Domani in libreria: “Venga pure la fine”, il nuovo romanzo di Roberto Riccardi

Venga pure la fine_Roberto Riccardi_chronicalibriGiulia Siena
ROMA – “E adesso venga pure la fine, venga pure la notte. Sono pronto ad accoglierle. Venga pure un nuovo inizio, perché è solo quando tutto finisce che incomincia davvero qualcosa“.

 

Arriva in libreria domani, mercoledì 25 settembre 2013, “Venga pure la fine”, il nuovo romanzo di Roberto Riccardi pubblicato dalle Edizioni e/o nella collana Sabot/age, diretta da Colomba Rossi e curata da Massimo Carlotto. “Venga pure la fine” è un’invocazione, una presa di coscienza, un arrendersi, un donarsi, un abbandonarsi al dovere e a quello che sarà. “Venga pure la fine” è la nuova e inattesa indagine di Rocco Liguori, il tenente dei Carabinieri già protagonista di Undercover. Niente è come sembra”.

Questa volta dovrà recarsi all’Aia a disposizione del Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia. In quella terra ad Est lui c’è già stato, sette anni prima, nel bel mezzo di un conflitto fraticida che ha segnato la storia della Bosnia. Allora, anche se doveva rimanerne fuori per questioni politiche, Rocco Liguori aveva arrestato il macellaio di Gračanica, quel Milan Dragojevic colpevole della strage di Srebrenica e di altri eccidi in una terra costantemente lacerata dalle lotte. Dopo l’arresto tra loro cominciò un rapporto epistolare intenso, fatto di riflessioni e consapevolezza. Liguori ora deve tornare su quei passi, deve tornare in ex-Jugoslavia per indagare sul tentato suicidio di Dragojevic. Il colonnello, infatti, è in coma; probabilmente ha ingerito una massiccia dose di quei farmaci con i quali doveva combattere un nuovo nemico, la depressione. Ma la storia del tentato suicidio, per un uomo che ha procurato tanto male al suo stesso popolo, non regge. Il procuratore vuole che Liguori scopra di più. E Rocco lo fa, vorrebbe esimersi ma non può; vorrebbe anche evitare di tornare con la memoria e con gli occhi a quelle terre che sono state lo scenario della sua folgorazione per Jacqueline. Anni prima, infatti, proprio in Bosnia aveva incontrato questa “miscela di armonie silenziose che culminavano in un sorriso radioso e una voce cristallina”, una donna che gli aveva scombussolato i sensi e gli aveva dato buone idee per la cattura del colonnello. Ora lo scenario è cambiato, gli anni Novanta sono lontani, rimangono, però, gli antichi rancori nello sguardo risoluto di kosovari e bosniaci e l’indagine di Liguori prende, improvvisamente, rotte internazionali. La storia tiene dentro altre storie (magistrale il riferimento al libro di Elsa Morante) e viaggia velocemente su piani temporali diversi; il palcoscenico su cui si muovono i personaggi è un susseguirsi a velocità impressionate di città Europee: L’Aia, Sarajevo, Cracovia, Londra, Roma, come a ricordarci che la criminalità non risparmia niente, nessuno e in alcun luogo.

 

Roberto Riccardi – vincitore con “Undercover” della seconda edizione del Premio Letterario Mariano Romiti – firma un nuovo e avvincente romanzo, un libro in cui alla padronanza della materia si aggiungono sfumature e dettagli che solo un ottimo narratore può carpire.

 

“La vita non torna indietro a offrirti di correggere uno sbaglio. Lei è già altrove, a decidere per qualcun altro che, come te, si crede eterno ed è solo l’ennesimo granello nella polvere del tempo. La vita non torna indietro, non lo fece neppure quel giorno”.

 

Guarda QUI la video intervista a Roberto Riccardi realizzata con ItvRome.

“Il ragazzo selvatico” e la montagna come specchio dell’anima

Il ragazzo selvaticoMichael Dialley
AOSTA – “Il ragazzo selvatico” è il nuovo romanzo di Paolo Cognetti, pubblicato da Terre di mezzo editore: racconta di un ragazzo che dalla città è partito per andare a ritrovare se stesso, ritrovare le sensazioni vissute da bambino, in montagna. È un viaggio reale quello che il ragazzo ha intrapreso, ma dalla lettura emerge il potere straordinario della montagna, delle sue difficoltà e delle sue bellezze, che rispecchiano appieno l’interiorità dell’uomo alla ricerca di qualcosa, nella speranza di raggiungerla.
La vita cittadina è frenetica, caotica, mentre nel romanzo si dice che la montagna rappresenta “l’idea più assoluta di libertà”. Si cerca, quindi, un ritorno a ciò che è semplice ed essenziale; tra le molte citazioni, potenti e belle, di cui è disseminato il romanzo, c’è anche il manifesto di Thoreau, filosofo e scrittore statunitense del XIX secolo, in cui si racconta: “Andai nei boschi perché volevo vivere secondo i miei princìpi, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, per vedere se fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, di non aver vissuto”.
Una montagna che è sia immagine da cartolina, fatta di scorci stupendi, paesaggi e panorami incontaminati che si possono solamente trovare nei sogni, ma anche una montagna sempre più urbanizzata: purtroppo è il destino delle Alpi in questi anni, andare incontro a una sempre maggiore urbanizzazione per creare un terreno di gioco per i cittadini che vanno in vacanza.
Sempre più spesso si dimentica il valore della montagna, valore che i montanari sentivano nel profondo del loro animo e che nel romanzo emerge grazie a questa fuga dalla città in cerca degli antichi valori e delle emozioni infantili vissute; ma anche una presa di consapevolezza dell’importantissimo lavoro che nei secoli è stato fatto: “Il paesaggio intorno a me, dall’aspetto così autentico e selvaggio, fatto di alberi, prati, torrenti e sassi, era in realtà il prodotto di molti secoli di lavoro umano, era un paesaggio artificiale tanto quanto quello della città”.
Nei secoli questo lavoro è stato graduale, ma ha cercato sempre di non stravolgere l’aspetto della montagna. Oggi, però, c’è l’amara consapevolezza della realtà e la modernità viene raccontata così: “Con la fine del ‘900 arrivò anche quella del vecchio albergo: venduto, demolito e ricostruito per farne un condominio”. Ciò che rattrista, però, è che “di quel luogo, come scriveva Stern, sono rimaste ora solamente queste mie parole”.
Questo romanzo breve, ma intenso e denso di significati, è un’analisi della realtà delle Alpi, di ciò cui vanno incontro e di come la visione della montagna sia diversa, tra un montanaro e un cittadino e turista.

Dopo “Sorella” e “Italia”, Marco Lodoli torna in libreria con un nuovo romanzo: “Vapore”

Alessia Sità

ROMA –Il mondo non è un posto adatto agli esseri umani, ci stiamo dentro sognando altro, e altro non c’è. E allora facciamo il nostro spettacolino, poi un inchino e ciao.
Il desiderio di cambiare la realtà e la voglia di essere felice nonostante l’orrore del mondo fanno da sfondo al nuovo romanzo di Marco Lodoli, “Vapore”, edito da Einuadi. A raccontare la storia di un padre ‘scapestrato’, ma dal cuore grande, e di un figlio idealista è Maria Salviati, un’ex professoressa settantaduenne. Pur di non perdere la memoria degli anni passati, Maria racconta la sua storia al giovane agente immobiliare, Gabriele, che l’aiuta a vendere la sua casa di campagna. Lentamente riaffiorano nella mente della donna tutti i ricordi legati agli unici due uomini che lei abbia mai amato: il marito Augusto, conosciuto anche come Mago Vapore, e il figlio Pietro. L’evanescenza del primo ben presto si scontra contro l’idealismo e l’utopia comunista del secondo. Mentre Augusto è in grado di accettare la realtà nel bene e nel male, Pietro sente il disperato bisogno di cambiarla, nella speranza di poterla migliorare. Purtroppo, però, solo l’amore non basta a proteggere le persone a noi care e questo Maria lo sa molto bene. “Vapore” è la storia di una famiglia non convenzionale, che nasconde un terribile segreto. Con uno stile brillante ed elegante, Marco Lodoli ci regala una storia che riesce a commuovere, toccando le corde più profonde dell’animo umano. Inevitabilmente, il lettore si lega alla concretezza di Maria, all’allegria di Augusto e all’ingenuità di Pietro. Fra le scene più belle, che Lodoli ci regala vi è senza dubbio, quella in cui Vapore scrive un sonetto d’amore in romanesco alla sua adorata Maria. Fra le righe di quella poesia si capta la bontà e la semplicità di un uomo che, dietro alla sua evanescenza, cela un gran cuore e un immenso amore per la sua famiglia.”Vapore” ci conduce con dolcezza nel cosiddetto ‘male di vivere’ che attanaglia i suoi personaggi.

“50 smagliature di Gina”: dalla trilogia alla sana ironia

 

Alessia Sità

ROMA – “Hai dei bellissimi piedi. Hai una bellissima voce. Hai una bellissima protesi sulla testa del femore. Quando una Gina invecchia, coi complimenti si è costretti a scavare il fondo del barile.”
Gina: s.f. Femmina della specie umana, dotata di grande capacità autocritica e di 50 mila smagliature di interiorità ed esteriorità. Insofferente a qualsiasi attività fisica – che non sia lo shopping sfrenato – e tragicamente affetta da diverse sindrome: da quella di Stendhal o dello stendino a quella della Piccola Fiammiferaia. Tratti particolari: la Gina, generalmente è accoppiata, sposata o impegnata con un esemplare gigiesco.
Quello appena tracciato non è che un sommario identikit della tipica Gina di cui parla Rossella Calabrò nel suo ultimo lavoro: “Cinquanta smagliature di Gina”, edito da Sperling&Kupfer. Dopo aver svelato ‘il lato b della trilogia più hot dell’anno’ (“50 sbavature di Gigio“), in cui descrive l’apparente ‘dramma’ di aver un Gigio per casa, la brillante blogger torna in libreria con una sana dose di umorismo per parlare – da Gina a Gina e da Gina a Gigio – di quelle piccole imperfezioni che ci accomunano e allo stesso tempo ci rendono uniche nel nostro universo femminile. Non è facile scegliere quale smagliatura raccontare, dal momento che sono una più divertente dell’altra; ma sappiate che per ognuna di esse esiste un’unica soluzione. Nessuna arma, infatti, è più potente dell’autoironia per combattere inestetismi, imperfezioni e dilemmi esistenziali. Quante volte ci perdiamo nei meandri della nostra mente, nel tentativo di decifrare quel presunto messaggio subliminale che si nasconde dietro un’osservazione esterna? Basta poco per mandarci in crisi. Per esempio, se un’amica ci trova un po’ stanche, noi pensiamo subito di essere terribilmente brutte. Se il nostro uomo riceve un banale sms, il nostro istinto deleterio ci porta subito alla conclusione che ha l’amante. Se la bilancia ci ‘annuncia’ di aver ‘guadagnato’ un etto in più, ecco che davanti a noi si palesa la triste e tragica (ir)realtà di essere ormai obese e senza alcuna speranza. Alt!!!! Fermiamoci. Ricomponiamoci e resettiamo queste assurde convinzioni.  La speranza c’è, e – come dice, anzi scrive Rossella Calabrò – ‘è l’ultima a smagliarsi’. Basta arrovellarsi la mente e il corpo per compiacere i nostri compagni o mariti. Proviamo a guardarci con altri occhi e a sorridere delle nostre smagliature, dei nostri rotolini di ciccia, delle nostre ‘braccia a pipistrello con conseguente onda d’urto’. Non esiste trattamento più efficace dell’autoironia per renderci irresistibili. In fondo, “quando con un uomo ci sentiamo libere di essere totalmente noi stesse, quello è l’uomo giusto”; e pazienza se il nostro Gigio continuerà a baciarci sugli occhi appena truccati… Ricordate: la perfezione non esiste, anzi come dice Rossella Calabrò: “La perfezione è un’immensa cazzata”.

 

“Dolce come il piombo”: un romanzo di piccole cose che diventano vita

Alessia Sità

ROMA –Andarono dietro al granaio a prendere le pistole che il nonno di Fuoco aveva costruito per loro, intagliando dei pezzetti di legno. «Io faccio la guardia!» esclamò solenne Fuoco. «Conto fino a dieci e poi vengo ad arrestarvi.» Voleva fare la guardia, come suo padre, per stare dalla parte dei buoni. «Prova a prenderci» dissero correndo Lepre e Saetta.”
Si apre con questo tono di spensieratezza “Dolce come il Piombo” il nuovo romanzo di Francesco Rago, pubblicato da Edizioni Montag nella collana Le Fenici. Dagli anni Sessanta agli anni Ottanta, in un piccolo paesino alle porte di Bologna, si dipana la storia di tre giovani ragazzi, amici per la pelle: Ivan, Fabrizio e Carlo. Conosciuti anche con i simpatici soprannomi di Lepre, Fuoco e Saetta. Tre storie di vita che si incrociano dall’infanzia all’età adulta, attraverso un continuo avvicendarsi di avvenimenti che, gradualmente, segneranno l’inesorabile corso del destino di ognuno di loro. Lepre, abile e scattante, è una promessa del calcio. Fuoco, paladino della giustizia, sente la necessità di impegnarsi concretamente nel movimento studentesco, nel quale riversa tutti i propri ideali. Inquieto e cresciuto troppo in fretta, a causa della morte prematura del padre, è Saetta; diventato operaio fin da subito, per aiutare la propria famiglia. Col passare degli anni, i tre ragazzi, ormai uomini adulti, scopriranno quanto la vita possa essere crudele. La loro amicizia verrà messa duramente alla prova. Improvvisamente Ivan, Carlo e Fabrizio giungeranno alla consapevolezza che il tempo dei giochi spensierati e del loro consueto “bighellonare tra le strade di ciottoli grigi e i campi gialli di grano che circondavano il paese” non tornerà mai più. E infatti, la cruda realtà non tarderà ad arrivare. Lepre, Fuoco e Saetta impareranno molto presto quanto sia stato effimero lottare così ostinatamente per il successo, gli ideali, il lavoro, quando a farne le spese sarà qualcosa di molto più prezioso. Con grande capacità introspettiva, Francesco Rago ci regala un romanzo fatto di piccole cose, ma che contestualizzate nel vivere quotidiano diventano vita. “Dolce come il Piombo” è una profonda e costante riflessione sull’amicizia e sull’ineluttabilità del destino.

“Per dirmi che sei fuoco”: la ricerca della verità attraverso i versi di Ungaretti

Alessia Sità

ROMA – “Non mi era mai apparso tanto violento, brutale e attraente, il paesaggio. Lo scoprivo ai miei occhi con una spontaneità di immagini che ancora mi sorprende.”
(Lettera di Giuseppe Ungaretti scritta da San Paolo a Bruna Bianco).

Sono proprio i versi di Giuseppe Ungaretti a fare da sfondo alla straordinaria storia di Nico, un ragazzo romano che sta per laurearsi in letteratura con una tesi proprio sul poeta di Alessandria d’Egitto. Improvvisamente, però, la tranquilla esistenza del giovane viene stravolta dalla sconcertante scoperta di essere il figlio biologico di un  ‘donatore misterioso’.
Inizia così “Per dirmi che sei fuoco”, il romanzo di Fabrizio Falconi pubblicato da Gaffi Editore in Roma, nella collana Godot.
Il pretesto narrativo è fornito da una reale inchiesta giornalistica – realizzata qualche anno fa dall’autore – sui bimbi nati in ‘provetta’ negli anni ’80 e sulle difficoltà, riscontrate da molti, ad accettare l’idea di essere figli di ‘anonimi donatori’.
Attraverso gli archivi della banca del seme di Amsterdam, Nico riesce a raccogliere le informazioni necessarie che lo metteranno sulle tracce di Michele, un rivoluzionario ecologista che da anni lotta contro le ecomafie in giro per tutta l’Europa. Il desiderio di incontrare il padre naturale, per dare finalmente un volto a un nome scritto su un pezzo di carta, spinge il ragazzo a intraprendere insieme alla fidanzata Valentina, una ricerca estenuante che lo porterà ad avventurarsi sulle montagne abruzzesi, sfidando ostacoli e pericoli di ogni tipo. A infittire sempre di più la trama, già ricca di avvenimenti, è anche l’arrivo di Brigitte, la sorella naturale di Nico. I due fratelli si ritroveranno a ricostruire insieme la storia di vita del padre, dopo che questi resterà gravemente ferito in seguito ad una delle sue ‘azioni dimostrative’. Qualche volta però, la verità ha un prezzo troppo alto da pagare, e i due ragazzi lo scopriranno a proprie spese.
Attraverso le vicende di Nico e l’esperienza di vita di Giuseppe Ungaretti, che diventa quasi il ‘cantore’  e il simbolo di una lunga peregrinazione umana, Fabrizio Falconi racconta e affronta, con straordinaria sensibilità, due importanti tematiche: la fecondazione artificiale e lo smaltimento illegale di rifiuti.

“La figlia del reverendo”. Una profonda esplorazione dell’animo umano edito da Neri Pozza

Alessia Sità
Roma – “Ci sgretoliamo anno dopo anno e tutto rimane uguale a se stesso”.
Lo scorrere del tempo e la stasi di un insignificante villaggio, sito nelle contee orientali dell’Inghilterra, fanno da sfondo a “La figlia del reverendo” di Flora Macdonald Mayor, pubblicato da Neri Pozza Editore, nella collana I narratori delle Tavole. Il romanzo, oggi considerato un capolavoro del XX secolo, fu pubblicato per la prima volta nel 1924 da Leonard e Virginia Woolf .
La vita vuota e banale della non più giovane Mary è completamente sconvolta dall’arrivo di Robert Herbert, un vecchio amico dell’accidioso reverendo Jocelyn. Improvvisamente, per la protagonista rifioriscono tutte le emozioni soffocate durante gli anni trascorsi nella canonica di Dedmayne. L’esistenza silenziosa e prevedibile di una donna, abituata a vivere in un microcosmo chiuso, viene improvvisamente sorpresa dalla passione. Fondamentale diventa anche l’amicizia con la spigliata Kathy, che aprirà a Mary una finestra sul mondo, quello vero, lontano dalla condizione di governante – padrone della propria casa. Il legame con il padre, comunque, resterà costantemente presente in ogni nuova esperienza. Pagina dopo pagina, il lettore viene sempre più coinvolto in questo rapporto, in cui gradualmente emerge l’insensibilità di Jocelyn e la perenne soggezione della figlia.
Con una prosa elegante, Flora Mayor riesce ad indagare nel groviglio dell’animo di ogni singolo personaggio, soffermandosi particolarmente sull’impotenza di esso di fronte alle rigide regole sociali. “La figlia del reverendo” è un romanzo introspettivo, capace di esprimere in ogni sfumatura il difficile rapporto fra un padre egoista e il silenzio di una figlia che non trova il coraggio per porre fine alla propria condizione di sottomissione.