"Bartleby lo scrivano", meravigliosa opera triste di Melville

Stefano Billi

Roma – Cosa rispondereste a chi, in maniera composta e tranquilla, oppone ad ogni vostra richiesta un educato ma disarmante: “preferirei di no”?
Ebbene, leggendo “Bartleby lo scrivano”, una storia stravagante che lascia pervasi da una curiosità mista ad una sensazione di impotenza – meravigliosa opera di Herman Melville, conosciuto soprattutto come autore del celeberrimo libro “Moby Dick” – ci si ritrova coinvolti in questa situazione.
Il racconto narra, infatti, la vicenda di uno scrivano, Bartleby, che svolge il ruolo di copista legale presso un avvocato newyorchese di metà Ottocento. Il protagonista si presenta come un giovane rispettabile ma squallido, dal viso smunto e gli occhi grigi: ogni suo gesto sembra privo di umanità.
Mansueto e al contempo sprovvisto di ogni traccia di rabbia o impertinenza, la sua condotta si traduce in una scrittura scialba, silenziosa e meccanica.
Soprattutto, ad ogni ragionevole richiesta posta in essere dall’avvocato che poi è il datore di lavoro di Bartleby, quest’ultimo oppone un mite ma irremovibile “preferirei di no”, senza dare giustificazione alcuna del suo rifiuto.
Bartleby è un uomo imperscrutabile, non si hanno notizie sul suo passato, se non una diceria che il legale riporta al solo scopo di dare una ragionevole spiegazione all’atteggiamento così strano di quel dipendente.
Lo scrivano, perciò, rimane inaccessibile agli altri, inconciliabile con il resto del mondo.
Nella tenebrosa esistenza di Bartleby si può scorgere quella parte di umanità afflitta nell’animo dal disordine incurabile della solitudine.
Il libello, che consta di poche pagine, presenta uno stile narrativo che richiama il tratto inconfondibile utilizzato dal Melville in Moby Dick; tuttavia, qui l’autore non offre gli innumerevoli spunti enciclopedici menzionati nell’opera sulla balena, ma piuttosto prevale tra le pagine un modus scrivendi asciutto, che non lascia spazio a divagazioni culturali.
Tale tecnica lascia intatta, per tutta la storia, la pressione sentimentale che il romanzo imprime nei lettori: l’angoscia è sempre presente, ed affligge chi legge così come intanto avvinghia la vita del protagonista.
Il fascino di questo libro è insito nella curiosità che aleggia attorno la vicenda di Bartleby, personaggio tanto misterioso quanto disarmante, verso non si può far altro che arrendersi.
Degna di particolare pregio è l’edizione del libro edita da Full Color Sound, che del racconto offre non solo una versione stampata, ma anche una versione letta da Serena Dandini (in sottofondo sono presenti poi le musiche di Lele Marchitelli e Danilo Rea).
Un libro non facile da digerire e che lascia un po’ l’amaro in bocca, come uno scotch whisky invecchiato almeno dodici anni.

Solcate l’avventura tra le pagine straordinarie di "Moby Dick"

Stefano Billi

Roma – La terraferma per l’uomo è essenziale, quasi quanto l’aria: tuttavia, anche l’acqua è un elemento indispensabile per l’essere umano, così come è indispensabile leggere, rileggere e leggere ancora “Moby Dick”, il più bel romanzo di Herman Melville.
Di sicuro, questo è uno dei libri più affascinanti che l’umanità abbia mai conosciuto; la sua bellezza si dipana anche attraverso la preziosa, attenta e poetica traduzione del testo realizzata da Cesare Pavese e pubblicata da Adelphi nel 1941.
Tra le pagine di quest’opera non si scandagliano solo le acque più profonde degli oceani, ma anche le emozioni più recondite dell’animo umano; ecco, nella navigazione ardua della vita serve proprio una “carta” per orientarsi tra tutte quelle sensazioni che scuotono l’Io di ogni individuo e così “Moby Dick” rappresenta – in maniera sublime – una stella polare per quel lettore intento a scoprire (come canta un eccentrico artista italiano) “come è profondo il mare”.
Ciò che tuttavia rende questo romanzo una pietra miliare della letteratura mondiale è la mirabile caratterizzazione dei personaggi.
Ad esempio, “Peep”, descritto come un pazzo tra i pazzi, si rivela piuttosto in talune occasioni un profeta tra gli stolti, perché quel suo distacco dalla realtà gli rende forse più nitida, rispetto agli altri, la trama oscura e terribile del destino che attende i marinai del Pecoq (ovvero il vascello adibito alla caccia della balena).
Poi c’è “Acab”, il capitano maledetto di questa storia, che cerca di riprendersi un orgoglio inghiottito da un cetaceo quasi sovrannaturale dotato di un perfido raziocinio che lo porterebbe, a detta dello stesso capitano, a pianificare meticolosamente gli attacchi all’equipaggio, quasi si trattasse di un’entità demoniaca.
Infine, tra tutte le figure generate dal genio di Melville, c’è Ismaele: avventuriero al contempo in cerca e in fuga da se stesso, imbarcato in un bastimento che, ahimè, è guidato da uno scellerato ed iracondo capitano la cui unica ragione di vita è la sete di vendetta, non solo verso la balena, ma anche nei confronti della natura.
In sottofondo all’opera, l’autore lascia lo spazio necessario a interessanti descrizioni sull’ambiente marinaresco dell’epoca o sui luoghi solcati dal Pecoq, ma soprattutto egli intesse profonde e sensibili considerazioni sulla condizione umana di fronte alla sconfitta, al dolore e alla perdita.
Tutto questo è poi certamente impreziosito dall’aura mistica di cui sono pervase le pagine, quasi non si stesse leggendo un romanzo d’avventura bensì un trattato religioso.
Naufragate nel dolce mare di questa lettura: sentirete soffiare un’indimenticabile brezza di passione tra le pieghe dell’anima.