Novità: arriva “L’altra sete”, dal 29 gennaio per Fandango

fandangoROMA – Arriverà in libreria il 29 gennaio L’altra sete, il libro di Alice Torriani pubblicato da Fandango. La protagonista si chiama Alice e ha 27 anni. L’hanno sistemata in una clinica che ha il nome rassicurante di una Casa, ma non sa dire da quanto sia lì. Ha una voglia disperata di Luca. Luca che odora di buono, che la tiene per i fianchi e le sorride. Sono gli occhi glaciali di sua madre gli unici che ha addosso. Insieme a quelli inquisitori del terapeuta, che non smette di fare domande. Perché il diabete, ripetono i medici, non è una malattia, è una Condizione. Bisogna imparare ad avvertire i tremori, i formicolii alla lingua e sulle gambe, ed essere pronti a bucare, caricare la piccola penna nera della glicemia come fosse una pistola e sparare. Alice non sa come sia possibile, alla sua età, abituarsi all’idea di non produrre abbastanza insulina, perché prima di ogni cosa deve fare i conti con l’assenza di Luca per capire come convivere con una mancanza che è, inevitabilmente, una dipendenza.

 

 

10 Libri per un week end anti dati ISTAT

10LIBRI chronicalibriGiulia Siena
ROMA – I recenti dati ISTAT sulla produzione e la lettura di libri in Italia parlano chiaro: nel 2014 oltre 23 milioni 750 mila persone dichiarano di aver letto almeno un libro nei 12 mesi precedenti l’intervista; rispetto al 2013, la quota di lettori di libri è scesa dal 43% al 41,4%; quasi una famiglia su dieci (9,8%) non ha alcun libro in casa; il 63,5% ne ha al massimo 100; il numero di lettori forti rimane invariato.

Perché, allora, non cerchiamo di boicottare questi numeri, perché non dimostriamo che nonostante i problemi, le oscillazioni di mercato, i dati statistici, il libro rimane un ottimo passatempo? Nonostante sia sempre un buon momento per cominciare a leggere, proprio oggi che comincia il week end si presenta la situazione perfetta: brevi ma intense giornate di riposo e nullafacenza; staccate il telefono e seguitemi. Non sapete cosa leggere? Ci sono qua io con i 10 LIBRI per un week end anti dati ISTAT.

 

1. “Cruciverba” di Leonardo Sciascia, Adelphi
Partiamo da lontano con questo libro del 1983 in cui lo scrittore siciliano tratta la storia come un grande cruciverba in cui orizzontale e verticale sono eventi, personaggi e contesti che incontrando hanno cambiato il corso della storia.

2. “Lo schiaccianoci” di E.T.A. Hoffmann, Edizioni Clichy
Lo scritto di Hoffmann divenuto celebre per il suo eterno dissidio tra realtà e favola, lo stesso che ha ispirato Ciaikovskij e Walt Disney, viene riproposto al grande pubblico in un’ottima pubblicazione Clichy.

3. “La tentazione di essere felici” di Lorenzo Marone, Longanesi
Un anziano rompiscatole ha deciso di chiudere il mondo fuori dalla sua porta, il mondo, per lui, merita di essere trattato solamente con un po’ di ironia e molto sarcasmo, fino a quando la porta di una dirimpettaia si apre.

4. “Il salto della rana” di Paola Rondini, Fernandel
Da Milano all’Arizona come saltando alla ricerca di esperienze e consapevolezza. Questa è la storia di Emma che da un’agenzia di pubblicità si ritrova a milioni di chilometri di distanza con nuovi pensieri e nuove domande.

5. “Il padrone” di Goffredo Parise, Adelphi
Questo romanzo del 1964 è una favola ironica e feroce: il giovane protagonista arriva dalla provincia alla città e qui si trova intrappolato in un mondo sospeso e grottesco, popolato di personaggi controversi e originali.

6. “La vita sobria. Racconti ubriachi” di AA.VV. a cura di Graziano Dell’Anna, Neo Edizioni
Dieci scrittori per dieci racconti incentrati sull’alcool e quello che provoca: euforia, malinconia, angoscia e dolcezza.

7. “I fantasmi non muoiono mai” di Lucia Tilde Ingrosso, Laurana
Il ritrovamento di un anello fa riaprire il caso di Valeria, morta in un incidente d’auto in Costa Azzurra dieci anni prima. Un giallo in piena regola, ma un giallo nuovo.

8. “Baci di carta. Lettere di un padre ebreo dalla prigione, 1942/43” di Pali Meller, Marsilio
Ventiquattro lettere inviate dal carcere dove era stato rinchiuso per aver falsificato dei documenti danno vita a un libro intenso che racconta la nascita di una nuova relazione tra un padre e i suoi due figli attraverso le lettere. Un rapporto epistolare fatto di amore e poesia, abbracci e coccole affidate alla carta.

9. “STOP-TIME” di Frank Conroy, Fandango
Pubblicato in America nel 1967, questo romanzo di Frank Conroy diventa inno sfrenato alla libertà, elegia dell’amore fraterno, racconto di un’amicizia speciale che si consuma tra i boschi e le città deserte dell’infanzia.

10. “La lettera rubata e altre indagini” di Edgar Allan Poe, L’Orma 
Quattro racconti di Poe tradotti da Giorgio Manganelli e raccolti sotto il segno del tema epistolare per raccontare viaggi e avventure sotto il segno dell’intrigo.

 

Novità: “Rubare la vita agli altri” è un po’ il mestiere dell’attore

rubare la vita agli altriROMA“Il cielo sopra Taranto è azzurro, come in quasi tutte le altre città del mondo.
Ma il nostro tramonto è molto più bello.
Il perché l’ho saputo da un direttore della fotografia: ‘Sai chi dovete ringraziare per quel tramonto? I fumi dell’ILVA, che filtrano le rifrazioni della luce del sole’.
Per questo c’è quel rosso fuoco unico al mondo”.

 
Michele Riondino smette per un attimo i panni di attore e scrive. Ma forse i panni non li toglie, usa la sua esperienza di attore per raccontare la passione, il teatro. In “Rubare la vita agli altri”, pubblicato da Fandango, Riondino racconta il suo viaggio.
Michele nasce nel quartiere operaio Paolo VI di Taranto, tra i caseggiati bianchi costruiti a due passi dal più grande complesso siderurgico del Mediterraneo. I ragazzi che vivono tra quelle larghe strade desolate e i grigi casermoni di cemento sono i protagonisti di un’educazione alla vita. Le avventure adolescenziali hanno un sapore epico, la strada sa insegnare mille cose ma non turba e corrompe mai i loro sogni. Perché quello che più importa a quell’età sono le passioni: la poesia, la musica, il teatro. “La setta dei poeti estinti” nasce così, ispirandosi all’Attimo fuggente di Peter Weir. Nel gruppo c’è Michele, che compone testi, che ha imparato a suonare la chitarra e partecipa ai primi laboratori teatrali che si tengono in città. Ma non basta, serve altro. Un giorno a tavola, con la famiglia presente, comunica a tutti la sua decisione. Il padre è sorpreso, sognava un figlio all’università e invece, se le cose andranno bene, se lo ritroverà attore. Michele pensa in grande, Taranto gli sta stretta, vuole provare a cambiare il corso degli eventi, e un provino per l’Accademia “Silvio D’Amico” sembra l’occasione che aspettava. Riprenderà a respirare, una volta a Roma, accelerando e frenando un po’ per stare dietro a questa nuova vita. E il teatro, non resterà solo un’aspirazione ma la sua diventa una missione. Michele Riondino racconta la sua storia, quella di un ragazzo che ha scommesso sulle passioni vere, ripercorrendo il viaggio dalla periferia al centro, dal buio alla luce, dalla indecisione al successo.

Un “Romanticidio” dietro il bancone di un bar

Marianna Abbate

ROMA – Avete mai pensato alla morte? Alla vostra morte intendo… Alla camera ardente, al funerale, agli encomi degli amici. Alle lacrime dei parenti.

Marzia c’ha pensato, alla sua morte. Ma lei, cattiva ragazza, non ha mai voluto allori ed elogi- probabilmente consapevole di non meritarne. Non un funerale serio, dove chi non ti ha mai veramente conosciuto, si sforza di apparire cordiale e di produrre complimenti astrusi e privi di alcun collegamento logico con fatti realmente accaduti. Lei no. Ha sempre voluto una morte ridicola, una fine comica, che come la metti la metti, a pensarci ti scappa da ridere.

“Romanticidio”, scritto da Carolina Cutolo ed edito da Fandango, non parla di un omicidio romantico, ma dell’uccisione del romanticismo.

Si parte dal funerale del padre. Un tipo un po’ stronzo, cornificatore seriale- totalmente diverso dal papino adorabile della famiglia del Mulino bianco. Ci sono lacrime, ma non sono quelle della figlia un po’ cinica- sono quelle di una moglie postmoderna, lamentosa e patetica, che piange anche nel giorno in cui dovrebbe essere la donna più felice del mondo.

E poi c’è il coma. Causato da una situazione ridicola, mette in standby quella vita strapazzata che Marzia non ha mai apprezzato fino in fondo. Non è il solito coma: quello lontano, nel tunnel nero con la luce in fondo. E’ cosciente e consapevole. E dà un punto di vista privilegiato su tutto e tutti. Fa ascoltare cose che non si sarebbero mai dovute sapere.

L’intento è quello di stupire, scandalizzare e far riflettere. Ma non so se di questi tempi una gang bang, un pompino e qualche cazzo possano scandalizzare ancora. Di certo un pochino ci disgusta, quell’alcol che ci fa vomitare, l’immondizia e i liquidi corporei. E forse la parola scritta può ancora colpire la nostra immaginazione, più di un horror “macello” o della violenza carnale sparata sugli schermi.

Ed è proprio dal cinema che la Cutolo sembra trarre l’ispirazione, con le sue immagini crude e crudeli viste in quel trash, voluto e osannato, che ha fatto il successo mondiale di Tarantino in Kill Bill.

Ho letto svariate recensioni di questo libro. Sono tutte pulite, eleganti, riflessive. Sembrano parlare di un testo quasi filosofico, dal carattere empirico. Non è quello che vi dovete aspettare dalle pagine di Romanticidio. Quando manca il romanticismo, quello ispirato, con rose rosse, candele e vasche idromassaggio rimane solo il coito ritmato, i piatti sporchi e la gastrite.

Carlo Mazzoni racconta i suoi “Due Amici”

Silvia Notarangelo
Roma – Esistono dei libri da cui è difficile separarsi, perché la lettura scorre veloce, la storia è incalzante, ogni riga aggiunge quel qualcosa di nuovo e, a volte, inaspettato, che costringe, inevitabilmente, ad andare avanti. Due amici”, il romanzo di Carlo Mazzoni pubblicato da Fandango, appartiene a questa categoria. ChronicaLibri ha intervistato l’autore:
Lei racconta la storia di un’amicizia che sembra perfetta. Talvolta sbilanciata, conflittuale, eppure indissolubile. Esiste davvero un sentimento così forte, capace di superare tutto, litigi, incomprensioni, persino tradimenti? Come è nata l’idea di questo romanzo?
Non so se esista, un’amicizia così forte. Non so se esista un legame, fra due persone, così forte. A volte ci credo, a volte ne dubito.

Questa è l’idea, la domanda alla base del romanzo. Sono cresciuto credendo a un’amicizia, vivendo un’amicizia e lottando per essa. Oggi questo legame è incrinato, per cui la mia domanda è più aperta che mai.

Ho letto che si è diplomato al Conservatorio. Anche Gio, uno dei due protagonisti, studia musica e suona il pianoforte. Ci sono altri elementi autobiografici?
Io sono in parte Matteo e in parte Gio. Io soffro di diabete da quando ho dieci anni, vivendolo così come ho scritto per Matteo. Il mio carattere somiglia a quello di Matteo, la mia infanzia è simile a quella di Matteo. Sono sempre io però che partivo per New York come Gio nel libro, io che prendevo la distanza dal mio amico per cercare la mia identità. Molti dettagli mescolano le due figure, come l’esame al Conservatorio di Alessandria che nel romanzo lascio al personaggio di Gio. 
“Due amici” ripercorre l’evoluzione di una patologia, il diabete, che, pur condizionando la vita di Matteo, non gli impedisce di continuare per la sua strada, di realizzarsi, di divertirsi. Tralasciando i risvolti più drammatici a cui Matteo andrà incontro, pensa che la possibilità di convivere con la malattia, senza, per questo, privarsi di nulla, possa essere una chiave di lettura del libro?
Il diabete è una lezione di rigore, di concentrazione. Il diabete, la malattia in genere, ti costringe a chiederti dove davvero vuoi andare, cosa davvero ti interessa nella vita. Una malattia ti lascia precario davanti al futuro, amplia la tua nostalgia per il passato, ti fa sperare di vivere ogni momento che ti è concesso al limite delle tue forze. Il diabete per me è, oggi mi viene da dirlo, un sintomo di fortuna: una malattia che davvero mi ha insegnato moltissimo.
Il romanzo risulta estremamente coinvolgente grazie anche ad uno stile asciutto, ad un ritmo serrato, in cui non c’è mai una parola di troppo. Una scelta voluta?
 Ho lavorato molto all’italiano di questo libro. Cercando una grammatica più lineare, la costruzione del periodo più logica. Leggendo un qualsiasi articolo di giornale, quando incontrate una frase principale che inizia con ‘ma’ o ‘eppure’, provate a rileggerla togliendo la congiunzione: il significato verrebbe espresso meglio. In italiano è sbagliato iniziare una frase con una congiunzione, nonostante oggi tutti scrivano così. 
Cito dal testo “Quando tocchiamo il fondo o crediamo di toccarlo, ci calmiamo, smettiamo di avere paura e iniziamo a sopravvivere – non a vivere – a sopravvivere”. Che cosa contraddistingue, secondo lei, una vita “vissuta” da una legata a semplice “sopravvivenza”?
Vivere a pieno è quello che Matteo si impegna a fare, quello a cui costringe Gio – senza tollerare debolezze, scorciatoie, facilitazioni. Vivere in pieno significa non accontentarsi, credere in quello che si fa, avere uno scopo e essere in corsa per realizzarlo. Vivere significa mettersi in discussione, non essere mai sicuri di niente e curiosi di tutto, rifiutare le abitudini. Vivere significa moltiplicare i propri talenti – riprendendo la frase del Vangelo che cito in ogni mio romanzo, a cui io credo tantissimo. Chi nasconde la propria mina e la restituisce così come l’ha ricevuta: costui non vive, ma sopravvive.
Può svelarci qualche progetto futuro? Sta lavorando ad un nuovo libro?
Sto lavorando a un nuovo romanzo. Ci vorrà molto tempo prima di vederlo compiuto. A novembre lancerò in rete “Il fuoco”, a cui sto lavorando dall’inizio di quest’anno, su Itunes, Netflix e Youtube. E’ una canzone, una melodia, una poesia, una preghiera: la preghiera di Gio davanti al suo amico che muore.

Lei racconta la storia di un’amicizia che sembra perfetta. Talvolta sbilanciata, conflittuale, eppure indissolubile. Esiste davvero un sentimento così forte, capace di superare tutto, litigi, incomprensioni, persino tradimenti? Come è nata l’idea di questo romanzo?
Non so se esista, un’amicizia così forte. Non so se esista un legame, fra due persone, così forte. A volte ci credo, a volte ne dubito. Questa è l’idea, la domanda alla base del romanzo. Sono cresciuto credendo a un’amicizia, vivendo un’amicizia e lottando per essa. Oggi questo legame è incrinato, per cui la mia domanda è più aperta che mai.

Ho letto che si è diplomato al Conservatorio. Anche Gio, uno dei due protagonisti, studia musica e suona il pianoforte. Ci sono altri elementi autobiografici?
Io sono in parte Matteo e in parte Gio. Io soffro di diabete da quando ho dieci anni, vivendolo così come ho scritto per Matteo. Il mio carattere somiglia a quello di Matteo, la mia infanzia è simile a quella di Matteo. Sono sempre io però che partivo per New York come Gio nel libro, io che prendevo la distanza dal mio amico per cercare la mia identità. Molti dettagli mescolano le due figure, come l’esame al Conservatorio di Alessandria che nel romanzo lascio al personaggio di Gio.

“Due amici” ripercorre l’evoluzione di una patologia, il diabete, che, pur condizionando la vita di Matteo, non gli impedisce di continuare per la sua strada, di realizzarsi, di divertirsi. Tralasciando i risvolti più drammatici a cui Matteo andrà incontro, pensa che la possibilità di convivere con la malattia, senza, per questo, privarsi di nulla, possa essere una chiave di lettura del libro?
Il diabete è una lezione di rigore, di concentrazione. Il diabete, la malattia in genere, ti costringe a chiederti dove davvero vuoi andare, cosa davvero ti interessa nella vita. Una malattia ti lascia precario davanti al futuro, amplia la tua nostalgia per il passato, ti fa sperare di vivere ogni momento che ti è concesso al limite delle tue forze. Il diabete per me è, oggi mi viene da dirlo, un sintomo di fortuna: una malattia che davvero mi ha insegnato moltissimo.

Il romanzo risulta estremamente coinvolgente grazie anche ad uno stile asciutto, ad un ritmo serrato, in cui non c’è mai una parola di troppo. Una scelta voluta?
Ho lavorato molto all’italiano di questo libro. Cercando una grammatica più lineare, la costruzione del periodo più logica. Leggendo un qualsiasi articolo di giornale, quando incontrate una frase principale che inizia con ‘ma’ o ‘eppure’, provate a rileggerla togliendo la congiunzione: il significato verrebbe espresso meglio. In italiano è sbagliato iniziare una frase con una congiunzione, nonostante oggi tutti scrivano così.

Cito dal testo “Quando tocchiamo il fondo o crediamo di toccarlo, ci calmiamo, smettiamo di avere paura e iniziamo a sopravvivere – non a vivere – a sopravvivere”. Che cosa contraddistingue, secondo lei, una vita “vissuta” da una legata a semplice “sopravvivenza”?
Vivere a pieno è quello che Matteo si impegna a fare, quello a cui costringe Gio – senza tollerare debolezze, scorciatoie, facilitazioni. Vivere in pieno significa non accontentarsi, credere in quello che si fa, avere uno scopo e essere in corsa per realizzarlo. Vivere significa mettersi in discussione, non essere mai sicuri di niente e curiosi di tutto, rifiutare le abitudini. Vivere significa moltiplicare i propri talenti – riprendendo la frase del Vangelo che cito in ogni mio romanzo, a cui io credo tantissimo. Chi nasconde la propria mina e la restituisce così come l’ha ricevuta: costui non vive, ma sopravvive.

Può svelarci qualche progetto futuro? Sta lavorando ad un nuovo libro?
Sto lavorando a un nuovo romanzo. Ci vorrà molto tempo prima di vederlo compiuto. A novembre lancerò in rete “Il fuoco”, a cui sto lavorando dall’inizio di quest’anno, su Itunes, Netflix e Youtube. E’ una canzone, una melodia, una poesia, una preghiera: la preghiera di Gio davanti al suo amico che muore.

Da Fandango "Due amici", il nuovo romanzo di Carlo Mazzoni

Silvia Notarangelo
Roma – Due trentenni, Matteo e Giò, più che amici, più che fratelli. Un rapporto viscerale, indissolubile, capace di rendere le loro vite intimamente legate. Carlo Mazzoni racconta, per Fandango“Due amici” ovvero la storia di un’amicizia, di un sentimento che va oltre le divergenze, oltre il tempo e le distanze che potrebbero scalfirlo. Metà settembre, Matteo si accascia improvvisamente. Nella sua testa una vena va in frantumi. In un attimo, si ritrova disteso in un letto di ospedale, la situazione è disperata, il primario decide di intervenire. Nella sala di attesa Giò è sconvolto, incapace di reagire, di credere che lì, a pochi metri da lui, a lottare per la vita, c’è proprio Matteo, il suo migliore amico, quell’amico con il quale ha condiviso tutto. Inevitabile che la mente inizi a vagare alla ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi, ripensando a quei tanti, troppi momenti trascorsi insieme, momenti lontani, ma così prepotentemente vivi nella memoria di Giò. I ricordi prendono il sopravvento. Le interrogazioni a scuola, le feste, i viaggi privi di una meta, il lavoro, le donne. Sempre insieme, lui e Matteo, con la loro spensieratezza, la voglia di vivere, il desiderio di “cercare, camminare per le vie del mondo, per le arterie degli uomini, senza trovare riposo”.
Sono simili, anzi, quasi uguali: parlano, si muovono, ragionano e rispondono allo stesso modo. Eppure si fanno del male, discutono, litigano, si rendono la vita difficile, ma nulla sembra poter intaccare la loro amicizia. Anche quando Giò prova a dire basta, a spezzare questa catena che, talvolta, appare soffocante, eccolo toccare il fondo, perdere il controllo, lasciarsi andare. Lo intuisce ma non riesce ad ammetterlo, è l’assenza di Matteo a rendere la sua vita priva di significato. Per questo, di ritorno da New York, in una camera di ospedale, il mondo sembra crollargli addosso. “Non puoi morire”, continua a ripetere.
Perché qualunque cosa succeda, qualunque persona, qualunque situazione dovranno affrontare, Matteo e Giò saranno lì, l’uno per l’altro, ad aspettarsi.

Novità editoriali, tutti i nuovi libri

ROMA –  Bompiani ha pubblicato da qualche giorno “Il respiro della musica” di Paolo Terni; inoltre, per la stessa casa editrice, sono presenti sugli scaffali di tutte le librerie d’Italia anche “Bolle balle e sfere di cristallo” di Stefano Cingolani e “La rivoluzione dei gelsomini” di Tahar Ben Jelloun. Fandango presenta due nuovi libri, “L’arte dell’inganno” di Vittorio Giacopini e “Chuco” di Gregoire Polet. Arriva “Sex and the Vatican. Viaggio segreto nel regno dei casti” l’attesissimo libro di Carmelo Abbate pubblicato dalle Edizioni Piemme. La stessa casa editrice porterà all’imminente Salone Internazionale del Libro di Torino “Le mani sugli occhi” di Ugo Barbàra (giovedì 12 ore 20.30 – Caffè Letterario), “Il bosco di Aus” di Chiara Palazzolo (venerdì 13 ore 14 – Caffè Letterario), “Come due stelle nel mare” di Carlotta Mismetti Capua (sabato 14 ore 17.30 – Sala Book), oltre che altre tantissime novità. Neri Pozza Editore arruola nel proprio catalogo “Gridano i gufi” di Janet Frame, “Il libro delle bugie” di Mary Horlock, “Non sono stato io” di Kristof Magnusson e “L’isola degli animali” di Geral Durrel. Tra le novità della casa editrice milanese Ponte alle Grazie possiamo trovare “La questione del metodo” di Jaques Bonnet, “Filosofia. Corso di sopravvivenza” di Girolamo De Michele e “Crepuscolo di un idolo” di Michel Onfray. A venticinque anni dal disastro nucleare di Chernobyl arriva oggi in libreria per l’Editrice La Mandragora “A braccia aperte”, il volume con fotografie di Daniele Paradisi e Renzo Magri e gli interventi del Comitato Minori Stranieri e del dottor Solci dell’Università di Verona. Aldo Putignano presenterà suo ultimo libro “La sindrome di Balzac” (Edizioni Cento Autori) il prossimo 3 maggio ore 18 presso la Feltrinelli di via Santa Caterina a Chiaia di Napoli. Giovedì 28 aprile ore 19 presso lo Spazio Tadini di Milano, Alan Zamboni presenterà il suo recente romanzo, “L’ultimo quadro di Van Gogh” pubblicato da Infinito Edizioni.

Le ultime Novità Editoriali

ROMA – In libreria dalla settimana scorsa per Fandango c’è “Mustang. Un viaggio” il libro catalogo della mostra fotografica Click! 30 anni d’Asia di Tiziano Terzani poi, da qualche giorno, c’è anche “La cura” di Andrés Beltrami e “L’arte dell’inganno” di Vittorio Giacopini.
Tra le novità della Bompiani troviamo: “Bolle, balle e Sfere di cristallo. L’economia dell’inganno” del giornalista e scrittore Stefano Cingolani, “La rivoluzione dei gelsomini” di Tahar Ben Jelloun e “Più felice del mondo” di Umberto Pasti. Ugo Mursia Editore presenta “GLi angeli di Lucifero”, un libro di Fabrizio Carcano e festeggia l’Unità d’Italia con il libro “Il romanzo dei mille” di Claudio Fracassi. Candidato al Premio Strega 2011 è “Nina dei lupi” di Alessandro Bertante, l’ultima pubblicazione targata Marsilio.
In uscita per le Edizioni nottetempo troviamo “Cultura di destra” di Furio Jesi, “Mostrarsi” Andrea Canobbio e “Baba Jaga ha fatto l’uovo” di Dubravka Ugrešic, oltre che la terza ristampa de “La scoperta del mondo” di Luciana Castellina. Avagliano porta in libreria “Il silenzio del colore nero” di Serena Frediani e “San Gennaro non dice mai no” di Giuseppe Marotta. Tra qualche ora sarà disponibile su ChronicaLibri l’anteprima di “Brivido eterno”, un mix di azione e sensualità firmato Leggereditore, la casa editrice che porta per la prima volta in Italia l’apprezzata autrice Larissa Ione.

Intervista a Minervino, dalla mostrificazione alle bellezze mozzafiato di una Calabria ancora carica di ardori e di nuove speranze

Alessia Sità
ROMA – Alcuni libri necessitano di un approfondimento, di una lente di ingrandimento puntata tra le righe del romanzo, per questo ChronicaLibri oggi propone l’intervista al professor Mauro Francesco Minervino, autore di “Statale 18” pubblicato da Fandango.
Che ruolo ha per lei la scrittura nell’esprimere un disagio?
Non credo che la scrittura (che può anche essere una buona cura per l’anima) debba curare il ‘disagio’ di chi scrive letteratura. Io non ho mai scritto un rigo per dare sfogo a un disagio personale, a qualcosa che appartiene alla mia psicologia individuale. Io scrivo per raccontare. Per provare a capire. Non da solo, ma insieme a chi legge. Parto sempre da un’esperienza, da un’urgenza di testimonianza e di confronto con ciò che vedo, con ciò che accade nella realtà. Anche se non escludo mai un mio punto di vista personale, non mi interessa limitare ciò che scrivo ad aspetti personali. Scrivere è sempre un atto di responsabilità che implica il rapporto di un sé con un altro, una forma congiuntiva, un incontro che unisce l’autore alla realtà, a persone diverse, alla verità del mondo. Scrivere è pur sempre tentare di dare una forma al caos, il tentativo di portare a ragione quello che la ragione rifiuta o nasconde. Per me raccontare persone e luoghi difficili, e tuttavia amati, di una Calabria che qualcuno già considera un pezzo d’Italia perduta, equivale a un rifiuto delle generalizzazioni e delle ovvietà mediatiche. Scrivo contro i pregiudizi che da lontano avvolgono la realtà del sud; il mio è un tentativo di fare chiarezza senza mai nascondere le nostre responsabilità collettive nei confronti di ciò che accade.
Cosa l’ha spinta a scrivere “Statale 18”?
I miei viaggi da pendolare su questa strada. Il fatto di vivere in un luogo così. L’idea che raccontare la strada oggi equivale a raccontare il sud nella sua parte più vera e problematica, meno letteraria. Su una strada come la Statale 18 vedi tutte le contraddizioni, la vita reale, che sempre di più è legata al movimento, a una mobilità esasperata e spaesante, a un’economia legata a forme di abuso e di violenza strisciante, sempre meno ancorata alla tradizione e a certe facili consolazioni del passato. Mi ha guidato l’idea che raccontando una strada che tutti conoscono il mio libro potesse aprire a una forma di ribellione, estetica, sentimentale e morale prima ancora che ‘politica’. Quello che vedevo, e che vedono tutti sulla Statale 18, mi colpisce ogni volta che questa strada mi accade di percorrerla. Qualcosa che offende e mortifica lo spirito e impoverisce la vita, la mia e quella di tutti. Un consumo folle di bellezze e di spazio. Il disprezzo per la cultura. Lo sfregio inarrestabile della natura e della storia. Tutto oggi si dispone sulla strada. Nessuno sembra accorgersene. Il fatto è che se cambia l’ambiente e il paesaggio, se cambia la qualità della terra e del mare, se viene avanti il brutto e il cemento conquista ogni spazio libero, diventiamo tutti più brutti e incivili, più poveri, più infelici, più mafiosi, anche se apparentemente questo si chiama ‘sviluppo’. Ma lo sviluppo non coincide con le case costruite, con le automobili che circolano, con la violenza che si insinua nei nostri rapporti sociali, con gli oggetti che compriamo negli ipermercati, con la corsa ai consumi di cui tutti siamo vittime.
Lei racconta e descrive apertamente ed in modo piuttosto chiaro i mali che affliggono la Calabria dalla Calabria, da uomo e da antropologo. La sua è una scelta coraggiosa. Ha mai incontrato difficoltà per questo?
Sì, pago un prezzo personale per essere un autore scomodo. Scomodo per il potere politico e per quello mediatico. Scomodo per quello che scrivo e per ‘come’ lo scrivo. Per i miei libri ho ricevuto importanti premi e riconoscimenti, anche internazionali, ma in Calabria sono stato oggetto di feroci campagne stampa, di diffamazione e di esclusioni (inconfessabili) che danneggiano la mia professione intellettuale e il ruolo che svolgo nel mio ambiente, che è quello dell’università, della cultura e dei giornali. Ma la mia scrittura, la mia libertà non la metto a disposizione di nessuno. Vado per la mia strada, ma resto qui. In questi anni, dopo che un maestro civile di quella che lui stesso chiamava “letteratura delle cose”, Enzo Siciliano, che per primo mi spinse a raccontare queste storie su Nuovi Argomenti, per il mio impegno di scrittore e di intellettuale ho avuto sostegno di personalità come Luigi De Magistris e Angela Napoli, di intellettuali come Gianni Vattimo e Gian Antonio Stella, fino a Roberto Saviano, che di Statale 18 in una recensione su “Tuttolibri” de “La Stampa”, ha scritto cose molto belle di cui lo ringrazio. I partiti, la politica, i calabresi che “contano”, i giornalisti, i colleghi? Ostracismo e una malcelata ostilità, invidie, mugugni e silenzi. Ma ci sono gli studenti, la gente che incontro, quelli che leggono i miei libri e li amano, e molti sono calabresi fuori dalla Calabria.
La “mostrificazione” di cui parla, c’è sempre stata o ha un’origine ben precisa?
Inizia nel dopoguerra con la ricostruzione, un periodo infinito di modificazioni ambientali e sociali, anche positive; penso alle infrastrutture necessarie, alle scuole, agli ospedali, ma anche all’origine di scempi, di facili distruzioni e di speculazioni spacciate per indispensabili opere di sviluppo. Una fase di espansione che da allora non si è più arrestata. Degenerazioni che hanno portato alla mostrificazione attuale del paesaggio che lo specchio di una metamorfosi antropologica che riguarda gli individui e la società, in Calabria e nel Sud. Ma ormai il discorso vale per tutta l’Italia.
Il pregiudizio che si ha del Sud, secondo lei, ha contribuito ad alimentare lo scempio e il degrado non solo paesaggistico, ma anche umano?
Certo, il sud, e i calabresi in particolare, vivono una specie di schizofrenia: per secoli sono stati gli altri a raccontarci e a giudicarci. Col tempo abbiamo assunto e interiorizzato punti di vista che sono sempre mediati dall’esterno. Perciò siamo facilmente inclini agli estremismi, siamo apocalittici o integrati, conformisti o ribellisti. Siamo ossessionati dal problema dell’identità. Oscilliamo tra il disprezzo per noi stessi e la difesa integralistica di tratti regressivi, con l’esaltazione acritica di ogni cosa che ci riguardi. Così abbiamo smesso di osservarci, di descriverci, di tracciare le nostre rappresentazioni e i nostri racconti. E anche di prenderci cura del paesaggio, della natura, della terra, del mare, delle case. La Calabria è una terra di sconfitte silenziose e di violenze eclatanti, di ribelli e di ipocriti, di gente in fuga o rassegnata al peggio. Oggi è da questa dittatura degli opposti che si deve smarcare se vogliamo pensarci moderni e davvero “diversi”: riprendiamo i nostri racconti, ribaltiamoli sul mondo; critiche e autocritiche non lasciamole più agli altri. Amare i luoghi e farne nuovamente ‘dimora’ prendendosene cura, ritornare a essere comunità, non c’è alternativa. La Calabria e i calabresi devono misurarsi con l’autocritica, devono smarcarsi dall’ossessione della ‘calabresità’, da un blocco culturale che è un limite e un regalo fatto a tutti quelli che vogliono mantenere le cose come stanno.
La descrizione che lei fa della sua lezione di antropologia tenuta a Catanzaro è molto eloquente. Ma perché i giovani di oggi, nati e cresciuti in Calabria, continuano a sentirsi estranei? Perché “sembrano essere tutti di passaggio in Calabria”?
Credo che molte responsabilità ricadano sulle generazioni precedenti. Ma oggi spetta ai giovani impegnarsi per il cambiamento. In Calabria dobbiamo tutti ripartire da una serena consapevolezza che il legame con la propria terra non è un atto di fede acritico ma un passaggio necessario verso la consapevolezza. Non è fuggendo che si diventa adulti. E la dimensione del “lontano” ormai nel nostro mondo globale è solo illusoria, fatta apposta per restare ‘provinciali’. Non c’è un altro mondo migliore fuori dalla Calabria. Siamo già nel mondo, e sta a noi invece creare qui le condizioni migliori che cerchiamo altrove, con un nuovo senso civico e nuovi patti di comunità. Il compito della scrittura civile deve essere anche quello di risvegliare i giovani e le coscienze assopite.
Nonostante il suo splendido panorama sul mare, la Statale 18 porta in sé una sorta di inquietudine. Secondo lei è un’inquietudine che solo chi ha vissuto quei luoghi può capire?
No credo che il successo del libro, come anche quello del mio precedente “La Calabria brucia”, dipenda dal fatto che attraverso le narrazioni che riguardano la mia regione io riesca a raccontare come antropologo e scrittore, una condizione che travalica confini e luoghi specifici e che appartiene a una dimensione umana e civile della nostra vita contemporanea. Il degrado è la cifra che unifica tutta l’Italia di adesso. La Calabria è in fondo il laboratorio avanzato di un’Italia che assomiglia sempre più a queste coste sfrangiate, a quest’onda di cemento che in Calabria sembra infinita e travolge e consuma ogni cosa. Paesaggio, cultura, legalità, umanità. E’ così che stiamo diventando tutti più moderni. Il corrispettivo della Statale 18 oggi lo trovi ovunque in Italia; sull’asse del cosiddetto “bilanciere veneto”, sulle coste turistizzate della Sicilia come sulla riviera Ligure da Rapallo in poi, ovunque dove viene meno il senso della civiltà e della bellezza. C’è un senso di smarrimento e di inquietudine sempre più esportabile e universale, in Italia e nel mondo occidentale.
Perché in Calabria “i desideri fanno in fretta a passare e diventano ricordi”?
E’ uno dei paradossi poetici, ma anche il sintomo di una condizione reale, che ho inserito nella prosa narrativa di “Statale 18”. E’ un invito a resistere, a prolungare gli sforzi che ogni desiderio deve compiere per diventare atto. In Calabria c’è chi ristagna nella nostalgia per il passato, nell’immobilità rassegnata. Io credo invece che la nostalgia debba essere trasformata in una forma di passione attiva, qualcosa che serva come il sogno per dare battaglia nel presente. In fondo come diceva Walter Benjamin “solo il fare è un mezzo per sognare, mentre il contemplare è solo un mezzo per rimanere desti”. La letteratura e la poesia illuminano sempre un piano di realtà utopiche ma possibili. Un altro straniero George Gissing, lo scrittore vittoriano, il viaggiatore trasognato e solitario che scrisse della Calabria della fine dell’Ottocento, povera, umile ma ancora carica di ardori e di nuove speranze, piena di grazia popolare e di bellezze mozzafiato, scrisse che “qui è più bello vivere”. Non dovremmo dimenticare mai parole come queste qui al Sud e in Calabria.
Per completare il quadro della situazione, pensa di scrivere qualcosa anche sulla Statale 106 Jonica, un altro tratto di strada tristemente noto per la situazione di precarietà in cui versa da troppo tempo?
No, lo farà qualcun altro se ne ha voglia. La strada è un tema interessante, ma non ho scelto di ‘specializzarmi’. Io scrivo solo i libri che un certo tipo di ricordi, di percezioni e di esperienze mi impongono di scrivere. E il prossimo libro sarà un romanzo sugli anni ’90, il decennio cruciale della mia vita d’uomo e un periodo che rappresenta la fine di certi tempi di attese, di passioni e di grandi speranze per una generazione come la mia. L’inizio di una presa d’atto della realtà e della vita così com’è, ma per cui vale ancora la pena di battersi, per quanto dura e ostile sia la realtà di oggi.
Tre parole per definire il suo libro
Doloroso, sincero, bello. Parole che quando si ama sono indispensabili per dire la verità.

L’Italia del "Vicolo dell’Acciaio"

Marianna Abbate
ROMA Che l’Italia abbia mille volti lo sapevamo già. Certo è che per l’italiano medio l’operaio ha sempre il volto di un dipendente Mirafiori, che campeggia sulle prime pagine dei giornali. Quello che Cosimo Argentina ci mostra nel suo libro, edito da Fandango, è il “Vicolo dell’Acciaio” un distretto industriale di Taranto, che al massimo potremmo aver visto nella quinta pagina di cronaca, quando si è trovato al centro di un Referendum.
Forse perché gli operai siderurgici non sono altrettanto fotogenici quanto i dipendenti Fiat, o forse perché il loro lavoro mostra effettivamente delle problematiche economico-sanitarie ben diverse da quelle delle fabbriche di automobili. Certo è che nel libro di Argentina, si respira un’aria pesante, tossica. Una nube grigia di fumi e odori acri che chi ha sentito una volta non potrà più dimenticare. 
Poi ci sono i personaggi, i protagonisti di questo ritratto dell’ Italia industriale: combattono le loro battaglie quotidiane e cercano di sopravvivere in mezzo a quel male di vivere e a tutto quel fumo. Sono coraggiosi, forti come il Generale, o indefiniti, indecisi, ma pur sempre arrabbiati, come il figlio Mino. Non cambiano. Rimangono così, statici e un po’ tristi, fino all’ultima pagina del romanzo; almeno i sopravvissuti. 
Cosimo Argentina è agitato e commosso. Si vede dalle sue frasi, brevi e concise, ma non per questo semplici. Spesso il linguaggio è ermetico, autoreferenziale e complicato. Per chi non conosce il dialetto la lettura risulta poco scorrevole, nonostante si tratti comunque di una scrittura rapida e discorsiva. 
La tematica ricorda un po’ Zola e un po’ Verga, ma lo stile è completamente diverso.
L’autore è troppo coinvolto per risultare oggettivo, il suo è un romanzo sentito e sofferto. Un alone di depressione si posa anche sulle considerazioni finali, come se la speranza avesse evitato di proposito questo libro. O perlomeno il quartiere industriale di Taranto.