"Patologie"- male di vivere nella poesia della Maremma

Marianna Abbate
ROMA Lo conosco troppo bene questo poeta per essere veramente oggettiva. E’ mio amico. 
Lo conoscono, seppure forse un po’ meno, anche i più affezionati lettori di ChronicaLibri: è l’autore più proficuo della nostra rubrica vintage. 

Il suo libro ce l’ho da mesi. E da mesi non ho il coraggio di recensire le sue parole, pubblicate nella collana Nuovi talenti della casa editrice Dreams Entertainment. 
Pertanto, pur di ritardare il fatidico momento, spenderò qualche riga nel raccontarvi di lui.
Giulio è un poeta. Per questo motivo è veramente insopportabile-lunatico e folle. Perennemente sofferente, di qualche “patologia” ormai cronica e decisamente inguaribile. Eppoi è un ragazzo intelligente, solare e di nuovo completamente folle, che lo rende una delle persone più belle che io conosca.
Ebbene sì, il poeta lo sopporto poco, anche per questo temevo di leggere le sue poesie. E soprattutto temevo di recensire questo volume. 
Ma poi mi basta leggere la dedica in prima pagina, per sorridere e lacrimare. C’è scritto: perché ti adoro. Sappiate che non è del tutto vero (certe volte penso che gli smiley entreranno a forza nei miei articoli, perché in questo punto ci sta veramente benissimo una linguaccia), e che a volte mi odia anche lui. Come diceva Catullo: odi et amo.
Ma torniamo a noi. Il libro si presenta bianco e fino, provvisto di immagini, i dipinti di Paolo Cimoni, compaesano caldanese dell’autore.
E poi ci sono le poesie. 
Tra le prime una dedicata alla sua terra, Caldana, una cittadina medievale della provincia di Grosseto. La poesia profuma.
Poi una dedica a Sandro Penna, con una speranza che non c’è mai stata fuori dalle sue righe. 
E poi c’è della poesia aggressiva, delle righe volgari e altre malinconiche. Alcune parlano d’amore, e forse neanche lo sanno.
Ci sono persino delle rime, e qualcosa che assomiglia alla Szymborska nell’immagine di una coppia presa da un cellulare in un bar.
Ma quello che mi è piaciuto di più è l’enjambement precipitoso, che spezza il senso e il tono così in linea con il tema in “Io goccio”, e che distrugge ogni equilibrio nella poesia che inizia con le parole “Piove l’ultimo autunno…”. Un senso di precarietà che ricorda molto la poesia che Ungaretti dedicò ai soldati.
I brani migliori sono quelli che rasentano la prosa poetica, in un linguaggio colto, musicale, ma accessibile. 


Solitudine
Sto solo – 
appoggiato a un precipizio
di suono.

Terre di Mezzo editore ci accompagna "a Santiago lungo il cammino portoghese"

Giulio Gasperini
ROMA –
Strade diverse portano comunque a mète note. Santiago di Compostela è destinazione oramai prospera e certa. Per arrivarci, tradizionalmente, si parte da Puente alla Reina, una piccolissima località della Navarra, e si percorre il cosiddetto Camino Francés. Ma già anticamente le strade che conducevano alla tomba dell’apostolo Giacomo erano molte di più. Una di queste era il Camino Portugues, che la Terre di Mezzo Editore ci illustra nel libro “A Santiago lungo il cammino portoghese”, scritto da Irina Bezzi e Giovanni Caprioli, e pubblicato nella collana Percorsi.


La strada, lunga 650 chilometri, parte da Lisbona, la magnifica capitale portoghese, dal tratto urbano nervoso e nostalgico d’un passato di potenza coloniale, (“Lisbona è una delle città più belle del mondo”, scrisse Carolina Invernizio), e sconfina in Spagna, fino ad approdare in uno dei tre grandi luoghi del pellegrinaggio cristiano.
I 650 chilometri del percorso di srotolano su una terra ancora di natura indomita, poco contaminata, che conserva, per molti aspetti, il carattere di purezza. Tanti, inoltre, i luoghi attraverso i quali si può passare: a partire da Fatima, altro grande centro spirituale e religioso, per finire alla graziosa e fascinosa Porto (il cui centro storico è stato dichiarato, nel 1996, Patrimonio dell’Umanità), oppure in importanti luoghi artistici come Coimbra.
Ma il libro di Terre di Mezzo Editore non dà soltanto informazioni e chiarimenti sui luoghi visitati e da visitare; offre tutta una serie di informazioni pratiche, utilissime al viaggiatore che, zaino in spalla, si appresta a intraprendere un cammino d’avventura. Dove dormire, cosa portarsi, cosa può diventare assolutamente necessario o assolutamente inutile, quanto si spende (e tracciare in tutta tranquillità un preventivo delle spese).
Ci sono informazioni, inoltre, indispensabili per chi voglia intraprendere il viaggio in bicicletta: utili, in questo senso, saranno le cartine, le distanze tappa per tappa e le indicazioni dei luoghi dove trovare ospitalità, corredati da informazioni tecniche e pratiche.
Insomma, se quest’estate avrete il coraggio di optare per un viaggio alternativo, il libro della Terre di Mezzo editore vi sarà assolutamente indispensabile: perché la mèta potrà pur rimanere sempre la stessa, ma le strade per arrivarci sono infinite.

"Sorella Toscana": la più bella regione, tra musica e parole.

Giulio Gasperini
ROMA
– Una silloge poetica e un CD per celebrare la Toscana, per raccontarla nella quotidianità dei suoi abitanti, anche grazie al complice aiuto di toscani blasonati e conosciuti, dalla grande Atina Cenci a Cristiano Militello, da Alessandro Benvenuti a Leonardo Pieraccioni, da Alessandro Nannini a Renzo Ulivieri. La casa editrice di Colle Val d’Elsa, Edizioni Protagon, ha pubblicato “Sorella Toscana”: un libro di poesie, circa un centinaio, curate da Marco Brogi, e dieci canzoni, create dal musicista Nicola Costanti per accompagnare la parola scritta, per guidarci alla scoperta di un borgo in particolare, Buonconvento, diventato exemplum per tutta la regione.

Perché la Toscana è una terra ancora saldamente ancorata al suo passato, al suo retaggio contadino, alle sue memorie comunali, alle sue tradizioni così dure (fortunatamente!) a estinguersi.
Le poesie sono spesso brevi; composizioni che giocano con le parole. Si tramutano in una sorta di Spoon River, nella quale, però, non si dimenticano la spregiudicata ironia e la graffiante sagacia toscane. Sicché non diventa un canto di morte, ma una gridata dichiarazione d’amore per la terra e per i suoi abitanti. Sono poesie che danno voce a un’umanità ampia e variegata, ai mestieri più disparati e distanti, alle esigenze più diverse e differenti: la Toscana è i suoi abitanti, e i toscani edificano la loro regione, dalla quale difficilmente se ne allontano (o tranciano, completamente, il legame più profondo).
Le dieci canzoni, invece, scritte ed eseguite da Nicola Costanti, innanzitutto esortano tutta la regione (e i suoi abitanti) a liberarsi dai luoghi comuni, dai pensieri convenzionali, dalle attese banali (“Sorella Toscana, alzati e cammina, esci dalla cartolina!”), dagli archetipi diffusi e oramai cristallizzati nelle guide di viaggio; ma arrivano anche a toccare vette di intensa poesia (“Quando non penso sogno di atterrare sugli occhi di mia madre bambina e aiutarla a fare i compiti”) o a districarsi agevolmente tra giochi di parole (“Scagliati come sassi da una mano nascosta, battiamo il record di sesso in corsa senza farlo apposta”).
Le tradizioni e la vita, più in generale, della Toscana sono, tramite questo raffinato prodotto editoriale, sottolineati ed esaltati; tutto questo per comprovare il vero significato e la vera potenzialità della più bella regione d’Italia.

Alla riscoperta del patrimonio antropologico delle "Fiabe e storie della Maremma"

Giulio Gasperini
ROMA –
L’editore Effigi, di Arcidosso, ha recentemente ripubblicato, in una nuova revisione anastatica, “Fiabe e storie della Maremma”, la summa del lavoro di Roberto Ferretti, fondatore dell’Archivio delle tradizioni popolari della Maremma grossetana. Ferretti fu appassionato studioso del folklore della sua terra, tanto da dedicare la sua tesi di laurea proprio alla riesumazione (e alla salvaguardia) del materiale antropologico e folkloristico declinato, in particolar modo, nella forma della fiaba, una delle concretazioni più originali e peculiari.

La tradizione della fiaba, anche in Maremma, è ovviamente quella orale, alla quale Ferretti ha dato una struttura narrativa per poter sopravvivere al logorio e all’usura del tempo che passa e che strazia la memoria. In questa maniera trovano nuova dimensione, sulla carta, le storie che i vecchi raccontavano ai nipoti, seduti fuori degli usci, nelle tiepide sere d’estate, oppure quelle che servivano per intrattenere la famiglia tutt’intorno al focolare del camino, nelle notti di freddo pungente.
La Maremma è terra aspra e ostile all’uomo: la sua canzone più celebre canta “tutti mi dicon Maremma Maremma / a me mi pare una Maremma amara / l’uccello che ci va perde la penna / io c’ho perduto una persona cara”. La malaria, soprattutto, diffusa in una regione di immense paludi malefiche, mieteva vittime su vittime. L’umanità che qui si diffuse si abituò al dolore, al sacrificio del sudore che le zolle pretendevano; ma si legò strettamente alla terra (le conquiste sofferte, si sa, son le più soddisfacenti) in un legame inscindibile, in una forma d’amore feroce.

Ferretti, anche grazie all’aiuto di amici e conoscenti di ogni luogo della Maremma, ha potuto in questa maniera conoscere le diverse leggende e le diverse fiabe che cambiano, fatalmente, anche a pochi chilometri di distanza: perché anticamente anche quei pochi chilometri erano un percorso accidentato, e i contatti tra i paesi erano sporadici e saltuari.

Noi, nella nostra accelerazione degli anni Zero, abbiamo una diversa coscienza sia del tempo che della distanza, le due grandi “verità a priori” (secondo la prospettiva kantiana). Molto tempo fa, quando il tempo era più lento e le distanze più lunghe, le fiabe raccontate divennero un’inesauribile ricchezza; che oggi, fortunatamente, ci vengono ripresentate, perché anche noi possiamo renderci conto che, forse, rallentare potrebbe anche voler dire re-imparare ad ascoltare.

"Papà Mekong", dove ancora si può scommettere sull’intima bontà dell’uomo.

Giulio Gasperini
ROMA –
Arduo è scrivere un romanzo che abbia come argomento i viaggi. Perché si rischia di essere pedanti, di scrivere inutili glosse, di voler dare troppe informazioni che pertengono più a una guida turistica che non a un prodotto di finzione narrativa. Corrado Ruggeri, consumato giornalista ed esperto viaggiatore, ha pubblicato per
Infinito Edizioni, casa editrice dalla vocazione del sociale, “Papà Mekong” (2011, collana Grandangolo), un libro che su questi due fronti (guida vs. romanzo) si dondola con misura e sobrietà.
È una storia, quella di “Papà Mekong”, che si orchestra tramite l’allacciarsi e l’intersecarsi di tante altre storie: tante individualità che, spesso gravate da un passato ingombrante e prepotente, si trovano a toccarsi, anche solo a sfiorarsi, in una progressione alla casualità che pare piuttosto un disegno geometrico del destino.

Silvia è la donna che trova un messaggio del padre, morto da anni, e principia a indagare nell’Oriente sulla vera persona del padre; Amina è la ragazza che attraversa un’infanzia difficile e spietata e trova conforto spirituale nel lavoro a Kalighat, dalle Missionarie della Carità, e conforto sentimentale tra le braccia del giovane dottore Peu; Pietro è l’uomo d’affari italiano con un passato oscuro, e un ancor più oscuro avvenire; Wong è la donna che si prostituisce per vivere, e rimane vittima innocente del suo primo e vero (quanto magari involontario) amore. Tutte storie nelle quali la lontananza gioca un ruolo fondamentale, e nelle quali in qualche caso si trasforma in un crudele addio, in altre sa evolversi e coniugarsi in un’attesa più pura e proficua.

Corrado Ruggeri né giudica né valuta. Soltanto, si fa burattinaio, abile tessitore di fili – in qualche caso fors’anche troppo prevedibili o esasperati – d’una vita che sa rifiorire anche in luoghi di dolore e di sofferenza, tra i lebbrosi della mitica Kolkata o tra i bambini orfani d’una terra martoriata da guerre inspiegabili. Su tutti questi travasi di sorte e su tutti questi frammenti di dolore domina quella che una giovane donna, ostaggio dell’odio immotivato, definì “l’intima bontà dell’uomo”: la capacità, cioè, di rendersi partecipi del dolore degli altri (la nobile compassione!) e di attivarsi affinché il dolore non rimanga soltanto una fotografia, una denuncia sterile, ma possa significarsi in un domani migliore, in un altro giorno che non sia manifesto di propaganda né pura retorica. E tutto questo Ruggeri lo fa mai scivolando nel sentimentalismo, in cui così facilmente si può sprofondare descrivendo storie come questa.
Forse l’autore esagera troppo le casualità, che sono chiamate a edificare un destino; ma il risultato (e il messaggio finale) si smarcano decisamente dalla fiction narrativa, per rappresentarsi indipendenti e per veicolare il messaggio più nobile di tutti: il rispetto d’ogni vita e d’ogni dignità, a ogni latitudine e longitudine.

"Altri seguiranno": un testimone che fu vero martire.

Giulio Gasperini
ROMA –
Col sangue scrisse le sue poesie Alexandros Panagulis. E le imparò a memoria, perché anche se gliele avessero sequestrate, sarebbe stato sempre in grado di ricordarle. Le scrisse, Alekos, durante la disumana prigionia nel carcere di Boyati, in quella cella loculo progettata e costruita appositamente per lui, per contenere la sua furia e il suo urlo di libertà. Era il 1968; per Panagulis, dopo l’attentato fallito al capo della Giunta dei colonnelli (e promotore del colpo di stato) Georgios Papadopoulos, cominciarono i duri e oscuri anni delle torture e delle violenze, che trovarono un prepotente sfogo creativo in queste poesie che, di nascosto, riuscirono a esser spedite fuori dal carcere e a esser pubblicate. In Italia, meritarono l’ammirazione di Pasolini e il Premio Viareggio. Flaccovio, editore di Palermo, nel 1990, le ha ripubblicate: “Altri seguiranno”, più che titolo d’una silloge, infatti, vuol essere un ammonimento, un auspicio; ma, ancor di più, una certezza d’avvenire.

“Un uomo” è stato definito, Alekos, da Oriana Fallaci; lei seppe, in un libro oramai leggendario, trasformare la sua fiaba, la fiaba dell’eroe che muore ucciso da tutti, in un ruggito, in un grido da frantumare la gola, in un urlo di indocile umanità. Lei lo ha trasformato, universalmente, nel paradigma assoluto della libertà; lei lo ha reso l’eroe per antonomasia, il combattente per la libertà somma, il condottiero dal coraggio indomito ma anche dell’incontentabile irrequietudine. Lei lo ha presentato, però, anche come un poeta uno di quelli che sapevano (e ci credevano) che la poesia potesse avere una parte fondamentale nella ricerca e nella lotta per la libertà: un poeta, insomma, che considerasse la poesia come azione, come ‘fare’, e non soltanto come mero esercizio di forma e stile.
Alekos ha sempre cantato la sua utilità, di persona ribelle, ma non la sua necessarietà, in una umile certezza di essere soltanto colui che mostra quella strada che poi gli altri dovranno percorrere: non importa se lui cadrà, non importa se sarà sacrificato, perché il suo messaggio sarà tramandato, sarà sventolato come vessillo di libertà, e altri seguiranno nella sua eroica impresa. Fiducioso, Alekos!, ottimista della forza che i profeti hanno sulle masse, della bontà del loro insegnamento. Ma i profeti, si sa, finiscono per urlare nel deserto, riempiendosi la bocca di sabbia e di sempre assediante frustrazione.
Panagulis scriverà di non poter essere vinto; di esser sicuro che il suo messaggio, la sua Idea, portata insieme alla Croce, sarà un monito (e un faro) per tutti colore che, dopo di lui, verranno. La storia, purtroppo, ha dimostrato altre verità, altre inevitabili omertà. Come quella sulla sua morte; senza reali condanne.

"Lettere d’amore": tanto abbiamo amato e tanto, per questo, ci sarà perdonato.

Giulio Gasperini
ROMA –
George Sand fu donna che si chiamò come un uomo; fumò come un uomo; indossò pantaloni come un uomo. George Sand, di uomini, ne amò tanti; d’un amore che fu passione, estrema devozione, dedizione assoluta (“non c’è che l’amore che al mondo abbia qualche significato”). George Sand fu donna che visse ogni singolo minuto dei suoi amori spesso contrastati e travagliati, ma sempre condivisi. Suo amante fu Chopin; suo amante fu Alfred de Musset, col quale intessé anche un rapporto epistolare delizioso e profondo, tradotto in italiano da Archinto, nel 1999. Le loro “Lettere d’amore” ci fanno penetrare, con grazia e discrezione, in un inverso complesso ma avvolgente, fatto di dolci atteggiamenti, furiose passioni e grande stima reciproca; quando ancora i rapporti non diventavano svogliati, e i sentimenti (le promesse!) eran più duraturi d’un sms o d’un commento su facebook.


Al di là dei meriti letterari della Sand, che scrisse un centinaio di opere in poco meno di cinquant’anni, (“sciocca, pesante, logorroica” la definì Baudelaire, con “la stessa profondità di giudizio e la medesima delicatezza nel sentire delle portinaie e delle mantenute”), rimane indubbio che, circoscritte all’amore (ma anche, a esser sinceri, alla politica), le sue posizioni si palesano d’una modernità disarmane, perché analizzate tramite una coscienza e un punto di vista debitamente calibrati non tanto sulla società e le sue tirannie, ma sostanzialmente sull’interiorità e sull’unico soggetto realmente interessato: il sé stesso, di chiunque sia. E l’amore è la spinta propulsiva alla salvezza; tanto da credere, la Sand, profondamente, nella promessa che Gesù concesse alla Maddalena: tanto ha amato e tanto, per questo, le sarà perdonato.
Il vero manifesto della teoria amorosa della Sand è la lettera datata “Venezia, 12 maggio 1834”, quella stessa che Céline Dion, nell’album D’Elles del 2007, ha cantato, plasmando, per la Sand, una voce che, probabilmente, supera qualsiasi tipo di aspettativa. La lettera riguarda l’eredità dell’amore che, quando finisce, non può lasciare soltanto odio o rancore o, ancor peggio, indifferenza, perché comunque i due amanti hanno condiviso un frammento di vita, son stati compartecipi di esperienze comuni e hanno tessuto un universo che, in nessun altro luogo né spazio, potrà mai tornare uguale. La Sand sa che il ricordo dei passati amori si solidifica nella coscienza d’un amante, si cristallizza in una sorta di memoria sentimentale, ma non per questo l’amore ne deve risentire, né esserne flagellato o straziato: “Ama, dunque, mio Alfred, ama per davvero. Ama una donna giovane, bella, e che ancora non abbia amato, né ancora sofferto. Prenditi cura di lei, non farla soffrire. Il cuore di una donna, quando non è di ghiaccio o di pietra, è così delicato!”.
Perché l’importante, per la Sand, è comunque la consapevolezza d’aver amato. Al di là di tutto, oltre a tutto, nonostante tutto: “Un giorno tu possa guardarti alle spalle e dire come me, spesso ho sofferto, a volte ho sbagliato, ma ho amato”.

"L’omosessualità non è ancora metabolizzata dal nostro panorama letterario (e culturale)": ChrL intervista Giorgio Ghibaudo.

Giulio Gasperini
ROMA –
Ghibaudo, torinese d.o.c., ha una scrittura scevra di finzioni inutili, di orpelli grevi. Ha una scrittura pratica e maneggevole, semplice e non artificiosa. Esattamente come è lui; e lo capirete dalle risposte alle mie domande. Con Giorgio abbiamo provato ad armonizzare l’intervista. Lui si è scherzosamente lamentato che le mie domande eran complesse, e che sarebbero servite ore di telefono per rispondere. Io credo che abbia risposto in maniera molto intelligente, non trovate?!?

Scontata e prevedibile, la prima domanda riguarda il materiale autobiografico presente in questo romanzo. Quanto ce n’è? Quanto ce ne sarebbe stato di più?
Se la domanda era (per tua stessa ammissione) prevedibile, mi auguro di sconvolgerti ammettendo che, pur essendo un’opera prima, nella quale ci si aspetterebbero aneddoti raccattati qua e là dal mio passato, in Kiss Face l’unico elemento vagamente autobiografico è la festa di mezza estate alla quale i due protagonisti partecipano.
Poi, se vogliamo andare a fare una ricerca proprio approfondita, potrei aggiungere che poche settimane prima che io mi accingessi a scrivere questo romanzo fui brutalmente mollato da un certo Paolo. Ora, il fatto che il protagonista di Kiss Face si chiami proprio così e che nel corso della narrazione subisca una serie di abbandoni da parte dei suoi compagni… come potrebbe essere interpretato tutto ciò? Come una sorta di catarsi per interposta persona? Come un delirio di onnipotenza? Battute e strizzate d’occhio a parte, ritengo la mia esistenza non così ricca di eventi tali da meritare di essere inseriti in un romanzo. Preferisco lavorare di fantasia, su idee che mi sono venute e che approfondisco in fase di scrittura. La festa di mezza estate che cito più sopra è stata presa da una mia esperienza personale e cambiata al punto tale da non essere più riconoscibile. Avevo bisogno di un contesto che fosse un po’ “magico” per introdurre il personaggio di Flora.


La seconda domanda, anche questa poco emozionante perché inflazionata, riguarda l’importanza dell’omosessualità sulla scrittura. A lungo si è discusso e tutt’ora se ne discetta in maniera quasi ossessiva, oserei direi (ma tutta italiana è la mania delle etichette, esclusivamente per far lavorare tanti critici e professori universitari), sull’esistenza o meno della letteratura di genere e, in questo caso specifico, della letteratura “omosessuale”. Esiste? Non esiste? Sarebbe meglio non esistesse? Oppure è inutile persino porsele, queste domande?
A mio modestissimo parere una “letteratura LGBT” esiste, eccome! Esiste come esistono decine di altre letterature e generi, tutti degni di un proprio spazio. Il problema (soprattutto qui in Italia) è forse l’enfasi con la quale il discorso-omosessualità viene sempre trattato (vedi “stigmatizzato”). È spesso fonte e tema di dibattiti, di scontri in ogni ambito della vita sociale e politica. Tutto ciò, ovviamente, fa sì che un genere letterario (o cinematografico o teatrale che sia) o qualsiasi forma artistica (a tematica LGBT) diventi a sua volta oggetto/bersaglio degli stessi dibattiti. E mi pare che certe domande vengano poste solo ed esclusivamente in riferimento a quel tipo di letteratura. Ritengo comunque utile e doveroso porsi queste domande. È una spia di come l’omosessualità non sia ancora una cosa metabolizzata nel nostro panorama. Quando non sentiremo più la necessità di porci questa domanda (così come quando non ci chiederemo più se un gay possa sposarsi o una lesbica adottare un bambino), significherà che le cose saranno nettamente migliorate, per tutti, anche per gli eterosessuali.


Sicché deduco che per te la letteratura omosessuale, pur esistendo come genere, non possa esser confinata soltanto a lettori omosessuali. Ma perché, probabilmente vincendo un inevitabile e inestirpabile (almeno per adesso) machismo, un etero dovrebbe interessarsi di acquistare libri che parlano di tematiche omosessuali? (Il discorso è solo maschile perché, pur con le dovute eccezioni, le donne paiono più disposte ad accogliere, da lettrici, lo sconfinamento di genere).
Torniamo un attimo al discorso “generi”. Se equipariamo (cosa che mi sembra sana) il “genere LGBT” a tutti gli altri, allora ci troviamo a poter constatare che non a tutte le persone piacciono tutti i generi (cosa a mio parere altrettanto sana). Per esempio a me non piace il genere bellico, come altri potranno dire di non gradire la fantascienza perché si definiscono persone con i piedi piantati a terra o c’è chi non apprezza il fantasy e lo che liquida come “semplice” letteratura per ragazzi. Però nel caso della letteratura LGBT, ci troviamo di fronte a volte a un atteggiamento dai tratti vagamenti omofobi e dunque un eterosessuale maschio troverà un certo fastidio ad approcciarsi a un romanzo con gay come protagonisti (cosa che effettivamente, come suggerivi tu, non infastidisce minimamente le lettrici eterosessuali). È anche interessante constatare come noi della comunità LGBT, invece, non disdegniamo la lettura di romanzi in cui i protagonisti siano eterosessuali e non cerchiamo a tutti i costi la love story gay ogni volta che sfogliamo un libro.


Sarei curioso di sapere, però, proprio in concreto, quali sono i motivi per i quali, a tuo parere, un lettore eterosessuale dovrebbe interessarsi a leggere un libro dalle tematiche omo?
Se parlassimo di “generi in generale” si potrebbe dire che più si allarga il raggio delle proprie letture (e i temi trattati in esse) più aumentano le prospettive mentali personali, le proprie conoscenze e i propri interessi. Purtroppo questo tipo di letteratura di cui stiamo parlando è osteggiato da un muro culturale molto forte. Per un eterosessuale è imbarazzante la lettura di un libro a tematica LGBT perché gli verrebbe da porsi la seguente domanda: “Ma se io sono veramente etero, per quale motivo sto provando questa strana curiosità su argomenti così lontani da me? Cosa mi sta succedendo? Non è che anche io, forse…?” Sarebbe per lui una bella prova di coraggio, più che una semplice lettura! Nella realtà, invece, un eterosessuale che si interessasse a un romanzo a tematica LGBT darebbe intanto un esempio di come si possa spaziare con la letteratura in più universi narrativi e sarebbe un modo, per lui, per capire quanti di quegli stereotipi da barzelletta da caserma che circolano su di noi, non trovino fortunatamente alcun riscontro nella vita di tutti i giorni. Sarebbe un modo per capire e conoscere un mondo diverso dal proprio ma che ha la stessa dignità e diritto di esistere.


All’estero, per ampliare la discussione, la letteratura omosessuale è considerata uno dei capisaldi della crescita culturale. Basti pensare a Edmund White e David Leavitt negli States, o a Forster e Wilde in Inghilterra. In Italia i nomi di Tondelli, di Patroni Griffi, persino di Penna e Pasolini ancora si sussurrano, senza contare la freddezza con cui si glissa sull’omosessualità di tanti altri (Palazzeschi tra tutti); figurarsi poi se se ne discute nelle aule scolastiche! Quali sono, a tuo avviso, i ritardi che comporterà questo nostro blocco culturale?
Mi permetto di aggiungere, per quanto riguarda la letteratura statunitense, il nome di Armistead Maupin che è uno dei miei scrittori preferiti. Invece, per rispondere alla tua domanda, posso dire che i ritardi causati da questo “clima” sono quelli che possono esserci quando esiste una forma di censura più o meno voluta/velata. Ovvero apertura mentale alle differenze pari a zero, arretratezza culturale, altra omofobia (interiorizzata e non). Come se ne sentissimo poi il bisogno…


Il tuo romanzo è un coloratissimo mondo in cui si agitano personaggi diversi, tutti apportatori, a loro modo, di un brivido, una spinta emotiva, abitanti di un microcosmo che par diventare la migliore declinazione d’esistenza. Un po’, bisogna dirlo, come avviene in ogni film di Ferzan Ozpetek (come, ad esempio, nelle scene dei pranzi domenicali in terrazza al Testaccio, in Le fate ignoranti). Ecco, quanto i suoi film, da Saturno contro a Mine vaganti, hanno condizionato l’immagine che il pubblico (principalmente negli ultimi anni) ha degli omosessuali e quanto, invece, hanno condizionato la tua narrazione?
Ozpetek è un regista che mi piace moltissimo e di cui ho apprezzato quasi tutti i film (Un giorno perfetto, proprio no!) sia “a tema” che non “a tema” (Cuore sacro sublime!). Ama, e si vede, il cinema italiano del passato. È un autore coraggioso che “osa” sia da un punto di vista degli argomenti trattati che della messa in scena (in Italia ce ne sono pochi, ma va?!). È in grado di offrire una panoramica precisa su ciò che può essere la comunità LGBT nel nostro paese. Descrive le dinamiche e le tipologie senza finire negli stereotipi più triti. È sicuramente una benedizione nel nostro cinema in quanto ci ha finalmente liberati da tante idee preconcette che gli eterosessuali potevano avere di noi. Per quanto riguarda il mio libro posso dire che anche qui, come nei film che hai citato, c’è un’idea di appartenenza a un gruppo (nel caso di Kiss Face quello composto dal transgender Flora e dai suoi amici) che ti accoglie, ti tutela, ti coccola, ti protegge e ti prepara a “tutto quello che c’è fuori”. Ma non trascurerei l’influenza del già da me citato Armistead Maupin che, da quasi quarant’anni, nei suoi celebri Tales of the City descrive la vita dei suoi personaggi che popolano la comunità LGBT di San Francisco. Se già in questo mio primo libro l’idea della comunità è presente, nel prossimo, una sorta di “spin off” di Kiss Face, sarà ancora più forte e riunirà intorno a sé tantissimi personaggi.



Un piccolo vezzo di noi di ChrL, una domanda che rivolgiamo a tutti gli scrittori (proprio perché scrittori siete!): quali sono le tue tre parole preferite, e perché?
Ukulele, lo strumento musicale suonato dalla Monroe in A qualcuno piace caldo, una delle mie commedie preferite. Nota: non sono in grado di suonarlo.
Rabastè, verbo in dialetto piemontese che significa trascinare, strisciare… e che ha un che di onomatopeico che mi attira;
Entourage che riesce a darmi l’idea di gruppo, di comunità, di movimento, di varietà, di scambio.
Ora che ci penso, non ho mai usato queste parole nei miei scritti. Corro subito a provvedere…

Son sinceramente curioso di sapere quale frase comporrai che contenga tutt’e tre codeste parole…

"Kiss face" e l’importanza delle "streghe".

Giulio Gasperini
ROMA –
Nel gergo (cinematografico e da sit-com, come Will&Grace) si chiamano streghe; in romanesco vengono definite frociarole. Ma qualsiasi termini si usi (anche più neutro e dimesso) resta indiscutibile che per un giovane ragazzo gay siano imprescindibili e insostituibili. Giorgio Ghibaudo, fresco scrittore e caparbio volontario, esordisce alla narrativa con “Kiss face”, pubblicato da Lineadaria nel 2011, scegliendo proprio di presentarci una sorta di Éducation sentimentale dei nostrani Anni Zero.
La storia, in sé per sé, è un riproponimento – prevedibile, a dire il vero – di qualcosa di già sentito: un ragazzo, che non si accetta fino in fondo, dopo un’inevitabile enorme crisi sentimentale e affettiva, sventa la rovina conoscendo, in circostanze divertenti, una ragazza (la strega, appunto), che lo guiderà, con la sua mancanza d’inibizioni e il suo polso fermo, a capirsi e accettarsi.

È prevedibile, si diceva, che tali storie abbiano, ben o male, lo stesso canovaccio. E questo romanzo non sgarra dal previsto. Però Ghibaudo sa introdurre delle novità, a cominciare dal titolo: cos’è la kiss face, ve lo siete chiesto? Ebbene, ci pensa lo scrittore a rendercene edotti, fornendoci la definizione di un dizionario, sia nel suo significato letterale che in un significato esteso, traslato. (Però io ve lo taccio). La grande protagonista, in tutto ciò – che rischia persino di soffocare la voce narrante (quella del ragazzo gay) – è, appunto, Francesca, deliziosa e anticonformista ragazza dall’animo (all’apparenza) completamente disinibito e sapientemente duttile (e che ancora, beata lei, sa scrivere cartoline!).
“Kiss face” è un romanzo stuzzicante perché ha il coraggio di prendersi in giro, di smascherarsi per quello che in realtà è: una sorta di commedia degli errori (e delle maschere), nella quale tutti i protagonisti si ritrovano, all’arrivo, sciolti dai loro enigmi e declinati secondo nuove prospettive; proprio come succede nella realtà, quando si cresce, e si accumulano i giorni. “Kiss face” è un sogno di una notte di mezz’estate: attraversa la follia d’una confusione di ruoli e, dopo il disvelamento magico e giocoso, approda alla definizione; o meglio, se non proprio a una definizione, quanto meno a un “contornamento”.
Questa è la nuova declinazione del romanzo di formazione, negli Anni Zero: una lievità disarmante ma intelligente, una virata verso meccanismi lineari di causa-effetto e poco arzigogolati meandri mentali. Sicché niente più Le Rouge et le Noir né l’educazione sentimentale è più quella di Flaubert. Ma questa, nuova e più istantanea, che persegue anche Ghibaudo: fulminea, repentina, divorante nella sua irruente frenesia.

"Virginia Woolf e il giardino bianco": perché non si dovrebbe scherzare sui santi.

Giulio Gasperini
ROMA –
Stephanie Barron ha la febbre dei gialli letterari: dalla sua pena è nata, da qualche anno, la nuova declinazione di Jane Austen che, senza denaro e non ancora pubblicato The Pride and the Prejudice, si diverte a indagare e risolvere i piccoli misteri delle campagne inglesi. In questo nuovo romanzo, invece, la Barron tiene a riposo l’autrice di Mansfield Park ed Emma, e decide di riesumare alla modernità un’altra autrice cardine di tutta la letteratura del ‘900: niente meno che la Woolf, Virginia Woolf. In “Virginia Woolf e il giardino bianco”, pubblicato da TEA nella Narrativa, si diverte, la Barron, a inventare gli ultimi giorni di vita della grande scrittrice inglese.

Tutti conosciamo la sua morte: il 28 marzo 1941 uscì dalla sua casa nel Sussex, dove viveva con il marito Leonard, raggiunse le rive dell’Ouse, si riempì le tasche del soprabito di pietre e si abbandonò alla corrente. Nella mia fine è il mio principio, scrisse Agatha Christie: e proprio da qui, dalla fine, la Barron principia la sua indagine poliziesca, una sorta di thriller da architettura di giardini.

Il corpo della Woolf fu trovato soltanto molti giorni dopo la sua scomparsa: è possibile che la scrittrice avesse soltanto simulato il suo suicidio per sparire e poi uccidersi molti giorni dopo la data ritenuta ufficiale? Dove aveva passato questo arco di tempo? Da chi si era rifugiata?
La detective improvvisata è, appunto, un architetto del paesaggio, Jo Bellamy, che approda a Sissinghurst Castle per studiare (e ricostruirlo, negli States, per un suo cliente/amante) il famoso White Garden che la scrittrice Vita Sackville-West (raffinata scrittrice, coraggiosa viaggiatrice e appassionata amante anche omosessuale) aveva creato per la sua amata Virginia: un giardino completamente bianco, in ogni dettaglio. Qui, in un casale dimesso della proprietà, la Bellamy rinvenirà un diario, scritto pare da Virginia stessa, che principia con la data successiva a quella, conosciuta e ufficiale, della sua morte.
La saggezza popolare ci ammoniva (e il sagrestano della Tosca lo cantava con sguardo torvo) che coi fanti si può anche scherzare, ma che i santi devono esser lasciati in pace. E se la storia è incalzante e il romanzo scorrevole, alla fine della lettura rimane un po’ l’agrodolce retrogusto (e l’assurdità imbarazzante) di essersi, effettivamente, troppo baloccati coi (e sui) santi. Mentre, al contrario, i santi andrebbero lasciati in pace, soprattutto quando possono (e devono) godere meritatamente della loro letteraria giusta gloria.