"Il conte di Montecristo": un classico senza tempo

Stefano Billi
ROMA – Sovente, parlando dei “classici”, cioè di quei libri che rappresentano la storia della letteratura, la mente associa questa categoria all’immagine del “mattone”: un testo che si compone di centinaia e centinaia di pagine in cui si avviluppa una trama sicuramente complicata (per non dire addirittura contorta), dai contorni noiosi e difficili da seguire.

Insomma, spesso si è portati a pensare che questi libri abbiano, come unico compito, quello di riempire le biblioteche, e oltretutto non quelle domestiche – riservate ai romanzi di ben più bassa levatura – ma quelle, ad esempio, comunali o universitarie.
Invece, è giunto il tempo di riappropriarsi di un patrimonio dell’umanità che, anziché essere lasciato alla mercé di topi e tarme della carta, merita di essere assaporato dalla prima all’ultima pagina.
Perché sono questi capolavori, elaborati dai grandi scrittori di tutte le epoche storiche, che possono permettere alla società di progredire.
Uno di questi libri, che nutre la mente come pochissimi altri racconti sanno fare, è proprio “Il conte di Montecristo”, scritto da Alexandre Dumas (padre) nel 1844.

La trama di questo meraviglioso pilastro della letteratura mondiale è tutta incentrata sulla figura di Edmond Dantès, giovane marinaio che dovrà combattere contro un destino spietato, frutto dell’invidia amorosa di un miserabile invaghitosi della dolce metà del protagonista: tuttavia il fato si rivela, infine, anche sorprendente e difatti l’inaspettata conoscenza dell’abate Faria sconvolge la vita di Edmond, un dono provvidenziale che il Dantès saprà abilmente cogliere.
Pur nelle sue millecinquecento pagine circa, la lettura de “Il conte di Montecristo” è scorrevolissima: lo stile di Alexandre Dumas è affascinante per la sua linearità e semplicità, aspetti che entrambi dimostrano al contempo l’eleganza della penna dello scrittore, che in quest’opera tocca il suo apice narrativo.
Inoltre, va assolutamente rilevata la maestria, impareggiabile, dello scrittore nel costruire un’impalcatura degli eventi che porta il lettore a non voler mai smettere di leggere, quasi che il romanzo fosse stregato; in realtà, non si tratta di un’opera magica, ma piuttosto di una creazione davvero perfetta, come se la sua origine, più che umana, fosse divina.
All’interno del libro l’autore sa mirabilmente descrivere ogni sentimento dell’uomo, dalla rabbia all’ammirazione, dal desiderio di vendetta al perdono.
Ogni parola illumina gli animi dei protagonisti e permette così di svelarne la vera identità.
Dumas sembra dunque assumere le vesti di un ottocentesco Virgilio che disvela a chi legge le reali fattezze emozionali di ogni persona.
“Il conte di Montecristo” è un romanzo che merita di essere letto per la sua infinita bellezza, perché racchiude una storia magnifica che penetra irreversibilmente nell’animo del lettore, ma soprattutto perché permette di innalzare il proprio pensiero e sfiorare le imponenti vette artistiche della letteratura senza tempo.
Una volta letto il libro, però, si rimane pervasi anzitutto da una sensazione di sconforto, non solo perché il testo è giunto al termine, ma anche perché si resta consapevoli di come soltanto pochissime altre opere letterarie siano così stupefacenti come questa creata dal Dumas.

Allora, l’unico antidoto possibile contro questo profondo senso di amarezza sta nel rileggere ancora e ancora “Il conte di Montecristo”, un romanzo che davvero cambia la nostra vita.

"Deviazione": la donna fascista che non credeva alla banalità del male.

Giulio Gasperini
ROMA –
Molto è stato scritto sui lager nazisti, e molto è stato letto. Forse, però, poco è stato capito. Troppi processi di rimozione, di auto-assoluzioni, aggiunti al desiderio di non assumersi nessuna responsabilità (soprattutto quella morale) hanno condizionato la ricezione delle immagini, l’accettazione e la comprensione delle testimonianze. Luce d’Eramo fu spettatrice; anzi, fu attrice. E scrisse un diario, la cui gestazione durò trent’anni, completato e pubblicato soltanto nel 1979, presso Mondadori: “Deviazione”.


Di certo furon poche le persone che scelsero volontariamente la condanna dei lager. Luce d’Eramo (all’epoca ancora Lucette Mangione) fu una di queste: lei, una fascista convinta che non credeva alla banalità del male e volle verificare, di persona – come San Tommaso affondare il dito nella ferita d’un abbrutimento umano che non conosceva fine; né speranza. Fu una Freiarbeiter, una lavoratrice volontaria, in quell’inferno che furono i lager tedeschi. Andava più d’accordo coi russi che coi francesi e gli italiani, perché questi ultimi la consideravan una privilegiata: a lei, figlia di un gerarca della Repubblica di Salò, eran affidati i compiti più leggeri, quelli meno faticosi, quelli meno feroci. E nonostante anche lei si trovasse nel lager, era come se fosse tutelata e protetta dagli stessi tedeschi.
Il diario è, senza dubbio, un feroce resoconto di spietato autobiografismo, in cui l’io narrante (e l’io vivente) si beano d’un morboso egotismo. Deviazione s’edifica monumento hardcore a un io ipertrofico, che non conosce distrazioni né disattenzioni. In alcuni punti persino irrispettoso nei confronti di coloro che, non certo volontari, furono condannati alle stesse violenze, allo stesso massacrante lavoro, al feroce destino. La volontarietà alla sofferenza va studiata, ma con la dovuta attenzione, senza dimenticarsi che il dolore è cosa seria, che deve conoscere il rispetto di tutti, la deferenza necessaria affinché assuma il valore catartico per il quale è utile e necessario.
C’è però un sospetto, un dubbio quasi fastidioso: che il tutto si sublimi in un tentativo di innalzare la propria pulita coscienza, dimenticando di assumersi le inevitabili responsabilità. Come se, scrivendo e rivivendo quest’avventura anomala si sublimi il proprio livello di evoluzione, e ci si dimentichi che, in realtà, codesto destino fu, appunto, volontario, e sempre protetto dal nome borghese, dal giogo (da cui lei tentò, invano, di “deviare”) della famiglia e dalla sicurezza che, in qualsiasi momento, si sarebbe potuto interrompere; con l’indiscussa e assoluta certezza (che tanti e tanti altri non avevano) del ritorno.

"Bianca come il latte, rossa come il sangue", ultima lettura del 2010

Alessia Sità
ROMA – L’adolescenza come un tempo dove tutto può accadere, ma anche come passaggio fondamentale nella vita di un ragazzo, che inizia a guardare al mondo con occhi adulti. È questo il filo conduttore di “Bianca come il latte, rossa come il sangue”, il romanzo di esordio di Alessandro D’Avenia, pubblicato da Mondadori nella collana Scrittori italiani e stranieri.
Leo è un ragazzo come tanti, ha sedici anni, ama giocare a calcetto e le chiacchiere con i suoi inseparabili amici: Niko e l’affidabile Silvia. È un ragazzo molto vivace e intelligente e talvolta anche molto cinico, soprattutto con i professori, che ritiene ‘sfigati’ e noiosi. Almeno fino a quando non arriva un nuovo supplente di filosofia, un ragazzo giovane, con una luce particolare negli occhi, che esorta gli studenti a realizzare il proprio sogno senza arrendersi di fronte alle difficoltà. Grazie alle parole del ‘Sognatore’ , soprannome dato all’insegnante, Leo si sente più forte e sicuro, ma nonostante tutto le cose nella sua vita continuano ad avere solo due colori: il bianco e il rosso. Il bianco è il colore dell’assenza, del vuoto, della paura, mentre il rosso è quello della passione, dell’amore. Rosso è il colore di Beatrice, la ragazza di cui si è innamorato. Improvvisamente, però, nella vita di Leo il rosso sparisce e tutto diventa terribilmente bianco, è il colore della malattia. Attraverso l’esperienza del dolore e della perdita il sedicenne troverà il coraggio di affacciarsi alla vita senza mai smettere di sognare.
“Bianca come il latte, rossa come il sangue”, non è semplicemente una dolce storia d’amore che ha il potere di riportaci agli anni indimenticabili del liceo, ma è anche una riflessione sul mondo degli adolescenti e su come talvolta l’esperienza della sofferenza porti alla scoperta della propria essenza.
Alessandro D’Avenia, “Bianca come il latte, rossa come il sangue”, Mondadori, € 19,00

"Viaggio in India", ricercando le incolpevoli origini

Giulio Gasperini

ROMA – Era il 1960: l’India principiava a incuriosire e ad affascinare (pregiudizievolmente) la vecchia e annoiata Europa, appena ristabilita dalla ferocia della guerra. Anche Alfredo Todisco partì: doveva lavorare, doveva redigere un reportage per “La Stampa”. “Viaggio in India” (Mondadori, 1966) è il testo sbocciato da codesto viaggio: un testo agevole, intrigante; e, soprattutto, inaspettato, perché travalica i limiti di semplice scrittura giornalistica, e contorna, definisce, la ricerca personale dell’uomo – che è uomo prim’ancora d’esser giornalista.

Todisco si coniuga in una moltitudine di narratori, di tessitori di fiabe: c’è il Todisco viaggiatore viaggiante, c’è il Todisco teorico, quello categorizzante e c’è, inevitabile per un luogo dell’anima come (era, ahimè) l’India, il Todisco ontologico, intimo e intimistico.

L’India è definita, da Todisco, come un continente in bilico tra il bagaglio enorme di cultura e tradizione e le nuove spinte della modernità sociale e tecnologica, meccanica e politica: un grande, immenso, continente, popolato a dismisura, che sarà ben presto assediato dalle macchine della TATA (colosso oramai globale) e le eccellenze studentesche in matematica e informatica. Più di Moravia e Pasolini, che negli stessi anni si recarono in India (con la Morante) per un viaggio dai simili intenti, Todisco seppe penetrare meglio i meccanismi dell’India, seppe documentarli più attentamente e approfonditamente, in un’analisi che si trova sempre in bilico tra giornalismo e letteratura, senza mai inficiare l’una o l’altra, ma facendole pacificamente (e straordinariamente) convivere.

È un testo, questo “Viaggio in India”, che, più degli altri due, si avvicina al modello ideale del reportage di viaggio; un testo che riesce, più degli esperimenti di Pasolini e Moravia, a cogliere vari aspetti, in più alto grado e sapienza, con più saggezza d’inquadrature e capacità di cogliere l’insieme, indugiando sui dettagli ma non scindendoli irrimediabilmente dal quadro generale e complessivo: come i grandi narratori, i grandi cronisti, eran capaci di fare.
Il totale silenzio di Todisco su Agra e il Taj Mahal è una lacuna grave, gravissima. Anche la descrizione di Benares (oggi, Varanasi) inizia in modo sfolgorante ma esaurisce notevolmente la sua forza persuasiva (e descrittiva). Ma i meriti di Todisco riescon in qualche modo a supplire a codeste mancanze: primo merito tra tutti, il capitolo inziale, quello in cui parla della “matita di Dio”, ovvero Madre Teresa: un capitolo agrodolce e terso, limpido e intelligente. Umile e dolce.

"Delirio": un eroe sboccato e spernacchiante. Ma fiero d’esserlo

Giulio Gasperini

ROMA – Gli eroi, si sa, ormai da molto tempo latitano. Non ci son più gli Achilli e gli Ettori di una volta, quegli eroi sempre così fieri, sempre così perfetti, sempre così nel giusto anche quando nella colpa; sempre così alteri e sicuri, senza mai un’incrinatura nei loro palmi sinistri. Oramai l’eroe s’è convertito in un inetto, e le rare volte che compare, lo fa in maniera grottesca, strappandoci risate amare e ghigni increduli, lasciandoci l’amarezza dell’ennesimo mito violato. L’inettitudine è caratteristica peculiare, quasi definitoria, del ‘900: da Mattia Pascal per arrivare agli imbarazzanti eroi del post-moderno, sempre alla ricerca d’una redenzione impossibile perché inesistente. Ma in questo romanzo, dal titolo compromettente (“Delirio”, Mondadori, 1977), la grande scrittrice umbra, nata fra angeli e demoni, Barbara Alberti, ci costringe oltre; ci dirotta altrove, ben più in là: ci spinge sui sedili con un’accelerazione alla demenza, all’iperbole, alla provocazione palese e disarmante, ma mai pura e semplice volgarità.
L’eroe dell’Alberti è un omuncolo spernacchiante e triviale, sboccato e incontinente (non soltanto verbalmente). È un vecchio che aggredisce il buon senso e lo vìola, lo scardina senza preoccuparsi delle conseguenze, infischiandosene delle leggi morali, del perbenismo imperante, di quella società che confina e degrada la vecchiezza a un soggiorno in una casa di riposo, quanto più lontano possibile da casa. Un esilio imposto che sa di violenza, ben più grave di quella sessuale, che poi violenza non è: soltanto atto consenziente (anche se fuori luogo).
Mai titolo fu, forse, più azzeccato di questo; più profetico. La Alberti ci soffoca, in un vero e proprio delirio, in una rapsodica girandola di pensieri e parole: come una marea che incalza e si ritira a intervalli regolari, fino al momento in cui tutto è sommerso, e condannato all’apnea. Ci troviamo boccheggianti, sopraffatti dall’irruenza e dalla virulenza verbale di queste pagine, piene di parole da oscurare con gli asterischi, ma che paion sempre così perfette, così indicate, non appena se ne capisce la funzione.
Il nostro mondo attuale, quello di feisbuc e di altri luoghi di socializzazione (che han tristemente sostituito le piazze e i bar), è saturo di trivialità, soprattutto verbali, da non farci più caso, da essere state assunte finanche dal vocabolario come puri e semplici significanti; spesso, addirittura, come intercalari. Ma nel 1977, quando uscì questo romanzo, le “freg**” e i “caz**” eran parole bandite, indicate come profane del buon costume, della decenza. E l’Alberti non poté certo resistere: usò quelle parole come mattoncini, edificando la sua turris eburnea; e, con merito, scandalizzò.

Con “Siamo uomini o giornalisti?” ritorna la satira di Giorgio Forattini

Stefano Billi
ROMA – E’ stato pubblicato da qualche giorno per Mondadori il nuovo libro di Giorgio Forattini “Siamo uomini o giornalisti?”, il libro che raccoglie numerose vignette disegnate tra il 2009 e il 2010 dalla brillante matita dell’artista romano.
Con spiccata ironia, nelle sue illustrazioni il celebre vignettista ritrae tutti quegli eventi politici e culturali che dal settembre dello scorso anno sino ad oggi hanno segnato la storia italiana e internazionale.
La satira del Forattini è sicuramente pungente, ma sempre sincera ed onesta nel descrivere il contesto all’interno del quale essa si inserisce.

Caratteristica di assoluto rilievo dell’opera “forattiniana” è la lontananza da ogni meschino partitismo o da ogni caustica faziosità (purtroppo ormai tratti comuni di numerosi altri vignettisti) e proprio questa libertà dell’autore nel far ironia degli eventi che accadono in Italia e nel mondo rende “Siamo uomini o giornalisti?” un libro piacevolissimo da leggere.
Tra le pagine spiccano le esilaranti caricature degli uomini pubblici più in voga: evidenziando i tratti caratteriali di questi ultimi, Forattini crea delle maschere assolutamente divertenti, che affascinano anche per la loro vicinanza con la realtà.
Ciò che induce a leggere tutto d’un fiato “Siamo uomini o giornalisti?” è la acutezza delle vignette (alcuni di queste risultano impreziosite dalle colorazioni che ne esaltano maggiormente i particolari) le quali spingono a sorridere sugli eventi che ci circondano, soprattutto se quest’ultimi, piuttosto che avere alla base motivazioni serie, sono invece mere vicende di gossip.
Un libro paragonabile al celeberrimo vino denominato Aleatico, dolce e leggermente astringente.

Un vecchio letale veleno

Giulio Gasperini
ROMA –
Il veleno della naja tripudians paralizza; prima ancora dà un senso d’ubriachezza, strano a provarsi. Poi la morte fulmina un cuore che continua, pur in assenza di respiro, a battere. Annie Vivanti (Mondadori, 1979) ci incanta, con la figura di questo serpente: forma sinuosa e lasciva, ipnotica e voluttuosa. Ce ne fa quasi innamorare.

Ma i serpenti assumono forme diverse, si declinano in molteplici essenze: serpenti posson esserlo anche donne e uomini morfinomani, che trascinano nella loro drogata follia persino un gatto, incolpevole vittima sacrificale dell’insofferenza di vivere, della fragilità caratteriale, dell’inabilità a esistere.
Serpente, nella fiction narrativa, può diventarlo il mondo inglese, quello delle ville di campagna e dei divertimenti a cavallo, il quale ben presto, però, si scontorna e si trasfigura nel mondo intero, globale, e soprattutto moderno, attuale. Un mondo, ovvero, che ha perso l’affascinante naturalezza e compostezza di Jane Austen, la sua divertita ironia, e s’è tramutato in un luogo dove le case rapiscono e tengono in ostaggio, e alla fine spariscono e non si ritrovan più, perse in un dedalo cittadino che non ha più ordine, né futuro o speranza. È diventato, il mondo, un luogo dove l’innocenza non trionfa, dove il candore è stupidità, dove, loro malgrado, i valori son calpestati e disprezzati, ancor più sacrificati alla violenza, forse un po’ iperbolica, ma pura realtà, così dura da masticare.
Naja tripudians ha molti anni, oramai più d’ottanta: li dimostra tutti, per certi aspetti. Per altri no: rimane agevole, leggero, scattante e nervoso; proprio come un serpente che si prepara all’attacco, all’affondo velenoso. E letale.