Un cielo ancora rosso


Silvia Notarangelo

ROMA – “Un male universale ha dato loro la possibilità di uccidere persone sconosciute…un male tanto grande per cui essi portano terrore e morte e distruzione senza pensarci, con la coscienza di compiere un dovere”. Il male universale, in virtù del quale gli aerei americani sganciano bombe seminando morte e distruzione nelle cose e nei cuori, è il tema centrale del romanzo “Il cielo è rosso”, scritto da Giuseppe Berto e pubblicato nel 1947.
In una Treviso ridotta ad un mucchio di rovine, l’autore ambienta una storia di estrema disperazione e di miseria, offrendo una sincera ed efficace rappresentazione di quei sentimenti che, pur in terribili momenti, riescono, in qualche modo, ad emergere.
Carla e Giulia, due cugine adolescenti rimaste sole, si trasferiscono in una vecchia casa abbandonata insieme a Tullio, un giovane innamorato di Carla.
Per sopravvivere non ci sono grandi possibilità e il trio si arrangia come può: Tullio si dedica al furto, Carla alla prostituzione. Del gruppo entra a far parte anche Daniele, un ragazzo di estrazione borghese, fragile e ingenuo, ma soprattutto incapace di capire e di accettare i comportamenti degli altri. La solidarietà e un affetto reciproco, tuttavia, rendono i quattro sempre più uniti fino a creare, di fatto, due coppie: una, dall’apparenza più forte e scaltra, costituita da Tullio e Carla, l’altra, più sensibile e indifesa formata da Daniele e Giulia.
Mutare il corso del male universale è, però, impossibile così come trovare delle vie d’uscita e anche i protagonisti non potranno sottrarsi ad un crudele destino.
La loro inaspettata quanto precaria felicità viene infranta dalla morte di Tullio. Il delicato equilibrio si spezza: Daniele non riesce a trovare un lavoro, Carla non è in grado di mantenere tutti, Giulia, piuttosto cagionevole, muore di lì a poco, stroncata dalla tisi.
Per Daniele è un dolore insopportabile. Nulla sembra riuscire a consolarlo, neppure le attenzioni di Carla che si fanno più insistenti. Il giovane si toglierà la vita lanciandosi da un treno, dopo essersi tolto “mantello e giubba” perché potessero servire a qualcun altro.

Miseria e vergogna nel romanzo di Federigo Tozzi

Silvia Notarangelo
ROMA – Un’esistenza travagliata, una visione cupa della vita, un consapevole abbandono all’inevitabilità degli eventi. La produzione del senese Federigo Tozzi, autore discusso e talvolta poco apprezzato, non può prescindere dal suo vissuto personale e da quella particolare esigenza di cogliere una “qualunque parvenza della nostra fuggitiva realtà”.

Tre croci”, il suo secondo romanzo “romano”, è scritto di getto, nel 1919, sulla scia di un triste fatto di cronaca di cui Tozzi viene a conoscenza. Una vicenda amara e dolorosa, l’epilogo di tre vite segnate da una decadenza non solo morale ma anche fisica.
Protagonisti sono tre fratelli senesi gestori di una piccola libreria antiquaria, Giulio, Niccolò ed Enrico. La loro inettitudine, la scarsa dimestichezza con gli affari, nonché il comune vizio della gola, determinano il tracollo finanziario dell’attività.
In soccorso dei tre, non privo di qualche personalissimo interesse, interviene il cavaliere Orazio Nicchioli. Tutto inutile, la situazione è disperata. Le scadenze incombono e Giulio, d’accordo con i fratelli, falsifica la firma del cavaliere nell’illusione di poter almeno guadagnare del tempo.
È l’inizio della fine. Lo scandalo, la rovina, il disonore si abbattono sulla famiglia. Dopo essersi addossato tutte le colpe, Giulio non regge alla vergogna e si toglie la vita, avvertendo dentro di sé “una quantità di cose parassite e malvagie che volevano prendere il sopravvento”. Dopo la sua morte, tra Niccolò ed Enrico le cose non vanno meglio, anzi, le tensioni, mai sopite, esplodono e i due si separano. Costante permane, in entrambi, il vizio per i piaceri della tavola e, a distanza di poco, sarà fatalmente proprio la gotta a determinarne il decesso. A ricomporre l’unità familiare, spezzata dalla miseria e dall’infamia, ci penseranno le nipoti ponendo tre croci identiche sulle tombe dei fratelli.

Angela Grillo racconta il suo “After the Sun”

Silvia Notarangelo
ROMA – Al suo esordio narrativo, Angela Grillo regala in “After the Sun” (Lampi di stampa) una storia intensa, una favola moderna in cui la protagonista, Stella, proprio al culmine di un successo insperato, decide di dire basta per dedicarsi a ciò che per lei conta di più: la famiglia, le amicizie, gli affetti.

Angela Grillo. Madre, moglie ed oggi scrittrice. Come si sente in questo nuovo ruolo? Come è nata la sua passione per la scrittura?

La passione per la scrittura è cominciata verso i 17-18 anni quando decisi di seguire un corso di poesia che si teneva presso l’Istituto Parco Nord di Cinisello dove frequentavo il quinto anno di Perito aziendale e corrispondente in lingue estere. In quell’anno vinsi diversi Concorsi di Poesia. Poi, qualche anno dopo, cominciai a pensare seriamente di scrivere un romanzo. Mio padre e mia madre mi hanno sempre incoraggiata a scrivere ma ho avuto altre priorità nelle diverse fasi della mia vita e non sono mai riuscita a realizzare questo mio desiderio. Solo quando mio padre è mancato ho sentito che glielo dovevo… e ho pensato di accontentarlo. Mi sono ritagliata dei piccoli spazi nella mia frenetica attività lavorativa e nel mio ruolo di mamma e moglie e sono riuscita a portare a termine questo lavoro in quasi due anni per realizzare After the Sun.

Che cosa Angela ha in comune con Stella?

Io e Stella abbiamo in comune due cose, la prima è l’amore per il mondo della musica e la seconda è il carattere, siamo entrambe tenaci, caparbie e abbiamo ogni giorno la forza per andare avanti anche se, a volte, troviamo degli ostacoli sulla nostra strada.

La determinazione di Stella, la sua voglia di arrivare, il coraggio di mettersi in gioco. In altre parole un invito a non arrendersi anche di fronte alle difficoltà della vita?

Credo che ognuno di noi debba avere il coraggio di sognare e lottare per i propri desideri, sempre. C’è una bellissima frase di Goethe che cito spesso e ho fatto mia: “Qualunque cosa tu voglia fare, qualunque cosa tu possa sognare, comincia!”

Il successo inebria e fa gola a tutti. Ma non è questo quello che voglio”. Una scelta che oggi può sorprendere…
Stella ama tantissimo cantare e si è messa in gioco grazie al suo talent scout e intraprende la carriera di cantante ma poi gli eventi, gli affetti, gli amici, l’amore… prendono il sopravvento e si trova ad un bivio. Anch’io come Stella ho dovuto fare diverse scelte nella mia vita, ho rinunciato ad un buon contratto con una casa editrice che mi avrebbe fatta girare come una trottola per pubblicizzare il libro in tutte le librerie d’Italia (ricordiamo che “After the Sun” è disponibile sia nella versione cartacea sia in quella ebook in tutte le librerie online ndr). Non l’ho scelta perché ho preferito non abbandonare la mia famiglia, ho un figlio adolescente di 16 anni e uno di 7 e sinceramente lasciarli da soli tre/quattro volte la settimana per presentare il libro in giro sarebbe stato per me molto angosciante.
Io non scrivo per diventare famosa e neanche per far soldi. Io scrivo per far sì che la gente si emozioni leggendo i miei libri e possa sognare, immedesimandosi nei personaggi dei miei romanzi.

Ho letto che ha in progetto un romanzo storico. Può dirci qualcosa di più?

Sono molto contenta del successo che sta ottenendo solo col passaparola questo mio libro. Vuol dire che piace, che ha emozionato. Sono molto attenta al mondo dei giovani e visto che tutti mi chiedono altre avventure per Stella, credo proprio che gliene farò vivere ancora, e sempre più avvincenti, nel seguito che sto preparando proprio in questi giorni. Nel contempo realizzerò un libro basato su una leggenda Trentina. A me piace molto sperimentare. Credo molto anche in questo progetto perché mi sono innamorata subito di questa storia che viene tramandata di generazione in generazione da più di 500 anni. Al momento non posso ancora dire niente ma sono elettrizzata al pensiero che darò vita ai protagonisti di questa romantica storia d’amore…

“L’odio. Una storia d’amore”

Giulia Siena
ROMA
“Fuori c’è il sole, il cielo chiaro, una radura piena di fango, il sottobosco e la strada coi cumuli di neve qua e là. E’ una cosa pazzesca. Tutto è esagerato. Sin dall’inizio.” Ossessione. L’amore è un tormento che pulsa nelle tempie. L’amore è un ricordo adolescenziale che non si lava via con il tempo. E questo Stefano lo sa. Sa che Barbara continua a essere il suo tarlo. Ricorda lei, la loro adolescenza, il tempo che è passato e il suo amore allontanato. Emanuele Ponturo prende spunto da un fatto di cronaca per il suo primo romanzo “L’odio. Una storia d’amore”. Il libro, pubblicato da Fermento, è  una favola moderna dalle tinte fosche. Stefano, il protagonista di questo romanzo dalle sfaccettature noir, torna dopo anni nel suo quartiere, sotto casa di Barbara e vicino la loro scuola. Torna con la mente alla sua adolescenza, arriva con il ricordo a quando – dopo la morte di sua madre – fuggì dalla Magliana con l’assordante pensiero di Barbara. Lei, Barbara aveva qualche anno in più di Stefano e per lei lui era solo un amico di suo fratello. Ma ora Stefano ha trovato nella ragazza del pub un po’ di Barbara. Monica sogna il principe delle favole e Stefano la porterà nel bosco.

L’autore tratteggia una storia che si gioca sul filo del doppio. L’ambivalenza di sentimenti è speculare all’ambivalenza dei tempi narrativi: passato e presente si mescolano, si intrecciano e scompaiono nei luoghi in cui si svolge la vicenda. “L’odio. Una storia d’amore” è  un romanzo intenso; i capitoli sono cadenzati da lettere ricche di poesia, da liriche in cui struggimento e passione danno spinta all’elemento narrativo.

Un viaggio nella memoria

Silvia Notarangelo
ROMA – Un titolo curioso, “Diecipercento e la gran signora dei tonti” (Autodafé Edizioni), per un libro intenso e coinvolgente. L’autrice, Antonella Di Martino, proprio come in un film, riavvolge il nastro della vita del protagonista, procedendo per ricordi, per frammenti di vissuto, alla ricerca di quel mistero che sembra avvolgere la sua fine.

Diecipercento, il protagonista del romanzo, è, nell’ordine, un vigliacco, un ladro, un traditore ma è, soprattutto, un uomo appena defunto che, in attesa del suo angelo, ha l’opportunità di usufruire di una speciale prospettiva: guardare tutti dall’alto cercando di cogliere che cosa è mancato o che cosa non è andato nella sua esistenza da poco conclusa.
Si parte dal suo funerale. In chiesa, oltre ai familiari più stretti, appare, inaspettatamente, Margherita. Quella ragazza “scemotta” che non aveva esitato a tagliare i ponti con la famiglia d’origine pur di vivere il suo amore per un uomo maturo, sembra tornata per un estremo saluto allo zio. In realtà, dietro al suo improvviso ritorno, si nasconde altro. La donna vuole sapere la verità, è convinta che Diecipercento sia stato ucciso da uno dei suoi tanti nemici.
Inizia, così, un vero e proprio viaggio nella memoria, un viaggio che per Margherita significa rituffarsi in un passato ancora doloroso ma comunque accettato e, in qualche modo, superato. Per Diecipercento, invece, assume tutto un altro significato.
Seguire la nipote, dalla sua visuale privilegiata, gli consente di “vedere” con occhi diversi: ciò che sembrava così ovvio, così scontato, ora non lo è più. Ciò in cui ha sempre creduto diventa una forzatura, una condizione a cui si è, con il tempo, rassegnato.
Diecipercento ha soffocato la propria indole, le proprie inclinazioni, a vantaggio di una maschera che, con gli anni, è divenuta un peso insopportabile.
Per lui la verità è davvero vicina, forse fin troppo per riuscire a riconoscerla e ad ammetterla.

“After the Sun”: quando il successo arriva per caso


Silvia Notarangelo

ROMA – A volte il destino può essere crudele. Neppure il tempo di gioire, di assaporare un traguardo, che subito incombe lo spettro di un terribile dolore. “After the Sun”, il primo romanzo di Angela Grillo, pubblicato da Lampi di stampa, è la storia di un incredibile quanto inaspettato successo che, altrettanto rapidamente, si trasforma nell’ennesima, dura prova da affrontare, nel corso di una vita già profondamente segnata.
Stella ha ventitré anni, ha abbandonato l’università ad un solo esame dalla fine e ora lavora nel pub della zia, Lizzy, il suo unico punto di riferimento dopo l’improvvisa perdita dei genitori. È una ragazza come tante, ad eccezione di un piccolo particolare: la sua voce incanta. Una voce che non passa inosservata alle orecchie attente di Robert Gigli, un talent scout, che una sera, dopo averla ascoltata cantare, non può fare a meno di avvicinarla. Stella pensa ad uno scherzo ma è tutto vero.
Il lunedì seguente è già in sala registrazione e, proprio lì, ritrova forse l’ultima persona che avrebbe immaginato di incontrare: Fabio, quel ragazzo appena conosciuto sul treno che l’aveva letteralmente stregata. Sarà lui il suo assistente, sarà lui a seguirla in tutte le fasi di lavorazione del disco, a consigliarla e a supportarla.
Nel giro di pochi mesi la sua vita è completamente stravolta. Le prove, le interviste, le feste, nulla viene lasciato al caso e la sua carriera sembra ormai lanciatissima.
Quasi senza accorgersene Stella si allontana dalle persone a cui tiene di più, dalla zia, ma anche da quegli amici che l’hanno sempre sostenuta e a cui, adesso, riesce appena a rispondere al telefono.
Il destino, però, è imprevedibile e, proprio nei momenti insospettabili, è allora che decide di colpire. Stella è costretta a rimettere tutto in discussione.
Che cosa vuole veramente? Fare la cantante è davvero il suo sogno? Forse, prima che sia troppo tardi, c’è ancora tempo per rimettere le cose a posto e cominciare una nuova vita sperando che il futuro riservi ancora qualche piacevole imprevisto.

“Incontriamoci all’Inferno” con un Dante spensierato.

Giulio Gasperini
ROMA – E se Dante diventasse meno austero e istituzionale? E se fosse possibile scherzare con la Commedia, la più grande opera che l’umanità letteraria abbia mai pensato e partorito? E se immaginarsi le liti, i bisticci, le incomprensioni tra Dante e la moglie Gemma non sottraesse nulla alla magia dell’opera ma, anzi, ce l’avvicinasse e la rendesse più familiare? Cinzia Demi, toscana di origine, lancia un invito e una sfida: “Incontriamoci all’Inferno”, edito da Pendragon nel 2007 e ripubblicato in nuova edizione nel 2010, non è una semplice “parodia” dei fatti e dei personaggi che formano quel “racconto di incontri” che è la Commedia, ma è una maniera nuova e quasi rivoluzionaria di penetrare nella complessità della materia e della forma poetica. Come strumento la Demi utilizza quella stessa ironia con la quale Dante aveva così sapientemente tessuto il suo poema, le sue sillabe poetiche, le sue metafore e le immagini ricche di vita e di quotidianità. Dante aveva scherzato su tutto, su ogni aspetto dell’uomo, della vita, della religione, senza farsi problemi e senza timori reverenziali sulla materia trattata.
Si comincia con una lettera che un fiorentino invia al suo illustre concittadino, rimproverandolo per aver seminato il terrore su quello che, nell’oltretomba, i morti avrebbero trovato: “Va bene che c’avevi rabbia ‘n corpo e core / ma la paura ci fe’ ghiacci marmati / e pe’ secoli s’è tramandato ‘l terrore”. Poi si prosegue con il catalogo delle donne più importanti, da Bice Portinari (che, insieme a Rossana Fratello, canta “sono una donna non sono una santa”), al dialogo tra Pia de’ Tolomei, Francesca da Rimini e Piccarda Donati, infastidite tutte dalla presunzione di un Dante che crede di poterle ridurre loro e le loro vite a una manciata di sillabe: “Nessun uomo, nemmen’il Poeta / ha, in nessun tempo, mai afferrato / di quanta giustizia è fatta la meta / che può raggiunger sol chi ha capito / quanto noi donne siamo speciali / nel sentimento e nella ragione / e che ‘un siamo tutt’uguali / ma ognuna di noi è pur’emozione!”. Poi ci sono gli uomini, da Ulisse al Conte Ugolino; e poi ci sono i demoni, da Caronte a Pluto, che affermano, in tutta onestà, qualche lato divertito e divertente della loro personalità. E poi la Demi crea dei contrasti, delle dispute verbali sul modello della tenzone, così tanto di moda ai tempi di Dante: Gemma Donati litiga con Dante per la sua infedeltà di sguardi (“Madonnina mia che attaccabottoni! / Tu e tu’ amici rimatori e la sapete lunga: / ‘n chiesa co’ santi e ‘n taverna co’ ghiottoni, / e la lista de le conquiste qui s’allunga! / E io a casa: co’ tutto quello ch’ho portato ‘n dote / oberata di figli, mai nelle tu’ opere citata: / che forse ti riscordi cosa disse ‘l sacerdote? / Che so’ meno gentile e onesta di ‘sta Bice dannata?”), Bonifacio VIII e Celestino V si confrontano ironicamente sui loro peccati, Virgilio protesta con Dante di averlo sfruttato per accompagnarlo e gli angeli e i demoni si offendono con lieve sarcasmo.
La lingua della Demi è corposa, densa, plastica. È una lingua tangibile, deittica perché figura un hic et nunc applicabile a ogni momento, ogni attimo, a ogni realtà che possa presentarsi a ognuno di noi. È la lingua che si usa correntemente in Toscana, è quella che ribolle come magma e fluisce come acqua potente. È una lingua che può essere giustamente declinata anche negli incontri che caratterizzano la Commedia, negli incroci di persone e di realtà, nella varietà delle situazioni. Con Dante, insomma, si ride e si scherza, senza per questo perdere la potenza delle sue parole e del suo messaggio ma, anzi, calandolo in una ricca quotidianità e capendo più intensamente la grandezza della poesia.

“Cedimenti”…realtà o fantascienza?

Silvia Notarangelo
ROMA – Quando la ventisettenne Martina eredita un po’ a sorpresa la villa in Sicilia di quel nonno appena conosciuto, non può certo immaginare a cosa andrà incontro. Ha pochi ricordi di quella grande casa affacciata sul mare e, tra quei pochi, non è compreso lo scheletro di un enorme edificio che va innalzandosi proprio di fronte la casa, un’autentica “porcata edilizia”. Inizia con questa amara scoperta “Cedimenti”, il suggestivo romanzo pubblicato da Edizioni Ambiente e scritto a quattro mani da due autrici che si firmano con lo pseudonimo Francesca Vesco.

Una scoperta inaspettata per Martina quanto tristemente nota alla comunità di Valduci, che convive con la piaga dell’abusivismo e la prepotenza di certi uomini, poco raccomandabili, con i quali “non è prudente mettersi contro”. Il costruttore in questione, responsabile dell’ennesimo ecomostro, ha un nome, Giacomo Iraci, e una reputazione non proprio cristallina. La frase con la quale si congeda da Martina, al termine di un incontro velatamente intimidatorio, sembra una vera e propria minaccia: “Accetti il mio consiglio, lasci questo posto”. Le parole, dure come pietre, scuotono la ragazza. All’improvviso, tutto le appare incredibilmente chiaro: e se il nonno non fosse morto in seguito ad un incidente ma ci fosse dietro la mano di qualcuno? Si spiegherebbe, così, la presenza nella villa di una pistola: forse l’anziano temeva per la sua incolumità. Ma come dimostrarlo? In assenza di prove, nessuno le avrebbe dato retta. Meglio, allora, agire da sola. Ma visto che nulla capita per caso, ecco che Martina si imbatte prima in Paolo, un giovane e affascinante ingegnere, poi in un attivista ambientalista, Giuliano Chimenti. Saranno loro a lasciarsi trascinare dal suo desiderio di giustizia in un gioco pericoloso, la cui posta in palio si farà sempre più alta. Una battaglia di cui diventeranno protagonisti alcuni insospettabili batteri di laboratorio, capaci di corrodere il cemento provocando inspiegabili quanto inarrestabili cedimenti.

Novità TEA: “Pesca con la mosca”

Silvia Notarangelo
ROMA – L’ex magistrato, Gianni Simoni, non tradisce le aspettative nel suo nuovo giallo dal titolo “Pesca con la mosca”, pubblicato da TEA. Una storia appassionante, una vicenda intricata in cui le indagini, proprio quando sembrano vicine ad una svolta, sono invece prontamente smentite da repentini colpi di scena.

Protagonista, ancora una volta, la squadra mobile di Brescia con il commissario Miceli, “la discrezione fatta persona”, e i suoi fedelissimi collaboratori. All’appello non può, ovviamente, mancare il giudice Carlo Petri che, nonostante una pensione anticipata, continua a restare un insostituibile punto di riferimento.
Ed è proprio lui, un pomeriggio d’estate, l’artefice di una “pesca” che, certo, non può dirsi miracolosa. Il cadavere di una bellissima ragazza riaffiora dalle acque tranquille di un ruscello dove Petri si è recato con la speranza di portare a casa qualche trota di montagna. Inevitabile l’intervento del giudice che, dopo aver condotto a riva il corpo, si precipita a chiedere aiuto.
È la punta di un iceberg, la miccia che innesca una serie di omicidi in cui sono misteriosamente coinvolti tre sacerdoti ed un medico. Ma se per Don Carrino, la prima vittima, si giunge abbastanza rapidamente ad un’ipotesi che sembra plausibile, non altrettanto può dirsi per le altre tre.
Le indagini brancolano a lungo nel buio, le ricerche e i primi riscontri non danno i risultati sperati, la reticenza o la paura prevalgono. L’interrogativo su cui si concentra il lavoro della squadra è essenzialmente uno, scoprire che cosa lega le quattro vittime ed individuare chi può avercela con loro, al punto da trasformarsi in uno spietato assassino. Per la morte di Don Carrino i sospetti ricadono subito sul fidanzato della ragazza, Enrico Beni, un giovane bravo e onesto che il dolore e la rabbia potrebbero aver reso un terribile omicida. La pista, però, viene in parte abbandonata, complice il fatto che il Beni si trova già in carcere quando vengono compiuti gli altri delitti. A questo punto non resta che ripartire da zero, indagare sul passato delle vittime, capire chi può aver acquistato quella 6,35 dalla quale sono partiti i quattro proiettili letali. La verità è più vicina e, forse, anche più scontata di quanto si creda. E saranno nuovamente le intuizioni di due donne, l’ispettrice Grazia Bruni e Anna, la moglie di Petri, a dare un contributo decisivo per la soluzione del caso.

“Gli indifferenti”, Moravia


Silvia Notarangelo
ROMA – E’ una critica violenta e senza sconti quella che Alberto Moravia riserva alla classe borghese nel suo romanzo d’esordio, “Gli Indifferenti”.
Mariagrazia, Carla, Michele e Leo, i protagonisti, sono espressione di una borghesia sottomessa, priva di qualsiasi attitudine morale e persa in una squallida apatia.
La storia si sviluppa in soli due giorni, in un’atmosfera resa insopportabile proprio dai contrasti tra i quattro. Mariagrazia Ardengo è una madre vedova, sull’orlo del dissesto finanziario, impaurita dal tempo che passa ma soprattutto gelosa di un amante, Leo, avido e sicuro di sé, intenzionato a impossessarsi dell’ultima proprietà della famiglia Ardengo, la villa.
Carla e Michele sono i due figli di Mariagrazia. La prima vorrebbe evadere da una realtà che sente soffocarla ma non trova la forza per farlo. Così, si rassegna, senza alcun entusiasmo, ad accettare il corteggiamento di Leo fino a decidere di sposarlo.
Michele è l’unico che, apparentemente, cerca di affermare la propria personalità, nell’illusione di riscattarsi. Ma l’indifferenza, questa condizione di torpore morale che accomuna tutti i personaggi, non risparmia neanche lui. “Vado ad uccidere un uomo”, si ripete avvicinandosi alla casa di Leo. Eppure, la sua andatura è lenta, tranquilla, non c’è furia né sdegno. Anche gli sforzi per ricordare i motivi che lo stanno inducendo ad un gesto tanto estremo sono velleitari. Già prima di entrare, infatti, prova “gioia e sollievo”, al pensiero che Leo possa non essere in casa. È solo un presagio di ciò che succederà di lì a poco. Dalla rivoltella di Michele non partirà alcun colpo, perché l’arma non è mai stata caricata. La resa del giovane è compiuta. Anche lui, come i suoi familiari, soccombe, vittima di una malattia che impedisce qualunque impulso di ribellione, che frena ogni tentativo di cambiamento, che rende incapaci di agire.