In viaggio con… Antonio Menna e uno Steve Jobs napoletano

ROMA – Bentrovati all’appuntamento di “In viaggio con…”: la nuova rubrica di audiointerviste, che anima il nostro Canale Youtube.

Antonio Carnevale e Massimiliano Augieri, due navigati e affascinanti speaker radiofonici, intervistano per noi gli autori delle più importanti novità editoriali.

Questa settimana è ospite Antonio Menna con il suo successo “Se Steve Jobs fosse nato a Napoli”

Per ascoltare l’intervista cliccate su questo link:

Intervista ad Antonio Menna su CHRONICAtube

Oppure accedete direttamente al Canale Youtube, dal video a destra. BUON ASCOLTO!

Antonio Menna Se Steve Jobs fosse nato a Napoli

Due ragazzi chiusi in un garage si inventano il computer del futuro: leggero, veloce, dal design innovativo, che non si blocca e non prende virus. Se fossimo in America, la storia avrebbe un lieto fine, fatto di soldi, gloria e successo.È andata così a Steve Jobs e alla sua Apple. Ma siamo a Napoli, dove il genio non basta a cambiare un destino. Lo sanno bene Stefano Lavori e Stefano Vozzini, due ragazzi dei Quartieri Spagnoli, che per avviare l’attività e vendere il loro rivoluzionario computer si scontrano con il peggio del Belpaese: in Italia i prestiti si fanno solo a chi ha già i soldi, le regole sono scritte per gli scemi perché i furbi se le scrivono da soli, i bandi li vincono gli amici di amici, la burocrazia chiude un occhio su chi è ben ammanigliato, ma li tiene spalancati sui poveracci. E ammettendo che i due guaglioni siano abbastanza affamati e folli da non arrendersi, quando ci si mette di mezzo la camorra il loro sogno va letteralmente in fumo.O, almeno, così sembra. Questo racconto, tanto amaro quanto esilarante, è nato come post sul blog dell’autore e in poche ore ha fatto il giro del mondo prima di diventare un libro.Antonio Menna spiega in modo divertito e insieme spietato la condizione di un Paese che sguazza nei suoi mali e incoraggia le buone idee ad andarsene. E ci svela perché da noi la Apple non sarebbe mai nata. E forse Steve Jobs sarebbe finito a vendere le pezze al mercato. (Sperling & Kupfer Editori, 2012, €10.50)

 

ChrL intervista Roberto Riccardi, autore de “La foto sulla spiaggia”

ROMA – Quando leggi un libro ti chiedi spesso – quasi sempre – come quel libro sia nato, a quali storie si sia ispirato, se sia stato frutto di immaginazione, studio o coincidenze. Molte volte, leggendo un buon libro, il lettore diventa curioso: vuole (pretende quasi) conoscere lo scrittore, capire come sia arrivato a dare vita a un romanzo. Con “La foto sulla spiaggia” le domande, per il lettore, si moltiplicano; perché dietro al libro pubblicato da Giuntina c’è un uomo che è scrittore, giornalista e colonnello dei Carabinieri. Allora la curiosità aumenta: perché Roberto Riccardi sceglie la foto di una bambina ebrea per costruire un grande romanzo storico? Io, da lettrice-giornalista curiosa, ho voluto intervistarlo.

Dopo “Sono stato un numero. Alberto Sed racconta” Roberto Riccardi torna sulla tematica della Shoah; come mai questa scelta?
I motivi sono tanti. Il primo è che, dopo aver conosciuto Sed, la Shoah è diventata una parte importante di me. Conoscere un ex deportato fa una bella differenza rispetto allo studio della Storia: ti cambia la vita. A me è successo, almeno. Da allora leggo tutto ciò che riguarda i lager, guardo i film, seguo i dibattiti, approfondisco. Dunque per me è stato naturale tornare sull’argomento e ho scelto di farlo con la narrativa. In una vicenda di fantasia possiamo mettere più facilmente noi stessi, era ciò che volevo fare.

Lei ha dichiarato che “il libro “La foto sulla spiaggia” è un cerchio che si chiude”. Ci spiega il perché?
Perché, quando volevo scrivere il mio primo libro, cioè la biografia di Sed, mi sono rivolto alla casa editrice Giuntina, specializzata sul tema, e ho conosciuto Daniel Vogelmann, il fondatore e direttore editoriale. Lui mi ha raccontato della sua sorellina mancata, Sissel, morta ad Auschwitz a otto anni. Il romanzo è dedicato a lei, parla della vita che Sissel poteva vivere ma le è stata negata.
“A cosa era servito percorrere tanta strada per andare a morire in un lager infame?” Secondo Lei, a settant’anni di distanza, ci si pone ancora questa domanda oppure ora si comincia a dimenticare?
Dimenticare Auschwitz è impossibile, per chi ha avuto la disgrazia di entrarci. Ognuno di loro ha ferite che non si possono rimarginare. Il 27 gennaio si celebra il Giorno della Memoria per ricordare quando, nel 1945, i cancelli del lager furono aperti e i pochi prigionieri rimasti, fra cui Primo Levi, tornarono liberi. Purtroppo quell’evento non ha potuto rendere la libertà alle coscienze, ai cuori, alle menti dei sopravvissuti. La stessa tragica fine di Levi, quarantadue anni dopo quel giorno, lo dimostra.
Il romanzo procede seguendo due storie parallele e da più punti di vista. Quanto conta l’intreccio narrativo in un libro?
Conta tanto, senza quello non c’è il libro, se l’intreccio non funziona il lettore va via a pagina 20. Utilizzare più punti di vista, più livelli di narrazione, è una tecnica molto diffusa nella letteratura contemporanea. Deriva dalla forte contaminazione fra le storie e le loro trasposizioni sullo schermo, tipica del nostro tempo. Mi sembra che questo funzioni, che piaccia.
Da scrittore quali sono le 3 parole che preferisce?
Il sogno di chi scrive (definirmi scrittore mi sembra eccessivo) è raggiungere la “magia delle parole”: quella che permette, con gli stessi vocaboli che tutti usiamo ogni giorno, di creare qualcosa che vada più lontano. Il valore aggiunto dell’arte. Così, tutte le parole sono importanti. Ma se devo scegliere, le mie tre sono: vita, amore, destino.

“Pronto e indossato”, Lavinia Biagiotti inaugura la novità multimediale di ChronicaLibri

Marianna Abbate
ROMA – E’ con immenso piacere che ChronicaLibri presenta “In viaggio con…”, la nuova rubrica di audiointerviste, che da oggi animerà il nostro Canale Youtube.

Antonio Carnevale e Massimiliano Augieri, due navigati e affascinanti speaker radiofonici, intervisteranno per noi gli autori delle più importanti novità editoriali.

Cominciamo subito con l’intervista a Lavinia Biagiotti, con un argomento decisamente in linea con gli interessi delle nostre affezionate lettrici:


Pronto e indossato. Ricette di stile per tutte le occasioni.

Per ascoltare l’intervista cliccate su questo link:

Intervista a Lavinia Biagiotti su CHRONICAtube

 

Oppure accedete direttamente al Canale Youtube, dal video a destra. BUON ASCOLTO!

Vi ricordo l’appuntamento domani, sabato 16 giugno 2012, per conoscerci e discutere insieme alle 18.00 al N’Importe quoi.

Pronto e indossato. Ricette di stile per tutte le occasioni.

“Vestirsi velocemente mortifica, ma con un minimo di organizzazione ogni guardaroba può diventare una miniera d’oro”: questa è la base di quelle che Lavinia Biagiotti chiama le sue “ricette di stile e di felicità”, tutte raccolte in questo volume fresco, giovane e tutto al femminile. I testi dell’autrice, accompagnati da foto e schizzi, sono un suggerimento per imparare a vestirsi con gusto ed essere cool in ogni occasione, dal party con gli amici al colloquio di lavoro, dal weekend fuori porta alla passeggiata in città. E se non si ha voglia di spendere, basta recuperare quei capi sepolti da tempo nel proprio armadio che, rinnovati con semplici accorgimenti, permetteranno di cambiare look ma senza toccare il portafoglio. Insomma una guida di stile ala portata di tutte le tasche femminili, sotto forma di pratica agenda da portare sempre con sé grazie al suo formato in stile notebook comodo e maneggevole. (Mondadori Electa, 2012, 19.90 €)

 

“Il campione innamorato” nella giornata contro l’omofobia

Giulia Siena
ROMA
– “Il campione innamorato. Giochi proibiti dello sport”, scritto da Alessandro Cecchi Paone e Flavio Pagano è arrivato nelle librerie per Giunti a fine aprile e già ha creato scalpore. I media ne hanno parlato e ne parlano non solo perché la prefazione è di Cesare Prandelli – ct della Nazionale e autore di epocali dichiarazioni sui gay nel calcio – ma anche per le innumerevoli storie di amore e sport che il volume racconta. “Il campione innamorato” è un libro che ripercorre lo sport come la storia parallela di passione e agonismo, una realtà che – dai tempi dei Greci – sembra che non possa più accogliere in sè, armoniosamente, pulsioni fisiche e foga sportiva. Ma lo sport è disciplina, educazione, amore, costanza e tolleranza. Lo sport non è vincere a tutti i costi e, in una società che non conosce cultura sportiva, l’agonismo viene sviscerato della sua componente pedagogica e passionale. Oggi, giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia, per iniziativa del ministro Francesco Profumo, un capitolo de “Il campione innamorato” approda nelle scuole italiane. Nelle scuole italiane perché i giovani hanno tanta voglia di sapere e di esplorare, e perché l’omofobia è una delle tematiche del bullismo e perché, grazie anche alla storia di Thomas Gareth, il primo giocatore di rugby ad annunciare la propria omosessualità, lo sport diventi una storia di amore e tolleranza. Oggi ne parliamo con Flavio Pagano (nella foto in basso).

Perché “Il campione innamorato”?
Perché è inquietante pensare che in Iran pochi giorni fa sono stati impiccati quattro ragazzi omosessuali e che due anni fa Eudy Simelan, capitano della squadra di calcio femminile del Sudafrica è stata uccisa poiché lesbica. Sono storie scomode, perché molti amano far finta di non capire e di non sapere, per timore di doversi complicare la visione della vita. Questo libro ci racconta che la storia è fatta di persone, persone che hanno avuto una vita quotidiana identica alla quotidianità di oggi; persone che hanno vissuto i problemi che molti altri vivono oggi, e che hanno saputo trovare il coraggio per affrontarli. La vita consiste nella possibilità di fare delle scelte. È quando cominciamo a scegliere, che veniamo veramente al mondo. Senza questo, finché c’è qualcun altro che pretende di scegliere per noi, non può esistere libertà.

Lo sport che ruolo ha avuto nella storia dell’omofobia?
Lo sport è un momento decisivo di una società, della sua cultura e del suo modo di essere. “Il campione innamorato” è un libro nel quale l’amore e l’agonismo sono stati narrati cercando di far vivere la polifonia dell’intreccio di storie come in un romanzo. Da eterosessuale dico che il calcio è lo sport della sessuofobia. Tutti gli sport hanno una componente compulsiva, primitiva, fallica, ma nel calcio, e già nella formazione sportiva dei ragazzini, domina il maschilismo. Quel maschilismo che diventa omofobia, razzismo, voglia di vincere a tutti i costi fottendosene delle regole, e che inquieta.

Dalla dichiarazione-scandalo di Prandelli sono passate poche settimane, ma in quanto tempo è nato il vostro libro?
Il nostro è stato un lungo lavoro di documentazione; infatti, nel libro, vengono riportati innumerevoli episodi di sport e di vita privata dei più grandi campioni di ogni disciplina. C’è la storia di Dora-Heinrich Ratjen, di Martina Navratilova e la storia di Re Umberto II di Savoia. Forse non si potrà ammettere che un calciatore è omosessuale, ma un celebre sovrano lo era. Umberto II di Savoia era un accanito corteggiatore del calciatore Primo Carnera. Il simbolo della virilità durante il fascismo, Carnera, ebbe un flirt a bordo piscina di casa Savoia con il re. Del resto molti parlano dell’omosessualità di un personaggio leggendario del calcio mondiale, che oggi ricopre un ruolo diregenziale, ma simili storie vengono sistematicamente criptate e nascoste dalla “cupola” del potere sportivo.

Allora perché tutto questo silenzio intorno alle dichiarazioni di Prandelli?
Ci aspettava almeno qualche presa di posizione da parte delle istituzioni sportive e non. Invece c’è un polverone, eppure pochi, se non nessuno, hanno parlato.Purtroppo duemila anni di storia non hanno portato a nulla. E’ stato imbarazzante assistere al silenzio di tutti; neanche le istituzioni hanno voluto schierarsi. Io ho invitato il sindaco della mia città, Luigi De Magistris, a prendere parte alla discussione perché sarebbe stato bello che da Napoli, città vittima di razzismo, si partisse con un dibattito o con una presa di posizione. Ma al polverone che si è alzato a livello mediatico, sul web e sui giornali, nessuno – non ancora – ha osato replicare. Quella contro il razzismo è una battaglia. non è un discorso da bar sport, come vorrebbero farci credere personaggi come Moggi. Il calcio, lo sappiamo tutti, ha ben altro da fare che reprimere il diritto della gente di vivere e amare: dovrebbe pensare a ricostruirsi una credibilità, e una moralità. Il nostro libro ha un obiettivo ambizioso: fermare per un attimo il mondo sfrenato del pallone, e invitarlo a pensare. Un momento, un minuto di silenzio, come si dice in gergo sportivo, come è avvenuto quando è tragicamente morto in campo Morosini. Fermarci tutti a pensare davanti al mistero dell’amore, così come ci siamo fermati davanti a quello della morte.

Flavio Pagano e Alessandro Cecchi Paone sono al loro secondo libro insieme; progetti futuri?
Dopo “La rivolta degli zingari” e “Il campione innamorato” vorremmo continuare a esplorare i grandi filoni della Storia alla ricerca di dettagli sfuggiti all’attenzione generale, di angolazioni nuove. Alessandro ha la passione dell’archeologia, io quella della letteratura. Staremo a vedere.

 

“Intervista a Cristiano Abbadessa, direttore editoriale di Autodafé Edizioni”

Alessia Sità

ChronicaLibri ha intervistato Cristiano Abbadessa, direttore editoriale di Autodafé Edizioni, che ci parla dello spirito e dei progetti futuri della piccola casa editrice specializzata in narrativa.
Qual è la proposta editoriale di Autodafé?

Pubblichiamo opere di narrativa (romanzi o raccolte di racconti) capaci di stimolare la riflessione e la comprensione della realtà sociale dell’Italia contemporanea. Abbiamo quindi un’identità tematica, più che di genere o di stile, frutto da un lato di una nostra precisa scelta culturale e civile e dall’altro della considerazione che questo tipo di offerta è abbastanza rara nel panorama editoriale italiano.
I due significati attribuiti al nome Autodafé, ovvero ‘Fatto da solo’ e ‘Atto di Fede’, possono essere considerati la vera ‘formula vincente’ e il tratto distintivo della vostra casa editrice?

Direi che rappresentano bene lo spirito della nostra avventura editoriale: una piccola casa editrice per autori non ancora affermati, connotata da una cura artigianale del lavoro e animata da un indispensabile ottimismo. Non mi azzarderei a parlare di “formula vincente”, almeno per ora.
Autodafé come sceglie i propri autori?

Per un anno e mezzo abbiamo valutato tutte le proposte editoriali ricevute: per una decina di mesi con buoni risultati, poi il metodo si è rivelato poco efficace, di fronte a una gran quantità di proposte totalmente fuori tema. Abbiamo perciò ristretto il campo della selezione, avvalendoci di una prima cernita esterna alla redazione della casa editrice. I criteri di selezione restano invece gli stessi: opere di qualità letteraria che abbiano rigorosa attinenza con la nostra linea editoriale.
Il vostro obiettivo è quello di ‘pubblicare opere che aiutino a comprendere e a riflettere intorno alla realtà sociale dell’Italia contemporanea’. L’opera più significativa a tale proposito qual è stata?

Tutte quelle pubblicate, ovviamente. Non lo dico solo per obbligo e correttezza, ma anche e soprattutto perché, in effetti, se un’opera non ha le caratteristiche indicate non la pubblichiamo. E direi che proprio le differenze di genere e di stile, quindi la conoscenza di tutti i titoli e non di uno soltanto, aiuta a comprendere appieno come si possa raggiungere l’obiettivo indicato percorrendo strade letterarie apparentemente diverse.
Sempre meno libri venduti, sempre più case editrici: come vive Autodafé questa continua “lotta”?

Male. C’è un problema di proliferazione degli editori, ma soprattutto di sovrapproduzione: escono più titoli di quanti il mercato possa digerirne. Dall’altra parte, è anche vero che gli editori sono invece “pochi” rispetto alla quantità davvero enorme di proposte avanzate dagli autori, e non tutte improponibili o presuntuose. Deve però ristabilirsi un equilibrio tra buone opere scritte, editori che le pubblicano, lettori che le leggono.
Quali sono i progetti futuri di Autodafé?

Nell’immediato, siamo proprio concentrati sulla valorizzazione delle opere pubblicate, con l’obiettivo di avere un riscontro preciso delle nostre reali potenzialità. Siamo convinti della validità dei titoli pubblicati, ma ora devono essere i lettori a dirci se esiste davvero lo spazio per una proposta editoriale come la nostra.

ChronicaLibri intervista Adriano Marenco

 

Alessia Sità

ROMA – ChronicaLibri ha intervistato Adriano Marenco, autore de La palude e la balera pubblicato da Edizione Progetto cultura. Le risposte dirette e sincere lasciano intravedere la notevole profondità intellettuale di questo abile e attento ‘osservatore’, che con straordinaria capacità narrativa è riuscito a descrivere minuziosamente il triste degrado sociale che affligge il nostro tempo.
Come è nata la ‘metafora’ de “La palude e la balera”?
Quale metafora? È una foto interiore della realtà. Premesso che per me è sempre molto complicato parlare de la Palude tenterò, ma mi dissocio da subito dalle mie risposte. Le cose che scrivo nascono da un’immagine, una parola, una frase, un calzino abbandonato per strada. Poi pian piano mi colmo di sensazioni e idee. La verità è che spesso non so bene dove andrò a parare. Io cerco di liberare tutte le energie che mi han caricato e il tutto pian piano prende forma. Non faccio una scaletta. O meglio la mia scaletta è la vita che cerco di trasformare in una vita al cubo. Io voglio parlare al lettore su più livelli, voglio lasciare un segno dentro, qualcosa che lasci un senso di inquietudine, smarrimento, un cavolo è vero è così! perché sto parlando di quello che c’è dentro e fuori di noi. Cose che magari non siamo in grado di vedere e le abbiamo proprio sotto il naso.
Fin dalle prime pagine del tuo libro emerge subito un disagio esistenziale e un senso di straniamento logorante,  che inevitabilmente lasciano il lettore attonito e senza parole. Credi che una situazione come quella da te descritta nella palude esista realmente oggi?
La Palude è uno stato interiore ed esteriore. È ovviamente il mondo, in senso iperrealistico, che ci circonda. È il plagio dell’anima. È la rottura prolungata. È la realtà scavata fino a non trovarne il cuore. Perché semplicemente non c’è. La palude sono le forze che ci spingono a perdere la memoria, ad abbrutire e semplicizzare il linguaggio, che ci incitano a concepire sogni irrealizzabili e penosi.
La Balera rappresenta una speranza per i reietti della Palude, mentre per le persone normali sembra essere un vero incubo. Perché?
La Balera è una speranza ridicola per quelli della Palude, e nonostante ciò alla fine neanche quella è concessa. Accidenti una birretta gelata e qualche canzone d’amore. Che sarà mai. Le persone normali non esistono. O si è nella palude, al massimo nella balera, oppure si vive in uno status quo mediatico e militarizzato.
Esiste oggi una balera?
Fisicamente la balera è uno stato intermedio tra il mondo di fuori e la palude. È quello che capita quando tenti di recuperare la memoria o il linguaggio. Cose proibite insomma. Bè, certo esiste. Quando vieni da fuori è in fondo la lotta per mantenere vivo il pensiero. Poi o scendi a patti oppure scendi ancora più giù.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Se intendi il mio futuro a ‘120 secondi di distanza’, l’unico futuro che si può concepire nella palude è non essere licenziato. Se invece parliamo di giorni interi, finire la piéce su Don Verzé.

 

Editoria e letteratura alle nuove frontiere: ChronicaLibri intervista il “Progetto Letterario Alga”

Giulio Gasperini
ROMA – Abbiamo già presentato il “Progetto Letterario Alga” dalle pagine di questa rivista, settimane fa. Adesso, però, per spiegare meglio e dare un valore aggiunto alle nostre misere parole, a prendere voce è direttamente uno dei protagonisti di quest’esperienza, Massimo Moscaritolo, uno degli artefici e degli indefessi organizzatori di un progetto che, come abbiamo scritto, appare tanto coraggioso e innovativo da meritare di parlarne, in ogni dove.

Non posso rinunciare a una prima domanda scontata e prevedibile: dalla tua “viva voce” vorrei sentir spiegato in cosa consiste questo “Progetto Alga” che avete avviato, tre anni fa, a Torino. So che tra sito e social network è tutto ampiamente spiegato e descritto, ma sempre meglio sentirlo da chi fu uno dei protagonisti e degli artefici dell’ardita impresa, no?!?
Il “Progetto Letterario Alga” nasce circa tre anni fa con l’intenzione di essere un premio letterario diverso da quelli già esistenti. Tra gli aspetti caratteristici del progetto rientra senza dubbio l’attenzione che viene riservata al feedback dei lettori. Ogni libro, infatti, consente attraverso un codice di esprimere due commenti e due voti sul sito internet, www.premioalga.it. Il lettore può, scegliendo di votare, diventare così parte della giuria popolare che decreterà il vincitore a fine anno! Sul sito è possibile trovare la locandina e la quarta di copertina di ogni libro e nella sezione “vota” leggere i commenti di chi prima di voi ha letto il libro. Inoltre abbiamo anche pensato che leggere un libro non debba essere un peso, riferendoci al lato economico: tutti i nostri libri, infatti, sono venduti al prezzo di 3 euro.

Mi puoi parlare un po’ del vostro gruppo? Da dove venite, chi siete, dove andate, direbbe Paul Gauguin…
Le Alghe sono cinque amici torinesi che tre anni fa hanno deciso di unire la loro passione per la lettura con la volontà di fornire un’alternativa a un sistema per nulla dinamico e giovane. Seppur impegnati tra studi (master, dottorati, università) e lavoro, le energie e la passione iniziali sono ancora forti, soprattutto grazie alle risposte degli autori e dei lettori: è grazie a loro che continuiamo a impegnarci per far cresce il progetto, ma anche noi stessi: sappiamo da dove siamo partiti e sicuramente il Premio Alga è il nostro traghetto per il futuro.

Il vostro traghetto contempla anche una casa editrice, sebbene un po’ sui generis. Sul sito ho visto che avete, nella distribuzione del “prodotto libro”, battuto due diverse strade: da una parte avete preferito, fisicamente, una distribuzione che premiasse i libri indipendenti o, addirittura, luoghi dove di solito i libri non si trovano; dall’altra, avete tutti i libri disponibili per esser scaricati e letti sull’e-book reader. Com’è stato, come casa editrice, scegliere di aderire, in maniera preponderante, alla nuova forma tecnologica della editoria che evolve?
Crediamo che l’e-book sia il futuro, negli USA le copie digitali hanno raggiunto quelle cartacee e crediamo che pian pianino anche nel nostro paese, nel giro di qualche anno, avremo un gran numero di lettori “digitali”. La tecnologia è il futuro e noi vogliamo essere pronti!

E cosa ne pensate della figura e del ruolo del libraio? Ve lo domando perché, in effetti, sono un po’ sensibile all’argomento, considerando la professione del librario una delle più affascinanti e “utili” che possano esistere, soprattutto al giorno d’oggi. L’e-book porterà, infatti, a una progressiva scomparsa di questa figura che, innegabilmente, svolge un importantissimo ruolo anche culturale…
Come tu stesso dici è sicuramente una delle professioni più affascinanti che esistano! La loro è una situazione difficile, causata dalla grande distribuzione che con i suoi grandi quantitativi può fare prezzi troppo concorrenziali per loro, però il piacere di parlare e farsi consigliare dal “saggio libraio” vale sicuramente la differenza di prezzo!

Tornando al concorso, che novità credi che il “Progetto letterario Alga” possa portare al mondo editoriale italiano? Dove pensi che si possa spingere? Quali sono i buoni propositi del gruppo “Alga”?
Ovviamente di buoni propositi ne abbiamo molti, vogliamo crescere portano con noi le caratteristiche che ci contraddistinguono, ci piace essere molto vicini agli scrittori e al pubblico e che la giuria popolare sia uno dei punti di forza insieme al voler vendere i nostri libri ad un prezzo basso. Piccoli dettagli che sommati creano una realtà differente.

E infatti son proprio codesti “piccoli dettagli” che stupiscono: abituati, probabilmente, alle grandi “filiere editoriali” e a un’editoria “mercificata” la semplicità e la schiettezza (sul prodotto) paion orpelli inutili; anzi, addirittura limitanti. Complimenti ancora ragazzi! Anche se, come nota personale, speriamo che il futuro dell’editoria non arrivi tanto presto!

ChronicaLibri incontra Barbara Ottaviani

intervista a barbara ottaviani_chronicalibriROMA ChronicaLibri ha incontrato Barbara Ottaviani, autrice di “Acquasanta”. Ci siamo viste in un book bar dalle tonalità femminili, una location perfetta per conoscere meglio una donna forte, decisa e consapevole del proprio bisogno di scrittura.

Barbara Ottaviani, un medico che decide di scrivere un romanzo?
Non è proprio così. L’anima di medico vive con quella intimista della scrittrice forte in me da sempre, anche da prima de “I cortoracconti di Sonja”, la mia prima esperienza letteraria edita da Navarra editore nel 2006. Sono innamorata delle persone e dell’idea di prendermene cura in senso generale; lo esprimo attraverso la medicina per una parte della giornata e attraverso la scrittura per l’altra.
In “Acquasanta” ho percepito una scrittura che voleva affermare la propria sensibilità nonostante il pragmatismo di tutti i giorni, un amore che venisse fuori dalle pagine come risposta al distacco professionale. E’ così? Barbara Ottaviani attraverso “Acquasanta” esprime la sensibilità che nella vita di tutti i giorni deve mettere da parte?
Sì, se mi ci soffermo a pensare, sento di dare, nei miei racconti, molto respiro alla parte sensibile a discapito di quella pragmatica. Mentre quando sono in ospedale, sebbene di partenza dosi in modo equo razionalità e sensibilità, riconosco, alcune volte, di dover sacrificare un po’ la sensibilità per lasciare più spazio al pragmatismo, alla determinazione, che nel mio lavoro di medico devo avere. Sicuramente la scrittura mi bilancia in senso umano, ma trovo la mia definizione nell’essere un medico-scrittore o uno scrittore-medico.
“Acquasanta” è un romanzo che ha la caratteristica di poter estrarre qualsiasi capitolo e trattarlo separatamente come entità autosufficiente. E’ solo una mia impressione?
No, affatto e sono felice che arrivi al lettore. All’inizio non volevo scrivere un romanzo, quindi scrivevo dei pensieri, dei micro mondi, definendo però dei punti di contatto tra di loro. . Sentivo il bisogno di mettere su carta le emozioni, poi, lentamente, come il fluire di un suono o di un odore, la storia ha preso la sua strada esercitando il suo potere catartico su ogni cosa toccasse. Questa è la scrittura, una forza catartica, che nel momento stesso in cui si manifesta e ti cambia, lenisce il tuo dolore per il cambiamento e si prende cura del tuo bisogno di sicurezza. Posso affermare che “Acquasanta” è andato scrivendosi.
Un processo del genere, però, immagino impieghi molto tempo. Quanto è durata la gestazione di “Acquasanta”?
Poco e tanto. Poco perché i pezzi che compongono il romanzo sono stati scritti di getto, quasi insieme, e in meno di un paio di mesi in tutto. Il tempo lungo è stato quello di trasformazione per rendere tanti pezzi un unico corpo. Senza considerare la mia anima di perfezionista: “Acquasanta” è stato un desiderio da limare e modificare continuamente; tagliavo, tagliavo, cercavo la parola giusta, e poi ancora tagliavo. Volevo che restasse solo l’essenziale. Rileggendolo ora taglierei ancora altro, però mi dicono che è meglio che non lo rilegga più, altrimenti resta solo un aforisma.
La protagonista del tuo romanzo è un’infermiera che si lascia coinvolgere nella storia di una bambina in coma. Come mai questa scelta?
Uno dei primi pezzi che ho sentito il bisogno di scrivere riguardava il diario di una bambina. In quel periodo mi capitava spesso di leggere romanzi o storie in cui i bambini che parlavano si esprimevano attraverso una linguistica e una forma mentis da adulto e lo trovavo molto incoerente. Quindi ho pensato di riscattare un po’ questo mio bisogno di leggere delle parole bambine, scrivendo un diario. Poi, come si diceva prima, la scrittura ha preso il sopravvento, e sono comparsi dei pezzi in cui c’era questa donna, che bambina non era stata mai; nel lavoro di unificazione dei pezzi non ho fatto altro che farle conoscere, il resto è venuto da sé. La scelta di non far parlare la bambina se non attraverso l’indagine della donna rappresentava la sublimazione della ricerca e, secondo me, l’anima dell’indagine emotiva: non ci si conosce se c’è qualcuno che ci da già tutte le risposte. Rintracciando le briciole di pane che la bimba ha seminato lungo il suo cammino, la protagonista ritrova sé stessa.
Perché i personaggi di questo romanzo sono descritti minuziosamente ma non hanno nomi?
I nomi non ti permettono di fare completamente tua un’immagine. La madre è madre per chiunque, la bimba potrebbe essere la figlia della tua vicina di casa o tua figlia, il vecchio, affascinante e oscuro, potrebbe essere l’Uomo che esiste nella vita di ognuno di noi.
Ecco, appunto, il vecchio! Guida e amico della bambina, per il quale la protagonista prova subito una forte e strana attrazione, non ha un nome ma viene reso riconoscibile da una descrizione molto attenta del suo odore. Facci capire meglio, per te il vecchio che odore ha?
Un odore rassicurante, carismatico, molto riconoscibile, familiare. Ha un odore di casa.
Scrivi: “Ho pure spiegato le scapole, rudimentale abbozzo d’ali con le quali prima o poi spiccherò il volo”. Come è nata questa immagine?
Un giorno la mia massaggiatrice Mari mi ha letteralmente afferrato le scapole e ha provato a tenderle al limite come a volerle spiegare. A quel punto, mi è come parso che stesse estraendo le mie ali, ecco è stato allora che ho deciso di scrivere delle ali in fieri, della frustrazione che ci consuma già dal ventre materno quando le ali si trasformano in scapole “come a ricordarci che ce la dobbiamo guadagnare la possibilità di volare”! Mi piace cercare nuove dimensioni dell’anima nel corpo, così come  nella mente.
Le tre parole che preferisci?
Non ho parole che preferisco, ma preferisco di massima le parole che mi colpiscono, e cambiano di volta in volta, di contesto in contesto. E’ come nella vita, se non c’è qualcosa che mi colpisce in modo particolare non so decidermi sulle scelte da fare.

(foto di Studio Kiribiri)

“Sa che la maggior parte delle lingue africane non ha il modo condizionale né il periodo ipotetico?”. ChronicaLibri intervista Leo Finzi.

Giulio Gasperini
ROMA –
L’Africa. Ogni aggettivo, al cospetto di codesto nome, è superfluo, gravoso, impacciante. “Mama Africa” (come canta Chico Cesar) è la terra dell’origine, del primigenio, della lenta separazione dell’homo dagli ominidi. Ed è, oggi, anche la terra più in fermento, più vivace, più contraddittoria ma più potenzialmente sorprendente. ChronicaLibri ha intervistato Leo Finzi, l’autore del romanzo “L’Alhaji” (Gaffi editore): lui l’Africa la conosce bene, conosce soprattutto la Nigeria, una delle nazioni che si esagerano come dominanti e guide della riscossa africana. La conversazione che ne è venuta fuori pone degli accenti interessanti sia sul romanzo che sulla situazione geo-politica, accendendo in noi stimolanti curiosità per comprendere questo nostro mondo che dovrà assumersi la responsabilità di scelte importanti.

 

Devo subito confidare una mia simile passione per l’Africa: io son stato in Kenya, nella baraccopoli di Huruma, per una manciata di settimane, ma nonostante la breve permanenza ho sviluppato fin da subito quello che, poeticamente, gli antichi battezzarono il “mal d’Africa”. Io so cos’è, me lo sento sottopelle un po’ tutti i giorni della mia quotidianità: vorrei però che lei lo spiegasse, considerando che, in Africa, ha trascorso molto più tempo di me.
Dunque, il “mal d’Africa”. Credo vi siano diverse componenti che si fondono a comporre questo sentimento di attrazione, fascinazione vagamente malinconica e quasi nostalgica che gli europei hanno chiamato “mal d’Africa”. L’aspetto più interessante e anche più profondo di questo stato d’animo è secondo me quel particolare senso di straniamento che produce in un europeo l’immergersi in un ambiente naturale e umano percepito, a torto o a ragione, come “primitivo” (dando a questa parola una connotazione tutt’altro che negativa). L’Africa, sia nella natura che negli uomini, rappresenta per un europeo uno stato più basilare, meno assoggettato alle regole della civiltà e quindi meno convenzionale, più misterioso e imprevedibile, meno utilitario, più terribile per certi aspetti, ma anche più innocente, meno spiegato e al tempo stesso più vero. L’Africa rappresenta quasi uno stato anteriore e una componente del “mal d’Africa” è una sorta di nostalgia del caos che precede l’ordine umano, e pare più vicino alla verità. Situazioni diversissime contribuiscono a creare questa percezione: dal contatto quotidiano, crudo e quasi brutale, coi problemi basilari, di sopravvivenza umana, in cui ci s’imbatte di continuo, tanto nei minuscoli villaggetti sperduti nel bush quanto nelle terribili bidonville delle metropoli africane; alla natura così poco umanizzata e tanto più presente; alle forme di cultura; al rapporto con il tempo: sa che la maggior parte delle lingue africane non ha il modo condizionale né il periodo ipotetico? Ovvero non ha le forme grammaticale e sintattica attraverso le quali un europeo, tramite il linguaggio, cerca d’introdurre una logica e un ordine nel tempo a venire.

 

Oltre alla cultura, alla storia, a forse, come ha osservato anche lei, un senso di ritorno alla primigenia culla evolutiva che l’uomo sente per le terre dell’“Africa nera”, i tempi si evolvono e anche l’Africa sta evolvendo. La Nigeria è, come ho scritto anche nella mia recensione, una terra dalle potenzialità impressionanti; ma dalla profonda confusione politica e dall’ancora più irrisolvibile intolleranza sociale e religiosa. Lei che la conosce così bene potrebbe magari illustrarci un po’ più chiaramente la situazione di questo stato che potrebbe, realmente, candidarsi a diventare una potenza assoluta?
È vero che l’Africa sta evolvendo. E la Nigeria è, anche in questo – cioè nel contrasto tra i retaggi della civiltà tribale, l’identità culturale originaria africana, la sua “primitività” e, d’altra parte, la giusta aspirazione allo sviluppo economico e sociale, attraverso l’inevitabile e talora traumatico assorbimento di una cultura che non ha prodotto – un paese emblematico dell’Africa post-coloniale. Con i suoi 160 milioni di abitanti, la Nigeria è il paese più popoloso del continente. Una nazione potenzialmente ricca e forte, perché ha il petrolio, e lo sfrutta da molti anni. Non è, quindi, l’Africa povera. È un paese a sua volta pieno di contraddizioni, la cui popolazione è l’amalgama di molte etnie diverse; un paese diviso letteralmente in due tra un nord radicalmente musulmano e un sud fortemente cristiano, periodicamente insanguinato da scontri etnici e religiosi. È uno dei pochi paesi africani ormai dotato di un embrione di economia “moderna” sviluppata, interamente amministrata da neri e che cerca anche di acquisire un ruolo sul piano internazionale, ma dove persistono, al tempo stesso, una fortemente radicata cultura tribale e vastissime aree di povertà e di arretratezza, di economia primitiva. Anche per questi forti contrasti, credo che la Nigeria possa essere considerata un po’ un laboratorio dello sviluppo dell’Africa post-coloniale. Un Paese che da un lato ha già raggiunto un fortissimo grado di urbanizzazione; un Paese in cui, d’altra parte, accanto alla gente povera delle città – le plebi urbane che si ammassano nelle sterminate e atroci bidonville dove si vive senza servizi igienici, ma magari sui tetti in lamiera delle baracche spuntano le parabole satellitari e tutti usano il telefonino – a distanza di pochi chilometri vi sono villaggetti di capanne di paglia e fango che campano d’allevamento brado e di piccola agricoltura, legati a un’economia tribale di sopravvivenza, dove vive ancora buona parte della popolazione. Però, tra queste due fasce ancora largamente maggioritarie della popolazione, si va inserendo il cuneo spingente di una sorta di classe media ormai abbastanza solida, sicuramente la più numerosa e diffusa dell’Africa; la classe di quelli che forse ormai ce l’hanno fatta a uscire dalla povertà, hanno un impiego in qualche banca o ministero o impresa, vivono in una casa decente, posseggono una macchina e magari risparmiano per comperarsene una migliore, o per mandare almeno uno dei figli all’università, magari all’estero.

 

L’ho paragonata a Conrad. E ho accostato il suo “L’Alhaji” a “Cuore di tenebra”. Ovviamente, andrebbero fatte tutte le distinzioni del caso, ma credo che le funzioni dei due libri siano più o meno similari. Ho scritto nella mia recensione che, così come Conrad “denunciò il feroce colonialismo ottocentesco, scarsamente documentabile e, per questo, difficilmente rimproverabile dai suoi contemporanei, ‘L’Alhaji’ illustra, con un piglio giornalistico ma con un’architettura raffinatamente narrativa, il colonialismo dell’oggi, del presente, dei nostri anni Zero”. Mi pare superfluo chiedere se ha letto Conrad, ma più interessante sarebbe sapere se le garba e se, in qualche maniera, la lettura dello scrittore polacco abbia effettivamente influito sulla sua scrittura.
Conrad è uno dei miei autori preferiti e “Cuore di tenebra” uno dei suoi libri che più ho amato. Il solo fatto che lei li menzioni con riferimento a “L’Alhaji” mi fa naturalmente un enorme piacere. Conrad è uno dei grandi scrittori che rileggo di frequente e che più hanno contribuito alla mia formazione letteraria. Se poi devo provare a individuare in cosa, nello specifico, Conrad abbia influito su “L’Alhaji” o più in generale sulla mia scrittura, sarei portato a indicare almeno due aspetti. Il primo è la forma dei conflitti morali e dei contrasti interiori che caratterizzano i grandi personaggi di Conrad, il modo ellittico e mai chiaramente risolto in cui Conrad stesso li descrive, come girandovi ripetutamente intorno, tenendosi a rispettosa e prudente distanza, come un marinaio che circumnavighi coste frastagliate e pericolose, delineando senza pretendere di penetrarlo il nocciolo irrazionale che quei conflitti contengono e che di fatto determina l’azione del racconto e il destino dei personaggi. Il secondo è la corrispondenza intermittente – ora ossessiva, ora catartica e liberatoria – tra la descrizione di quei conflitti e la descrizione della natura (nel caso di Conrad la grande Natura del mare, con le sue forze immense, le sue imperscrutabili tempeste e bonacce). La natura è una componente attiva e determinante nella scrittura di Conrad e fa metaforicamente da specchio, narrativamente da teatro e compositivamente da contrappunto ai conflitti umani raccontati nei suoi libri. Basterebbe, per fare un esempio, la meravigliosa citazione da Baudelaire che Conrad premette alla sua più bella storia di bonaccia, “La linea d’ombra”: “… D’autres fois, calme plat, grand miroir. De mon désespoir”. E visto che siamo in tema, mi permetto un’altra citazione da Conrad, sempre a proposito d’inspiegati conflitti morali; è la conclusione del capitano Giles, ancora dalla “Linea d’ombra”: “…. un uomo proprio deve affrontare la sua cattiva sorte, i suoi errori, la sua coscienza. Perbacco, contro che cosa vorreste lottare altrimenti?”

 

Non ci son soltanto la Nigeria e l’economia, nel suo romanzo. Ci sono anche dei rapporti umani, dei legami tra uomini e donne, tra uomini e uomini, tra donne e donne. C’è, insomma, una fitta e densa umanità che si caratterizza per i rapporti burrascosi e per i legami un po’ fragili e un po’ ricattanti, sempre al limite della sopportazione e del collasso. Ha inteso presentare questi personaggi come pura fiction, da collocare nel setting dell’Africa, oppure tali rapporti sono, per così dire, un correlativo oggettivo della difficile situazione della Nigeria stessa?
Il personaggio dell’Alhaji racchiude certamente in sé quel conflitto tra primitività e modernità, tra l’originaria cultura tribale e l’ancestrale comunione con la natura da un lato, e l’aspirazione allo sviluppo e il conseguente assorbimento di una cultura estranea, nonché il rapporto utilitario con l’ambiente dall’altro, di cui si parlava poc’anzi e che sono alla radice delle contraddizioni non solo della Nigeria, ma direi di tutta l’Africa post-coloniale. “Alhaji” è il titolo che in Nigeria prendono i musulmani che si sono recati in pellegrinaggio alla Mecca. Ha finito col diventare una sorta di titolo onorifico di cui si fregiano alcuni esponenti di ricche e potenti famiglie musulmane. L’Alhaji – capo della sua comunità, leader politico legato alle tradizioni della sua terra e della sua gente e, al tempo stesso, moderno business man che ha studiato in Inghilterra e fa affari in giro per il mondo – incarna questi contrasti, questo coacervo di contraddizioni, e mette in mostra le lacerazioni profonde che le due istanze contrapposte di cui parlavamo aprono nell’identità degli africani. Ma vi sono anche altri contrasti forti che caratterizzano i rapporti umani descritti nel libro. Attorno all’Alhaji si svolgono vicende perlopiù interpretate da bianchi, ed è giocoforza dal punto di vista di un bianco che tali vicende vengono narrate. Però i bianchi dell’Alhaji, a cominciare da Nevio, sono tutti dei transfughi, appartengono a una di quelle enclavi straniere che s’impiantano, per breve o lungo tempo, in Africa. È un mondo di frontiera, in cui il tema razziale, il rapporto tra bianchi e neri, fa da sfondo a ogni cosa e l’incontro ravvicinato, spesso abrasivo, tra civiltà e culture molto lontane tra loro, scuote i fondamenti morali dell’una e dell’altra e genera un’atmosfera di valori rarefatti, come una sorta di terra franca in cui è facile perdersi.

 

Proprio sull’Alhaji volevo rivolgerle l’ultima domanda. In parte ha già risposto, ma vorrei un po’ approfondire questa figura, per noi, remota anche nella definizione. L’Alhaji: la figura emblematica del potere, di chi e di come lo detiene. Una figura che imbarazza ma che esiste; e se esiste è per gran parte colpa della società occidentale, quella che, fino a poche settimane fa, pareva invincibile e insostituibile. Il crollo, nemmeno troppo lento e oramai inevitabile dell’anziana Europa e del vecchio modello capitalistico che conseguenze avrà, secondo lei, sul fragile equilibrio dell’Africa e, in particolar modo, dei paesi che, più di altri, avrebbero le risorse per esagerarsi potenze d’un futuro non molto lontano?
Quando ho cominciato a scrivere l’Alhaji, il punto di partenza è stato molto semplice. Noi europei abbiamo una visione pregiudiziale dell’Africa: è il continente che conosciamo meno e ce lo raffiguriamo come una terra di povertà, bisognosa di aiuto, di assistenza sanitaria e alimentare, di guida allo sviluppo, di programmi di aiuti; una terra di popolazioni in fuga, di emigranti e rifugiati che malvolentieri accogliamo in casa nostra, di bambini da adottare a distanza, di popoli affamati cui fare la carità, che hanno bisogno del nostro sostegno perché ancora incapaci di camminare con le proprie gambe. Bene, mi sono detto, proviamo a scrivere la storia di un africano ricco; di un africano potente, autonomo e forte e proviamo a descrivere i meccanismi del potere in Africa, che forse gli europei si illudono ancora di controllare, mentre io credo che ormai da decenni – per fortuna degli africani – non sia più così. E così è nato l’Alhaji. Non ho dovuto inventare molto, perché avevo sotto gli occhi situazioni non troppo diverse da quelle che ho raccontato. È venuto addirittura fuori (ma le assicuro, non per scelta ideologica bensì per rappresentazione realistica ed economia narrativa) un rapporto servo-padrone rovesciato, in cui Nevio (bianco) è assoggettato all’Alhaji (nero). Voglio anche aggiungere che, sotto questo aspetto, mi ha fatto molto piacere scrivere una storia di orgoglio africano. L’Africa ha sempre avuto una sua cultura e una sua organizzazione sociale, e quindi anche una sua propria struttura del potere. È forse una novità per noi europei (ma non credo che lo sia per gli africani) scoprire che da anni ormai, e sempre più, si vanno affrancando dalla tutela bianca. Il fatto che questo vada di pari passo col declino dell’Europa e forse con l’ascesa dell’influenza di altre potenze in Africa (in particolare la Cina, che da tempo penetra sempre più a fondo nel continente africano e ha un gran bisogno delle sue materie prime) secondo me è solo marginale: l’Africa oggi è cambiata, è autonoma; indipendentemente da quello che gli altri (europei, cinesi o americani) fanno attorno a lei, ha ormai una sua economia, che tutti gli indicatori danno in espansione (anche più rapida delle economie asiatiche); inoltre ha una popolazione giovane, che cresce a un tasso che oggi non ha riscontro in nessun’altra area del pianeta. Certo, i paesi africani sono ancora pieni di contraddizioni, di enormi difficoltà, di contrasti violenti; ma le difficoltà sono anche opportunità e c’è effervescenza in numerose nazioni dell’Africa, assai più di quanta ve ne sia mai stata prima. Tornando al libro e alla prima parte della sua domanda, attraverso l’Alhaji ho cercato di dare una rappresentazione del potere in un paese-guida dell’Africa, la Nigeria. Ho tentato di illustrare i suoi meccanismi, con un taglio realistico-oggettivo, provando ad astenermi da qualunque giudizio morale. Credo che il risultato sia stato narrativamente ambiguo: l’Alhaji, pur dando il titolo al libro e pur avendo molte pagine a lui dedicate, come personaggio è forse il meno definito del romanzo (credo che diversi altri personaggi, magari descritti in poche pagine, siano più intensi). D’altra parte, l’Alhaji fa come da veicolo per illustrare alcuni aspetti della società nigeriana e per investigare la forma che prende il potere in un contesto come quello nigeriano, dove i retaggi di una cultura arcaica e tribale (di cui il popolo, e quindi anche necessariamente chi, come l’Alhaji, aspira a guidarlo, è portatore) si mescolano o si scontrano con le esigenze dell’economia di un moderno paese petrolifero e anche con le genuine aspirazioni di quello stesso popolo allo sviluppo, all’uscita dalla povertà, al benessere. I contrasti e le contraddizioni interiori dell’Alhaji sono i contrasti e le contraddizioni del suo popolo e sono un dato storico oggettivo che l’Africa non può evitare di affrontare.

“Cronache da un mondo (im)possibile”: intervista a Frank Solitario. Ma davvero, come ti chiami?

intervista Frank SolitarioGiulia Siena
ROMA
–  “Cronache da un mondo (im)possibile” è un romanzo costruito su racconti ironici e a quasi paradossali, un libro nel quale confluiscono ironia, dolcezza e sguardo analitico. Dietro le “Cronache” c’è la penna di Frank Solitario, uno pseudonimo che cela un abile comunicatore/osservatore.
Appena lo incontro, non contenta del nome d’arte, gli chiedo curiosa il suo vero nome… nulla da fare, Frank rimane sul vago. Ma ho l’arma dell’intervista: non potrò scoprire il suo vero nome, ma tutto il resto sì!

 

“Cronache da un mondo (im)possibile” si apre con diversi racconti suddivisi in “venti stanze”, tu quale stanza preferisci?

La ventesima.
Dalle pagine emerge una dolcezza particolare. E’ così?
Si, è tutto così ironicamente e drammaticamente fuori posto in quel racconto (Un futuro remoto): l’editoria ottusa e miope, l’autore tronfio che pensa di fare capolavori d’avanguardia (io stesso), gli stupidi compromessi per diventare qualcuno che non sei.
Un racconto intenso è quello dei due manichini che si innamorano. Come è nato quel racconto, cosa ti ha spinto a dare vita a due esseri inanimati?
I manichini prendono il posto di uomini e donne che smettono di essere vivi poiché perdono la capacità di provare sentimenti. Ho sentito subito che alla deumanizzazione potesse fare da contraltare l’anima profonda e commovente degli oggetti inanimati.
Il tuo romanzo procede per figure, cioè tutti i racconti diventano “visibili” agli occhi del lettore.
Il mio è un approccio visivo; scrivo così come si gira un cortometraggio. Una volta che fisso l’immagine iniziale poi tutto si svolge indipendentemente da me. Quando tutto si è svolto è necessario dargli una forma narrativa, altrimenti non si ottiene qualcosa di significativo. La mia scrittura nasce dall’emotività e poi viene rivista, sviluppata in base al mio stile narrativo.
Quindi il senso fondamentale per te è?
E’ la vista. E’ fondamentale perché con la scrittura doni immagini, sei il regista di un film che il lettore riproduce secondo la sua sensibilità  leggendoti. Con la scrittura puoi far vedere quindi; rispetto alla cinematografia hai il vantaggio di lasciare decidere al lettore come immaginare quello che tu gli stai descrivendo.
Il racconto per me cruciale del tuo libro è quello in cui un vecchio nobile decaduto si alza tutti i giorni per aprire e chiudere a fatica le finestre delle sue venti stanze. Questo personaggio è la personificazione di un’attesa?
Questo personaggio è attesa e lotta. L’uomo nella sua vecchiaia, ormai stremato dalla vita, per me è un personaggio epico. Nonostante la consapevolezza della mancanza di senso dei suoi giorni, ogni mattina lotta con tutte le sue forze per conquistarlo un senso, è un eroe epico che non sa accettare l’ arrivo del buio.
Accanto a te in questo libro c’è stato il lavoro di consulenza di Veruska Armonioso, editor dell’Agenzia Letteraria Verba. Come avete lavorato e in cosa è cambiato “Cronache..” dopo il lavoro con la Armonioso?
Veruska è intervenuta sul testo solamente per perfezionare alcuni dettagli rispettando il mio stile. Credo che l’editing debba essere solo un lavoro di limatura senza snaturare il carattere dell’autore. L’editor è colui che serve anche a tirar fuori, a plasmare il carattere di un autore che ha già in sé molta forza espressiva. L’autore deve riconoscere la piena autorità dell’editor per tutto quanto non ha a che fare con il suo stile di scrittura. Struttura del manoscritto, copertina e molte altre cose che contribuiscono a rendere inattaccabile il tuo lavoro dal punto di vista formale. Veruska in “Cronache da un mondo (im)possibile” mi ha aiutato ad individuare un filo che intrecciasse tutti i racconti in un unico romanzo. Un procedimento fondamentale soprattutto in Italia dove c’è una diffidenza di fondo verso i racconti.
E qual è il fulcro del tuo romanzo?
La presa di coscienza del percorso dell’esistenza. Ogni personaggio affronta le tematiche fondamentali dell’esserci, in fasi della vita diverse. Rimango sempre più colpito dal modo in cui la gente percepisce la realtà. Le persone si lasciano coinvolgere molto di più dalle morbose immagini dei media, dalla fiction costruita intorno alle notizie che dalla propria vita. Vorrei far distogliere lo sguardo dalla realtà rappresentata in modo morboso e riportare l’attenzione su di una finzione narrativa che spera di essere talmente interessante da farci perdere prima e ritrovare poi.
Pretenzioso?
E’ solo il modo in cui si comunica verso l’esterno che può essere pretenzioso. L’ideale espressivo a cui aspiro è quello di comunicare con diversi strati di profondità a seconda dell’interpretazione del lettore, ma di arrivare in qualche modo a più persone possibile. 

Che cos’è la comunicazione per te?
E’ solo un mezzo a disposizione per veicolare un contenuto.
E’ fondamentale non ingannare il lettore come fanno alcuni critici letterari su stimati giornali; qualche giorno fa è stato dato voto 10 all’ultimo libro di Faletti; assegnare 8 sarebbe già stato uno sproposito, ma un 10 significa perdere ogni freno inibitorio.
Non oso pensare a quale voto si potrebbe dare ad una riedizione della Divina Commedia.
Come sei arrivato a pubblicare con Il Foglio Letterario?
Ho conosciuto l’editore, Gordiano Lupi, attraverso il suo libro “Nemici miei” e l’ ho subito amato. Mi sono detto: chi è questo pazzo che si presenta al mondo editoriale facendosi odiare da tutti? Devo conoscerlo.
“Cronache da un mondo (im)possibile” è il secondo libro che pubblico con questa casa editrice toscana dopo “Storie ai minimi termini”.
Loro partendo dalla gavetta sono riusciti a portare due libri in finale al Premio Strega. Speriamo nei detti popolari e nella cabala.
Le tre parole che lo scrittore Frank Solitario ama?
Niente, nulla e zero. Ma non le scrivo mai proprio perché le amo.
Perché, tendi a tutelare ciò che ami?
Oscillo tra due opposti inconciliabili: il Nulla e il Tutto. La scrittura è forse il mio punto d’ equilibrio.