“Il corso innaturale delle cose”

Giulia Siena
ROMA
“La lingua felice è assolutamente semplice e brutale: era la ragazza più bella che avessi mai visto. La lingua felice forse è spiacevole: mi guardava come uno più vecchio.”
Ma nell’amore l’età non conta. Nella felicità l’amore non conta; o forse sì. Qualcosa forse, in fondo, conta. Quel divario di età che all’inizio attrae e impaurisce, eccita e rende inquieto Tomas si chiama amore impossibile. Prima di lui, prima di loro, in questo amore controverso e problematico, caddero i cuori di Abelardo ed Eloisa e, ancor prima, quelli dei poeti latini e di quelli greci. Ma in una notte di inizio anno, Tomas e Janna, si incontrano.

“Il corso innaturale delle cose” dell’autore norvegese Tomas Espedal e pubblicato da Ponte alle Grazie, è la visione poetica e sovversiva dell’amore e del lavoro da parte di un uomo che insegue controcorrente la felicità.
Nella scrittura di Espedal e nella storia del suo protagonista, la quotidianità e il lavoro in fabbrica, l’attrazione per Agnete e il matrimonio, l’esperienza in Guatemala e la figlia, il cambiamento, la giovinezza di Janna e l’abbandono sono piccole cicatrici che segnano. Sono impronte che suggeriscono un percorso controcorrente, il percorso di un uomo che trova il successo e lo perde, che cerca l’amore e gli sfugge, che rifugge la solitudine per poi rimanere solo, che assapora la felicità e ne trova l’essenza.

 

Poche volte l’oggettività dei sentimenti: la felicità – e la sua assenza – la vita e la sua negazione, il futuro e il suo aborto sono state così magistralmente descritte.

“Dimmi che c’entra l’uovo”, tragicomiche disavventure da precariato

Luigi Scarcelli
ROMA“Cerco di pensare a dove sto andando ma è come rispondere alla domanda sull’uovo e sul frigo…”

Finalista alla XXIII edizione del premio Calvino e segnalato dalla giuria per “la scrittura disinvolta e disinibita con cui affronta ironicamente e autoironicamente il tema della precarietà”, “Dimmi che c’entra l’uovo” edito da Del Vecchio Editore è l’opera del giovane scrittore Fabio Napoli. Classe 1986, l’autore incentra il suo romanzo sul tema della precarietà, tanto”caro” alla sua generazione.
L’uovo citato nel titolo è quello presente in una domanda di un test psico attitudinale che Roberto Milano, protagonista del romanzo, si trova a dover affrontare durante un colloquio di lavoro presso un fast-food. Roberto è un ragazzo appena reduce dalla perdita di tre dei quattro lavori precari con cui si sosteneva a Roma e anche il “colloquio dell’uovo” gli va male. Ormai disperato, Roberto forma assieme a Marianna e Riccardo, conosciuti poco dopo il colloquio al fast food, la Banda dei precari con l’intenzione di mettere a frutto delle rapine in bar della città e almeno avere i soldi  per andare avanti. Tra rapine, storie d’amore e di competizione, la banda si troverà davanti al colpo della vita: una rapina in un fast food che dovrebbe fruttare loro abbastanza soldi da stare tranquilli per un bel po’ di tempo.
Il libro ha una scrittura molto sciolta e piacevole e attraverso i personaggi principali del romanzo l’autore descrive bene le principali paure e situazioni che i giovani precari d’oggi si trovano ad affrontare: il pensare giorno per giorno e l’assenza di qualsiasi programma di vita, il rassegnarsi a lavori frustranti e malpagati, la ricerca di una soluzione facile e fuori dagli schemi. Molti ragazzi leggendo questo libro rivedranno qualcosa di loro in Roberto, Marianna o Riccardo, ma saranno anche alleggeriti dal modo “ironico e autoironico” con cui l’autore descrive simbolicamente le sfortune di una generazione e facendo buon viso a cattivo gioco forse non risolveranno i problemi ma l’animo, almeno quello, lo salveranno.

“Magma”- una lavina intellettuale

Marianna Abbate
ROMA – Quando parliamo di élite della società di oggi, ci riferiamo sempre meno all’aristocrazia per nascita e alla ricchezza acquisita. Quello che sembra effettivamente differenziare i singoli dalla marmaglia è il sapere e lo status di intellettuale, quel qualcosa che ci fa essere effettivamente superiori. Per questo motivo in molti scelgono di camuffarsi da persone colte vestendo in modo trasandato, facendosi crescere la barba, guidando una bicicletta per le trafficate strade di Roma, citando filosofi e rimatori dialettali nella stessa frase e guardando gli altri dall’alto in basso. Cercano, insomma, di coprire il mancato sapere con un look radical chic o hipster per gli anglofoni, che permetta loro di rientrare in quella tanto anelata élite di nobiltà del nostro tempo.

Ovviamente il goffo tentativo è abbastanza visibile ai più, e i veri intellettuali guardano con ancora più sdegno ed ironia a questa sfera della società. Perché la caratteristica che divide in modo assoluto il vero intellettuale da uno falso è quanto poco gliene freghi al primo di quello che pensa il secondo e di quello che pensano gli altri in generale.

La caratteristica fondamentale è la depressione. Dopo il postmodernismo è arrivato il momento del neodecadentismo, con il suo pessimismo cosmico e l’abuso di sostanze stupefacenti a scopo produttivo.

Lars Iyer, l’autore di “Magma” pubblicato da Meridiano Zero, è un vero intellettuale. Lui di mestiere fa il professore di filosofia, e credo che non esista al mondo sogno proibito più eccitante per gli aspiranti elitari, che fare il professore di filosofia. Il professore di filosofia è il nonplusultra dell’intellettualità: un mestiere che non ti obbliga a produrre assolutamente nulla se non pensieri. Se sei lì a fissare il muro con lo sguardo perso e fai il medico, ti potrebbero dire che stai perdendo tempo. Se invece sei un filosofo e stai fissando lo stesso muro di prima tutti cercheranno di camminare in punta di piedi per non disturbare il tuo lavoro. Ovviamente Lars Iyer queste cose le sa, lui sa tutto. Guarda con ironia quelli che lo guardano mentre lui se ne sta tranquillo a fissare il muro perché aveva visto una crepa.

E decide di aprire un blog: “Spurious”.
Per raccontare l’altra parte, l’altro punto di vista: quello che passa davvero per la testa degli intellettuali 2.0.

Il risultato del seguitissimo blog è il suo primo libro, tradotto in italiano come “Magma”.

Il libro, che non mi sento di chiamare romanzo perché completamente privo di trama, ci porta nei meandri dei pensieri di due accademici britannici. Tra l’alcol e l’insoddisfazione cronica i due viaggiano in quell’Europa che ha visto i successi e la realizzazione del talento di autori e filosofi. L’elemento comune tra Lars e W. è sicuramente la capacità di riconoscere in sé la mancanza di un qualunque talento che potesse portarli all’Olimpo della memoria eterna. Entrambi hanno delle conoscenze molto superiori alla media, e devo riconoscere che a volte ho faticato a seguire il filo dei loro ingarbugliati pensieri. Ma questa conoscenza, questo sapere che li porta ad avere un atteggiamento di saccenza involontaria e congenita, non porta soddisfazioni. I due sono delusi di non avere le capacità letterarie di Kafka e la sua limpidezza nella costruzione della trama.

Il loro raffinato senso critico non grazia nemmeno loro stessi, anzi sono proprio loro i protagonisti assoluti di ogni disapprovazione, costantemente sotto esame del recensore più esigente: l’Io.

E non bastano i giornali, i giochini scaricati sul cellulare a uccidere quell’anelito fremente, quella tensione che dovrebbe essere produttiva, ma non lo è.

Ironico, tagliente, originale questo non-romanzo. Non è un libro facile e sicuramente non vi farà sentire rilassati, ma se siete in cerca di qualcosa di nuovo, eccolo: l’avete trovato.

 

Intervista: Valentina Edizioni, una casa piena di libri

Giulia Siena
MILANO – C’è una casa editrice a Milano che è un po’ una casa, la casa dei libri. Qui i libri vivono: vengono aperti, sfogliati, annusati e raccontati. E’ una casa piena di idee e storie, una casa che oggi ci apre le porte e si racconta. Siamo a casa di Valentina Edizioni e a scoprirne le novità ci accompagna l’editore, Valentina Brioschi.

 

“Mi piace che il luogo dove si pensano e si fanno i libri si chiami Casa. Una Casa abitata da personaggi, storie, avventure..” In questo modo Valentina Edizioni si presenta al lettore; ma come nasce la casa editrice?
La casa editrice è nata un po’ per caso, come nascono tante cose nella mia vita. Mi innamoro di qualcosa o di un’idea e credo sempre sia vincente e geniale. Mille volte ho sbagliato e qualche volta no; sicuramente la scelta di aprire una casa editrice è stata una di quelle volte in cui non ho sbagliato. Credo i nostri libri siano importanti compagni di viaggio nella crescita di un bambino, sicuramente lo sono per me, sono cresciuta; in tutti i sensi.

 

A dieci anni dalla nascita qual è il bilancio di Valentina Edizioni?
Vorrei dare alla parola “bilancio” un’interpretazione personale. Il bilancio del successo raggiunto nel mondo meraviglioso e un po’ magico dei bambini è positivissimo! No mi faccia parlare di numeri – in matematica sono sempre stata una frana – ma la passione e l’amore per il mio lavoro hanno sempre fatto sì che ogni giorno fosse un nuovo bellissimo giorno.

La Sua casa editrice si rivolge soprattutto ai giovani lettori, ai bambini, ma come è cambiato il mercato dell’editoria per ragazzi negli ultimi anni?
Il mercato dell’editoria ha sicuramente subito una forte scossa negli ultimi due anni; forse per la crisi forse per i giochi elettronici che stanno prendendo il sopravvento. Bisogna però tener duro, i nostri figli vanno cresciuti avendo la possibilità di toccare, annusare, respirare ciò che è un libro: uno scrigno dal quale escono musica e parole.

 

Tra scelte dei manoscritti, le illustrazioni, la realizzazione e la promozione dei libri, com’è la vita delle piccoli case editrici in Italia?
La vita in una piccola casa editrice è frenetica, ci si deve occupare un po’ di tutto: dallo scrivere un testo oppure correggere e accettare quello di un altro, tra scegliere le illustrazioni, correggerle, occuparsi della promozione che spesso è affidata ad esterni, il distributore da seguire con il loro calendario, i promotori… Bisogna saper fare un pochino di tutto per mantenere una struttura snella. Noi abbiamo una redazione tutta al femminile,poche teste ma geniali e multitasking.

 

Quali sono le novità autunno/inverno 2012 della Valentina Edizioni?
Le novità sono molteplici e sempre davvero carinissime. Verranno presentate molto in libreria e nelle scuole. La nuovissima e intrigante collana per ragazzi “SWITCH SIERO MUTANTE” (narrativa per ragazzi 7-12), sei episodi avvincenti con metamorfosi da brivido assicurato. LA CAPRA GOLOSA: ultimo capolavoro della serie che tratta di storie di animali distratti, altruisti e sbadati che rispecchiano l’animo dei piccoli lettori (3-7). PASSO DOPO PASSO: nella vita non bisogna mai arrendersi neanche davanti alle difficoltà più grandi. SBRIGATI MA LENTAMENTE : delizioso racconto di una tartaruga riflessiva e di una lepre esuberante. Impareranno ad accettarsi scoprendo il proprio valore. LE GALLINE NON RIESCONO VEDERE AL BUIO: basta determinazione nella vita per riuscire a vedere il mondo con occhi diversi.
TRIXIE TEN: impara l’inglese e impara ad accettare nove rumorosissimi fratelli.

 

I tre libri sui cui puntate in questo momento?
LO STRANO UOVO, un capolavoro; vorrei tanto che in questo momento il lettore ne avesse uno in mano per poterlo sfogliare e capirne il significato.
Poi, IL GRANDE LIBRO DELLE PAURE, forse ancora più bello perché nella vita bisogna imparare ad affrontare le proprie paure per sconfiggerle. Anche i più grandi hanno paura di qualcosa. PETAL PEOPLE, un meraviglioso mondo popolato da un’intera generazione di simpatici fiori. Lo sapevate che, i fiori come noi umani, hanno le medesime caratteristiche? Nell’ultima pagina il bambino troverà il semino del fiore del libro da far crescere con amore e attenzione. Conoscerà il suo personaggio.


Fare libri è..
Semplicemente meraviglioso e comunque l’unica cosa che so fare…

“Caterina fu gettata”. Vi è mai capitato di differenziare la vostra fidanzata?

Marianna Abbate
ROMA – Siamo nell’epoca della raccolta differenziata, del rispetto dell’ambiente e dei romanzi fatti con lo stampino: tutti uguali e tutti già letti. Viviamo in un mondo in cui tutto è già stato fatto e detto, comprese queste mie banalissime parole.

E allora “Caterina fu gettata” diventa un simpatico momento di astrazione. Ho letto che in internet qualcuno ha definito questo romanzo breve di Carlo Sperduti, edito da Intermezzi, come urban fantasy. Non dico che sia una definizione completamente sbagliata, ma potrebbe risultare deviante per un lettore che non sa di cosa stiamo parlando e si immagina fatine volanti e draghi sputafuoco. Si tratta di un romanzo nonsense, una narrazione sperimentale, che tanto ricorda quella corrente anni ’70 che ha visto come protagonista assoluto Calvino.

Nel mondo di Caterina si muore mille volte, ma questo non influenza in nulla la vita dei protagonisti, che continuano imperterritamente a risorgere in un trionfo di virgole e punti esclamativi, da sconvolgere Manzoni. La sperimentazione non si trova solo nella trama, assurda e decisamente astrusa, ma anche nello schema linguistico, nell’utilizzo della parola come significante, spesso privata del significato.

Un esperimento linguistico e letterario, ma nel contempo narrativo. La costruzione dei personaggi avviene attraverso le loro azioni, e non attraverso la caratterizzazione aprioristica dello scrittore, che influenza al minimo lo svolgimento degli eventi. A volte sembra di trovarsi nella casa di una coppia qualunque, dove la fidanzata sciorina nel sonno tutte le cose che odia del proprio compagno. Ma subito dopo ci ritroviamo nell’incredibile mondo astratto, dove si può buttare in un secchio gatto e fidanzata.

Un losco individuo condisce gli avvenimenti con una delicata suspense che ci fa temere chissà perché, quella morte che nel testo è un avvenimento quotidiano e abitudinario.

Devo riconoscere che la mia fantasia non è riuscita a prevedere gli eventi di questo libricino, che mi ha fatto sorridere e scuotere la testa con allegria.

 

Bellino, proprio bellino.

“Adotta una parola” affinché l’italiano sopravviva!

Giulio Gasperini
AOSTA – L’italiano è la dodicesima lingua più parlata al mondo: ragioni culturali, e non certo di diffusione geografica, le permettono di guadagnarsi questa posizione. Ma l’italiano è anche la lingua, tra quelle neolatine, che può contare più lemmi e vocaboli. L’italiano è una lingua poetica, estremamente versatile e piuttosto creativa (avrebbe anche poco bisogno di prestiti esterni, data la sua ricchezza verbale!): e non lo scriviamo per razzismo culturale o preferenza materna, ma perché i dati dicono questo, e noi siamo felici di riportarli e sottoscriverli.
La Società Dante Alighieri, fondata alla fine dell’800 da, tra gli altri, Giosue Carducci, ha sollecitato l’aiuto di quattro tra i più importanti dizionari dell’italiano contemporaneo (il Devoto Oli, il Sabatini Coletti, lo Zingarelli e il Garzanti) per cercare di salvare le parole italiane dall’oblio della dimenticanza e, cosa ancor più grave, della mancanza di utilizzo. Perché si sa che una parola sopravvive soltanto se si usa: altrimenti diventa un polveroso relitto per fare la felicità di qualche remotissimo filologo. Ma la lingua è bella perché usata, perché parlata, perché utilizzata per confrontarsi con la realtà circostante, col mondo, per misurarlo, quantificarlo e significarlo. Chiamare le cose col loro vero nome, con quello storico, magari con l’unico corretto a differenza di altri, è come riscoprire, come riportarle alla luce la prima volta: un rinnovato battesimo che ciascuno di noi ha il potere di compiere. Basta conoscere le parole, basta saperle utilizzare; basta volerlo, insomma.
Ad oggi, le parole adottate sono state quasi 30.000. Basta connettersi a questo sito: http://adottaunaparola.ladante.it/ Alla fine, vi sarà dato anche un attestato, con la vostra parola, e con l’impegno di usarla il più possibile, a ogni occasione (mai a sproposito) per far sì che qualchedun altro si accorga di lei e della sua esistenza. Siamo tutti lì… Io, per via del mio lavoro, ho adottato “rifugiato”, la direttrice “concepibile” (e non ho indagato il motivo)…
Voi, quale? Scrivetecelo!

“Non sono un fottuto giornalista eroe” – un detective un po’ sgangherato

Marianna Abbate
ROMA – Piccola premessa: seppure non si tratti di un giallo canonico, questa recensione potrebbe contenere spoiler (NdR). Tutta tinta di giallo la copertina del libro di Antonio di Costanzo, ci fa ingiustamente associare questo libro ai classici gialli da edicola. Ma “Non sono un fottuto giornalista eroe”, edito da Cento Autori, sfugge a queste classificazioni estemporanee, ritagliandosi un posto tutto suo nel panorama letterario.

Si tratta di un romanzo, certo, ma non segue i canoni del giallo classico. Il protagonista, che dovrebbe svolgere il ruolo di detective amatoriale, non ha nulla del Poirot di Agatha Christie, e non assomiglia neanche al Watson, fedele amico di Holmes. Iacopo Fernandez è alla seconda avventura da detective ( la prima è stata raccontata nel libro “Volevo solo svegliarmi tardi la mattina” che devo assolutamente rimediare). Non è dotato di spirito di osservazione, né di grande intuito. Non ha la pazienza di studiare 675 tipi di tabacco diversi e neanche le conoscenze di chimica per farlo. Scopre le cose per il semplice motivo che gli vengono dette dalle persone più strane, che per un qualche motivo inspiegabile lo trovano simpatico. Persino il vicecapo della polizia, che odia notoriamente tutti i giornalisti, lo ha preso a benvolere.

Si trova, suo malgrado, in mezzo a una storia più grande di lui, nonostante tutti i tentativi a sfuggire alla realtà che lo circonda con “litrate” di alcolici che si versa in gola a ogni ora del giorno e della notte.

Il caso criminale, che vede coinvolta la morte di un clandestino cingalese, passa in secondo piano. Il crimine si trova sullo sfondo di questo libro che non è altro che un ritratto di parole di un personaggio molto ben costruito ed interessante. Tant’é che alla fine scopriamo che (ATTENZIONE SPOILER) a compiere l’omicidio sono state persone completamente slegate alla storia e mai nominate prima nel romanzo. Quindi non c’è nessun processo deduttivo, nessuna osservazione di una mente superiore: niente di niente. (FINE SPOILER)

E allora perché leggere questo libro? Vi assicuro che ci sono motivi validissimi.

In primis è scritto molto bene, un italiano di qualità di chi non si improvvisa scrittore dal giorno alla notte; il protagonista è interessante come vi ho già accennato, e speriamo di ritrovarlo in altre avventure, anche perché trovo che questo più che un romanzo sia un racconto lungo (signor Di Costanzo ci faccia una bella raccolta con almeno tre avventure e saremo felici).

Inoltre, il mondo raccontato somiglia tantissimo a quei sogni di giornalisti, cui piacerebbe moltissimo trovarsi per caso coinvolti in complicate storie dalle quali uscirebbero eroicamente vittoriosi, con al fianco una bella donna e prime pagine sui quotidiani a loro dedicate.

Non sono un fottuto giornalista eroe” ha qualcosa di Hemingway qualcosa di Bukowski e moltissimo dei corsi di scrittura creativa. Un linguaggio semplice, chiaro e affascinante.

Unica pecca? Un po’ troppi titoli di canzoni radical chic. Perdonabile.

 

 

L’Amantide: una donna e la sua missione


Silvia Notarangelo

ROMA – Dopo “Diecipercento e la Gran Signora dei tontiAntonella Di Martino presenta ai lettori di Chronicalibri il suo nuovo, intenso e spietato racconto, pubblicato nella collana Atlantis di Lite Editions.

“L’Amantide”, una storia dal titolo affascinante che racconta…

Racconta diverse storie, condensate in una.
C’è la storia di una donna che ha deciso di trasformare la sua rabbia e i traumi della sua infanzia in un lavoro, che è anche una missione.
C’è la storia di una famiglia infelice, arrivata a un punto di non ritorno.
C’é la storia di una moglie e madre che ha deciso di cambiare il suo destino con un mezzo insolito.
C’è la storia di un omuncolo, una creatura che vive in un piccolo senza speranza, un luogo triste in cui rinchiude le persone che gli vivono accanto.
C’è la storia di una breve vacanza, che inizia come un sogno e termina con una brusca caduta.
Infine, ultimo ma non meno importante, c’è il cuore di Nizza, la sua atmosfera, i suoi profumi, i suoi colori.

Suggestioni e fonti di ispirazione?

L’omuncolo letterario si ispira a un omuncolo conosciuto personalmente anni fa. Era il patrigno di una mia amica, la quale mi raccontava spesso le “fisime” che infliggeva alla famiglia. Lo ricordo come una delle persone più odiose che io abbia mai incontrato. Non è la prima volta che mi sono ispirata alla sua personalità, per arricchire le caratteristiche dei miei personaggi più grotteschi.
L’Amantide non l’ho mai conosciuta. L’ho costruita un pezzo alla volta: ho preso in prestito le parti più rabbiose, inquietanti e distruttive della mia immaginazione; ho aggiunto alcune caratteristiche raccolte qua e là dall’immaginario collettivo; sono stata attenta a conservare le contraddizioni; ho ritagliato le parti in eccesso e ora l’Amantide vive di vita propria.

Tre aggettivi per descrivere L’Amantide

Folle, razionale, tagliente (sorride ndr).
Dell’Amantide apprezzo soprattutto i contrasti. È una criminale, ma ha una scala di valori tutta sua, costruita con razionalità impeccabile e lucidissima follia. Il suo lavoro è vendetta, ma anche missione, rivincita, piacere. Si intuisce che il mondo le ha fatto molto male: un male che lei tenta di restituire con garbo, selezionando i bersagli giusti. Il suo sguardo, incisivo come i punteruoli da ghiaccio e tagliente come una lama, coglie gli aspetti migliori e peggiori della vita che incontra.
L’Amantide rispetta con scrupolo le sue regole, ma cerca anche uno spazio per conquistare pezzi di vita liberi dal dolore e dal lavoro: cerca di adeguarsi senza adattarsi, di strappare i fiori più profumati che sbucano in questa valle di lacrime.

La sua lettura è rivolta a…

A chi ha il gusto per l’insolito e le tinte forti, ma non per la volgarità; a chi ama le storie sensuali che vadano oltre i sensi; a chi non ha paura di sbirciare negli angoli più nascosti di quella che chiamano realtà.

Un paio di tacchi alti- un giallo per le serate d’autunno

Marianna Abbate
ROMA – E’ autunno, piove e fa finalmente freddo. Ci vuole proprio una tazza di té con del bourbon, castagne arrosto, un plaid e… un bel giallo. Quindi, eccomi qui a consigliarvi un giallo d’autore; un classico del genere: “Un paio di tacchi alti” di Timothy Fuller pubblicato da Polillo Editore.

Se avete amato Aghata Christie non potete perdervi questo romanzo, carico di sottintesi e indizi.

La trama è presto detta: si indaga su un omicidio avvenuto durante la riunione di ex studenti dell’università di Harvard. Ma quello che ci interessa è l’atmosfera: quell’aria che sa di mistero e cannella che avvolge i protagonisti di tutti i gialli d’autore.

Il libro è stato pubblicato per la prima volta nel 1941, ed è innegabile che sia proprio la sua età a renderlo ancora più affascinante.

L’autore ci accompagna sui passi di Jupiter, un detective dilettante che si dimostra estremamente sveglio e abile- e anche un pochino nerd. La riunione degli studenti viene scossa dall’evento inaspettato, che li porterà a guardarsi con sospetto e scoprire vecchi rancori. Un unico indizio: un’impronta di scarpe con tacco accanto al cadavere. In più bisogna affrettarsi a risolvere il caso per scagionare l’amico innocente che sta per sposarsi!

Condite tutto con cappellini, cappotti cammello, una luce soffusa e un finale a sorpresa e avrete tra le mani un giallo come si deve.

Un altro punto a favore di questo romanzo è l’edizione, piccola e maneggevole, ma nel contempo rispettosa della nostra vista.

Polillo Editore da tempo si dedica alla ricerca e pubblicazione di gialli d’autore, dedicandosi in modo particolare ai classici del mistery inediti in Italia. Una serie di piccoli gioielli per gli amanti del genere. Il cofanetto con i primi 100 romanzi è una bellissima idea regalo per Natale.

 

 

Emanuele Cioglia si racconta a ChronicaLibri

Silvia Notarangelo
ROMA“Asia non esiste”, l’ultimo lavoro di Emanuele Cioglia, pubblicato da Arkadia, è un romanzo che non dà respiro. Le scene si susseguono rapide, le vittime si presentano e poi scompaiono all’improvviso, portate via da un male oscuro, inarrestabile e letale. Su tutto e tutti vigila lo sguardo, solo apparentemente distratto, del commissario Libero Solinas. Sarà lui, ancora una volta, a risolvere il caso con qualche grattacapo di troppo. Una storia sconvolgente, che emerge a poco a poco, con tutta la sua forza, grazie all’abilità dello scrittore che non lascia nulla al caso, compreso quel pizzico di buon senso finale, inaspettato quanto ragionevolmente comprensibile. ChronicaLibri ha intervistato l’autore.

Emanuele Cioglia, di professione fotografo. Come nasce la sua passione per la scrittura?

Affonda le radici dai primi confronti con la mia immaginazione. Da quando, in età prescolare, prendevo i fumetti di Topolino e gli eroi Marvel (v) –già diffusissimi negli anni ’70 – e mi inventavo le storie basandomi sulle illustrazioni. Eccola forse già delineata la fonte, l’origine del mio narrare partendo dalle immagini. In effetti, come discorreva Calvino nelle Lezioni Americane, basta osservare una striscia di vignette, le espressioni di un Paperino, per inventarsi dei racconti, innumerevoli, con inizi e finali molteplici, tanto più assurdi e inverosimili quanto più divertenti agli occhi dei bambini. Questa sensibilità per immagini, paradossalmente, diminuisce proprio quando ti danno gli strumenti per esprimerla. Cioè con l’insegnamento, che, purtroppo, a volte, coincide con una scolarizzazione che tendenzialmente uccide la fantasia. La fotografia e le lettere io le respiravo sin da bambino, essendo mio padre insegnante di Italiano e fotoreporter appassionato.

Come si è accostato al romanzo giallo e che cosa, secondo lei, ha in più rispetto agli altri generi narrativi?

Sono sempre stato un lettore onnivoro. Però costantemente a caccia della qualità letteraria, che per me coincide nella capacità di emozionare, indurre al pensiero, alla riflessione, trasportarmi nel mondo dell’autore come se quel mondo di pagine avesse tre dimensioni, quattro sensi, e anche una quintessenza. La lettura è un momento di meditazione, di conoscenza e di evasione, l’approccio al giallo/noir credo sia nato in me nelle fasi evasive. Ma siccome non sono mai riuscito ad evadere totalmente, forse per un senso di responsabilità innato nel mio carattere, eccomi a scrivere romanzi in cui distrazione e impegno ballano insieme un tango un po’ folle. Le origini della mia cultura di genere giallo risalgono al padre di tutti gli scrittori di thriller: Edgar Allan Poe. Il quale davvero sapeva generare suspance, trascinando in atmosfere oniriche gemmate dalle paure ancestrali comuni ad ogni individuo. Forse lui mi ha insegnato cosa significhi inoltrarsi nel gorgo-ingorgo della mente umana, dandomi lo stimolo per lasciare fluttuare la mia penna nei voli irrazionali, e nevrastenici, della perdita di controllo, della pazzia momentanea o definitiva. Conan Doyle invece rappresenta il contrappeso, il mio padrino letterario razionalizzante. M’aiutò ad ordinare le trame e, soprattutto, insegnarmi che: “Una volta eliminato l’impossibile, quello che resta, per improbabile che sia, dev’essere la verità“.
Ma per delineare anime e personaggi, tra le mie letture giovanili, non potevano mancare Dostoevskij, Gogol, Ceckov, Kafka, Zola e Ugo. Accostandomi ad autori più moderni devo certamente qualche suggestione anche a Carlo Emilio Gadda, Manuel Vasquez Montalban, e mi ha divertito lo stile comico di Sepulveda in Diario di un killer sentimentale. Il Montalbano di Camilleri, che lanciando, o rilanciando, uno stile di detective antinomico rispetto agli stereotipi imperanti, portando alla ribalta europea un personaggio sulla carta molto regionalistico, m’ha dato davvero uno stimolo creativo, facendomi comprendere quanto fosse fattibile attingere da realtà, culture, e luoghi, diversi dalle solite “location”, per inventare gialli in realtà più forti e originali di quelli standardizzati. Sono contro l’inscatolamento dei romanzi in generi letterari. Tuttavia credo che il giallo possa contenerli un po’ tutti. Ha certamente un’arma importantissima: il potere-dovere di narrare fatti inconsueti, che rompono la monotonia, che distraggono dalla routine. Questo però non basta, credo che una cifra narrativa affascinante, un modo di esprimersi accattivante, sia indispensabile a generare interesse nel lettore.

Ha un modello di riferimento quando scrive?

Direi di no. L’unico mio obiettivo e raccontare storie mettendo insieme paragrafi e capitoli che mi intrighino, partendo dalla constatazione, di poter intrigare lettori affini ai miei gusti, quindi, naturalmente, non pretendo di piacere a tutti. Certamente, e scivoliamo anche nella domanda successiva, in parecchie descrizioni m’immagino Solinas come una specie di Chinaski di Charles Bukoswki, un personaggio in perenne conflitto con tutti e ovviamente anche con se stesso, uno che vive la vita sempre all’opposizione, ma al quale, suo malgrado, spesse volte tocca andare a governare, nonostante l’indole anarchica.

Il commissario Libero Solinas, protagonista dei suoi ultimi romanzi, è rude, scorbutico eppure suscita immediata simpatia proprio per quei suoi modi di fare un po’discutibili e per quelle sue debolezze cui non intende rinunciare. Si è ispirato a qualcuno per il suo personaggio?

Solinas è rude, scorbutico, cinico, indolente, irascibile, nevrastenico, pigro, e fa quasi tutto controvoglia. Naturalmente è la sua imperfezione a renderlo simpatico. A differenza del succitato Chinaski, l’alterego letterario di Bukowski, Libero è meno categorico, non si compiace del suo caratteraccio, qualche volta prova perfino a correggerlo, e la sua misoginia è solo apparente, infondo non detesta le donne, non riesce a vederle come prede, anzi quasi non le vede, però le invidia. Rispetto a Montalbano è molto più incasinato, insicuro, ma anche i suoi casi sono più ‘cosmici’, quasi metafisici, pur rimanendo fortissimamente terreni e carnali. La mia ispirazione a tratteggiare Libero non deriva solo dalle letture, ma anche dal vissuto; nei bar di Cagliari degli anni ’70 e dei primi anni ’80 -spesso delle autentiche mescite di birra Ichnusa- potevi spesso imbatterti in personaggi alla Solinas, solo che di sicuro non facevano i commissari di polizia …

Leggendo il suo ultimo lavoro, “Asia non esiste”, ho pensato: come si riescono a tenere insieme i fili di una storia tanto complessa, così ricca di personaggi e di situazioni, senza commettere l’errore di risultare ripetitivi e prolissi?

Non è semplice, il segreto è l’esercizio. Conoscere quello che si scrive in forma quasi maniacale. Ripercorrere e riscrivere il lavoro sino al limite del conato. Essenzialmente mi confronto con trame complesse perché a mio modo sono complesso, apprezzo la semplicità ma detesto la superficialità … purtroppo ne vedo tantissima intorno a me. Essere complicati ha ovviamente le sue controindicazioni, quasi mai, sia nella vita che nella scrittura, arrivo a soluzioni seguendo la strada maestra.

La scelta di ambientare le avventure di Solinas nella sua terra, la Sardegna, è solo una casualità, legata ad una inevitabile familiarità con i luoghi, o è una scelta dettata da altro?

La consuetudine a dei luoghi e a delle atmosfere mi ha aiutato ad avere in Sardegna un ‘glossario di idee’ più vasto che altrove. Però sono fermamente convinto che Cagliari abbia una connotazione letteraria. Né troppo piccola, né troppo grande. Fatta di ghirigori barocchi, di balconcini spagnoli, ma anche di squadrate torri pisane, di angoli perennemente umidi di urina, di palazzi scrostati e di ville liberty, di edilizia popolare e di villette a schiera. Antica e orrendamente moderna insieme. Capace di frastornarti a folate di maestrale ma anche di scioglierti in un riverbero d’afa insostenibile. Un posto dove le relazioni umane si diradano come in tutti i grandi centri, dove la disoccupazione e la povertà si affrontano tenendo tutto dentro, senza clamori, senza esternare, quasi con rassegnazione, amplificando angosce e nequizie, un luogo dove per ribellarsi, per far traboccare la fatidica goccia, bisogna esplodere sibilando come una pentola a pressione.

L’attenzione ai particolari, alle sfumature, alle descrizioni è, sicuramente, uno dei punti di forza del suo stile. Quanto l’amore per la fotografia influisce sulle sue scelte stilistiche?

Diciamo che io per natura sono un introspettivo, la fotografia può renderti ancora più chiuso e visionario ma darti anche lo sguardo sul mondo, l’estroversione; il vero fotografo sa che occorre ordine compositivo, bisogna sezionare, catturare rettangoli di realtà, essere capaci di riempirli d’aspetti interessanti, possibilmente artistici, quelli che costituiscono il modo descrittivo della narrazione. Quando scrivo cerco di mettermi nei panni del lettore, oggigiorno molti romanzi sono impostati come sceneggiature. Tralasciano gli aspetti descrittivi, le sfumature, sacrificandoli al cosiddetto ritmo. Io penso invece che occorra -pur mantenendo degli equilibri tra rapidità e descrizione- orientare il lettore, guidarlo, renderlo partecipe delle atmosfere, senza tempestarlo di effluvi di minuziosità petulante, ma neanche lasciandolo orfano di ogni mappatura letteraria, solo in una stanza spoglia fatta soltanto di azione, dimenticandosi che un romanzo non può essere un sottotitolo ad un film che nessuno sta proiettando.

Può rivelarci se è già al lavoro per una nuova avventura del commissario o ha in cantiere qualche nuovo progetto?

Posso rivelarvi che sto lavorando a un nuovo Solinas, ma questa volta, guarda caso, il suo antagonista è un fotografo, almeno lo è all’inizio. Il suo mondo fotografico lo porta ad un’accumulazione di pixel, ad una pletora di inquadrature che lo assalgono appropriandosi di lui, o forse è lui a metabolizzarle ed espellerle con violenza … Una storia basata sul concetto di doppio, che diventa triplo e proiezione geometrica, partendo da un comportamento bipolare che travalica in metamorfosi psichica e fisica, nonché in una proliferazione di personalità incontrollabile e incontrollata. Una storia un po’ pirandelliana, un Uno, nessuno e centomila romanzato e reinterpretato nell’era della tecnologia.