tramonto brucia / nel tuo sguardo”); la natura vince e libera dalle avversità (“I limoni raschiano la nebbia”).
Ed è la natura la risposta al tutto. Anche in poesie di straziante contemporaneità, come quella intitolata “Clandestino”, nel quale Lampedusa si trasforma in pietosa spettatrice del dramma più sordo del nostro tempo: “Niente resterà di questo viaggio. / Per un giorno galleggerà il mio nome / nelle brevi di un giornale / tre righe che nessuno legge / nere / silenziosamente nere”.
Perché non rimane altro che perdersi nella natura, riconsegnarsi a lei, ingenuamente (nel senso pure del termine) e “spingersi oltre il limite delle dune / che non hanno limite e frugare le sabbie / che cadono fra le dita come giorni / nel granaio, per valutare il grano / rimasto e quello da versare”.

"Perversioni all’Avana": il fascino, scandaloso, d’una città di carne e di fiato.

Giulio Gasperini

ROMA – L’Avana è una città di fiato e di carne, di battiti e respiri. È una città di estrema passione, di languido scandalo, di prostrato pudore. Ma L’Avana non è soltanto la città: L’Avana è tutti gli avaneri che, nelle loro frammentate coscienze, ne ricostruiscono il profilo, ne ricompongono il mosaico. Miguel Mejides, con l’esperto occhio del patologo ma con l’acuta grazia del cesellatore, “monta” (nel vero senso del termine) questo romanzo, questo “Perversioni all’Avana”, pubblicato (in prima edizione nel 2006) dalle Edizioni Estemporanee, una casa editrice dall’interesse prettamente rivolto verso la letteratura caraibica, del centro e del sud America, in una (ri)scoperta di gemme rare e preziose, con la vocazione di affrancare tale letteratura dai soliti (e asfissianti) nomi, quelli degli oramai soliti noti. Nel romanzo ogni storia, breve e folgorante nella sua scarna compiutezza, si allaccia all’altra, quasi si salda, in un continuo scambio di prospettive, in una commutazione continua di punti di vista, in una permuta di coscienze e di sentimenti.

Trovare una trama unitaria è impossibile: ed è questo il gioco più affascinante, più delizioso; pare un’umanità esplosa, deflagrata: tante schegge di vita che si proiettano nelle direzioni più disparate, verso le mete più distanti. Di ognuno ne possiamo ricostruire il percorso, sospettare gli approdi, verificarne le partenze: ma ognuno di loro conserverà ai nostri occhi il mistero di una vita che non è compiuta, perché inarrestabile nel fluire, nel modificarsi al cambiare delle incognite.
L’Avana ci mostra tutta la sua potenza, la prorompente vitalità d’un popolo che, per vivere, deve adattarsi, per non soccombere. E che adattandosi si trasforma in un manipoli di eroi, di bugiardi, di falsari, di santi. È la vita a definire questi ruoli. È la città che li riassume e che, in sé, li raccoglie.
I protagonisti, in questo pulsante carnaio, sono tanti: tutti diverse declinazioni della stessa Avana, potente dèa, entità quasi materna e al tempo stesso tentatrice. Perché la madre e la puttana sono i ruoli antitetici per eccellenza, anche se un po’ tangenti, e sicuramente ugualmente potenti (per sottomettere un uomo). Ogni storia si lega all’altra, si travasano i personaggi, se ne continuano separatamente le vicende, le progressioni, le accelerazioni al dolore e alla gioia, alla soddisfazione del desiderio e alla frustrazione della disfatta.