“La spia” Ezra Pound è davvero il padre dei giovani neofascisti?

Marianna Abbate
ROMA – L’albero m’è penetrato nelle mani,
La sua linfa m’è ascesa nelle braccia,
L’albero m’è cresciuto nel seno
Profondo,
I rami spuntano da me come braccia.
Sei albero,
Sei muschio,
Sei violette trascorse dal vento –
Creatura – alta tanto – tu sei,
E tutto questo è follia al mondo.

 

Se non vi piace questa poesia, Ezra Pound per voi non è nessuno. Lo capisco. Eppure a me questa poesia piace; mi piace l’immagine dell’albero cresciuto in seno della linfa/sangue che scorre nelle braccia/rami. E’ buona poesia: è metafora dell’unione con la terra, con il mondo- dà un posto all’uomo.

Ma se non vi piace la poesia di Ezra Pound è davvero inutile che voi leggiate questo libro. Perché in fondo chi se ne frega se un pazzo americano qualunque era fascista o se faceva la spia per gli alleati attraverso messaggi cifrati.

Se invece credete come me che questa sia Poesia, cambia tutto. Ora vi interessa sapere perché. Volete sapere come sia possibile che un Poeta, uno che sa usare le parole con genialità, uno “che ci capisce” insomma, possa aver fatto un errore così grande e grottesco come aderire al fascismo. Perché un uomo capace di una così grande sensibilità, ha prodotto così tante e terribili invettive antisemite, e ha ammirato follemente un uomo- Mussolini-  che chiamare ignorante è un eufemismo bello e buono?

Forse per la stessa mania di grandezza dannunziana? Eppure Pound non vive il periodo d’oro, vive la caduta, la delusione, l’abbandono del popolo.

E qui la teoria del complotto trova il suo sfogo naturale: forse era tutto una finzione, forse Pound era una spia per gli alleati. Justo Navarro la presenta nel suo romanzo “La spia” edito da Voland.

Se pensate che sia stato un grande poeta, forse questa teoria potrà rasserenarvi.

 

“Il giardino delle bestie”: questa settimana torniamo a temere la storia

Marianna Abbate
ROMA – Non avete mai la sensazione che sulla II Guerra Mondiale sia stato già detto tutto? Credetemi, io ce l’ho ogni volta che guardo la copertina di un nuovo libro sull’argomento- o che accendo la televisione per vedere un film sul tema. Eppure, ogni volta mi devo ricredere. La seconda guerra mondiale è un pozzo inesauribile di nefandezze, orrori ed ingiustizie- ma anche atti eroici, sconvolgimenti e ritrovamenti.

E così, guardando con timore il tomo di 600 pagine che mi è stato affidato, ho pensato: cosa ci potrà mai essere di nuovo- di sconosciuto in un libro così grosso?

L’autore di “Il giardino delle bestie” edito da Neri Pozza nella collana Bloom, ci presenta una storia vera, un tantino romanzata per rendere la lettura più scorrevole. Il protagonista collettivo sono i membri della famiglia Dodd, parenti di un distinto professore americano, che inaspettatamente si ritrova- per volere dello stesso Roosevelt, ambasciatore a Berlino.

Così dalla loro vita felice di Chicago, si ritrovano a vivere una vita altrettanto felice, anche se un po’ nostalgica, a Berlino. Ignari della realtà passavano pomeriggi nei caffè assieme ai gendarmi delle SS e serate ai balli in compagnia di gente del taglio di Goebbels.

Ma una realtà così terribile può sfuggire solo ad un cieco- e ovviamente il professore tale non era. Dopo i terribili avvenimenti legati alla “Notte dei Lunghi Coltelli” l’ambasciatore, che non era mai stato molto diplomatico, si trovò ad essere persona non grata e dovette richiedere al proprio governo di tornare in patria.

Ovviamente l’America e il suo governo, al contrario del professor Dodd, rimase cieca più a lungo, senza riconoscere in modo univoco ed esplicito il pericolo rappresentato dal nazismo.

Ma dov’è la novità in questo romanzo? Perché vale la pena leggerlo? Non sappiamo forse tutto sui fatti antecedenti la guerra e sul periodo d’oro del nazismo in Germania?

Ricorderete tutti, quel macabro e terribile film di Rossellini che raccontava la temeraria ascesa e la disperata caduta della potente famiglia tedesca dei von Essenbeck. Il titolo era “La caduta degli dei”, e non poteva esserci titolo migliore per raccontare la storia di una famiglia che si sentiva immortale, priva di ogni regola e libera di distruggere tutto, persino se stessa.

Ora, questo film raccontava il punto di vista dei protagonisti, dei fautori della guerra. In questo romanzo abbiamo un punto di vista inedito- una sobria e abbastanza oggettiva, dal punto di vista storico, visione della realtà. Uno sguardo critico, privo di esaltazione ideologica- quasi distante.

Un punto di vista che coincide con il nostro. Un bel libro.

In viaggio con… Pino Bruno

 

Bentrovati all’appuntamento di “In viaggio con…”: la nuova rubrica di audiointerviste, che anima il nostro Canale Youtube.

Antonio Carnevale e Massimiliano Augieri, due navigati e affascinanti speaker radiofonici, intervistano per noi gli autori delle più importanti novità editoriali.

Questa settimana è ospite Pino Bruno con il suo “Dolce Stil Web. Le parole al tempo di Internet”.

Per ascoltare l’intervista cliccate su questo link:

Intervista a Pino Bruno su CHRONICAtube

Oppure accedete direttamente al Canale Youtube, dal video a destra. BUON ASCOLTO!

Pino Bruno – Dolce Stil Web. Le parole al tempo di Internet

Il web è il Nuovo Mondo di oggi, virtuale sì ma non più di tanto. Da oltre dieci anni le persone si incontrano in Rete e, come i primi mercanti che attraversavano mari e deserti, hanno cominciato a dialogare in una strana lingua. Uno slang che è un misto di inglese, spagnolo, informatica, neologismi, goliardia, strane faccine fatte di punteggiatura e icone animate. Con il tempo quell’idioma è diventato di uso comune ed è entrato a far parte del nostro vocabolario. Chattare, uploadare, downloadare, rippare, scaricare, blobbare, craccare. Siamo ormai abituati a frasi come: “Ti mando una mail con l’allegato. Lo zippo perché è ingombrante”. I giornali ci informano che il digital divide preoccupa i governi di tutto il mondo e che la polizia è sempre a caccia di cyberpedofili e responsabili di phishing. D’accordo, ma se volete che la gente si preoccupi, fate in modo che almeno capisca di cosa parlate! Questo libro è la bussola indispensabile a tutti i navigatori del web, a chi vuole capire e soprattutto non farsi ingannare da sedicenti guru, falsi profeti e imbonitori tecnologici. (Sperling&Kupfer, 2010, €16.00)

Non sai cosa regalare? Se entri da Tiffany non puoi sbagliare…

Marianna Abbate

ROMA – E’ estate e fa caldo. Capiamoci è il 6 Agosto, che ci state facendo davanti al computer? E le ferie quando ve le danno? Ah ok, tu parti domani e va bene, ma hai sentito che Rita rimane in ufficio per tutto il mese? Ho un libro da consigliare ad entrambe: sia a te che tra poco respirerai iodio sotto l’ombrellone, sia a quella poveraccia di Rita che passerà l’estate abbracciata al condizionatore: “Un regalo da Tiffany”, e come sapete un regalo così non si può rifiutare. Lo so, lo so: vi ho abituato ad altri livelli di letteratura- non faccio che consigliarvi libri di storia un tantinello pesanti- ma non vi preoccupate! La proposta del mattone tornerà la settimana prossima con un bel libro di 600 pagine…

Ma oggi mi voglio svagare e rivelarvi in gran segreto, quello che tutti voi sapete. “Aveva una casetta piccolina in Canadà?” No. Amo i romanzetti da 9.90 della Newton Compton! E se questa affermazione vi disgusta perché leggete solo libri dai 15 euro in su abbandonate questa recensione perché sto per fare un’altra rivelazione: vi racconterò la trama (o almeno parte di essa).

C’è un uomo, peraltro ricco, che entra da Tiffany con una donna. E già qui stiamo tutte rosicando, perché in 8 anni di storia il mio ragazzo non credo che sia mai entrato da Tiffany. Ma Lui fa di più: non si ferma mica al piano terra dove ci sono tutte quelle robacce d’argento con i cuoricini timbrati vendute a peso d’oro, Lui sale al primo piano. E che ci sta al primo piano? Esattamente quello che voi state immaginando: i diamanti e ovviamente, gli anelli di fidanzamento. In 8 anni di storia, vi giuro non ho mai visto nulla di simile neanche lontanamente.

Ecco questo non è un romanzo rosa qualunque: questo è un romanzo di fantascienza, che neanche Asimov ha mai osato tanto.

Ovviamente la storia si complica per svariati motivi: innanzitutto la donna che entra da Tiffany con Lui è sua figlia- e l’anello non è per lei ma per la fidanzata. Secondo poi c’è uno scambio di pacchetti tra primo e secondo piano quindi, in pratica Lui dopo avere speso migliaia di dollari esce dalla boutique con in mano una bustina contenente la misera ferraglia di cui sopra.

Ma questi sono particolari insignificanti se si pensa che nella nostra testa non rimarrà che l’immagine della luccicante vetrina di quel famosissimo negozio di Tiffany che faceva tanto felice Audrey. Che, ricordiamoci, era riuscita a farsi stringere nella mitica boutique un anellino trovato in un uovo di cioccolato (vergognati regista, vergognati: le potevi far avere almeno uno di quei braccialetti timbrati!).

Se aggiungiamo a tutto questo una copertina verde Tiffany che attirerà l’invidia di tutta la spiaggia potete stare tranquille: qualcuno ve lo chiederà in prestito e non sarete costrette a tenervelo a casa per sempre.

 

In viaggio con…Renato Nicolini

Bentrovati all’appuntamento di “In viaggio con…”: la nuova rubrica di audiointerviste, che anima il nostro Canale Youtube.

Antonio Carnevale e Massimiliano Augieri, due navigati e affascinanti speaker radiofonici, intervistano per noi gli autori delle più importanti novità editoriali.

Questa settimana è ospite Renato Nicolini con il suo “Estate Romana 1976-1985: un effimero lungo nove anni”.

Per ascoltare l’intervista cliccate su questo link:

Intervista a Renato Nicolini su CHRONICAtube

Oppure accedete direttamente al Canale Youtube, dal video a destra. BUON ASCOLTO!

Renato Nicolini – Estate Romana 1976-1985: un effimero lungo nove anni

Indimenticato Assessore alla Cultura di Roma negli anni che vanno dal 1977 al 1985, nella prima giunta comunista guidata da Argan, architetto e uomo di teatro, Nicolini è un intellettuale noto per il suo impegno politico e soprattutto per aver dato vita a un nuovo modello culturale per la capitale durante i tormentati anni di piombo. Con la sua opera totalmente originale, Nicolini compie il miracolo: coinvolgere la massa in grandi eventi, far partecipare importanti nomi internazionali a spettacoli collettivi, inaugurare l’epoca dei reading, delle notti animate in cui l’elemento dello stupore e dell’emozione diventa preponderante: in una parola, abbattere le barriere tra cultura popolare e cultura d’élite. Anni memorabili raccontati anni dopo in questo libro, scritto di getto nel 1991, che torna oggi in libreria con una lunga introduzione dell’autore e con la prefazione di Jack Lang, già Ministro della Cultura francese. (Città del S0le Edizioni, 2011, €15.00)

 

“Gli zoccoli di Steinbruck”- nonno raccontami la Storia

Marianna Abbate

ROMA – Non ho mai avuto un nonno. Un’ingiustizia che ho da sempre considerato gravissima- e questo sia un monito per la generazione abituata a produrre figli alle soglie degli ‘anta. Mi sarebbe piaciuto, un nonno dico. Magari uno con molte storie. Non che mi lamenti: mia nonna- l’unica che ho avuto, mi ha raccontato storie bellissime e terribili. e delle volte, la notte mi sembrava di vedere il suo cappellino in prima fila nella chiesa del paese.

Altre volte, invece, ho immaginato le file degli impiccati lungo le rotaie del treno nei pressi di Radom.

Perché è questa l’unica storia che mi avrebbe potuto raccontare mio nonno, e qualunque altro nonno nato nel secondo decennio del XX secolo.

Ed è questa la storia che racconta Pompilio Trinchieri. Gli zoccoli di Steinbruck edito da Marlin, nella collana Filo Spinato. “Peripezie di un bersagliere tra guerra e lager”, recita il sottotitolo. Ma secondo me la parola peripezie è troppo viva, inadatta ai tempi del racconto. Avrei preferito la parola racconto, appunto, oppure storie- più pacato nel senso. Peripezie è quasi un sinonimo per avventure, mi fa pensare a Tom Sawyer. Ma qui il migliore amico non è Huck, ma l’arma e la fame.

I ricordi riaffiorano, questo è evidente, dopo molto tempo. Il testo non cerca di avere la struttura del diario, accetta la sua funzione di memorie. Lo fa attraverso l’utilizzo di un’alternanza di tempi tra passato remoto, imperfetto e presente che è tipico del racconto vivo nella mente ma lontano nel tempo.

Ci sono molti fermo immagine, spesso racconti nel racconto, che fanno raggelare. Sto pensando al bambino della prigioniera, lanciato in aria e poi trafitto da mille spari come nel tiro a volo. O a quella cella 2 metri per 1 e mezzo dove ci si stava in sette e si beveva dallo scarico.

Sono immagini di QUELLA orribile guerra. Innominabile, terribile guerra- che poi di colpo è finita.

Servirebbe a tutti un nonno così.

 

Sapete fare il gelato? Una ricetta bonus in un racconto tutto da scoprire.

ROMA – Una grande amicizia, un grande sogno, una grande impresa. è questo il senso di Grom. Storia di un’amicizia, qualche gelato e molti fiori, il racconto di una delle più incredibili storie italiane degli ultimi anni. è l’avventura di due ragazzi, un manager e un enologo, che inseguendo un sogno allo stesso tempo semplice e rivoluzionario – fare il gelato più buono del mondo – partono da un negozietto di 25 metri quadrati a Torino e, in pochissimi anni, selezionando le migliori materie prime nei cinque continenti, rinunciando a utilizzare additivi e coltivando la frutta biologica nell’azienda agricola Mura Mura, creano un gelato di altissima qualità che li impone come marchio di eccellenza sulla scena del food internazionale. Un’avventura raccontata in prima persona, con una scrittura giovane e ironica, come giovani e spiritosi sono Federico (Grom) e Guido (Martinetti), i due protagonisti. Una storia sorprendente e affascinante, come la strada che da quel primo negozietto di Torino li ha portati fino a Malibu, New York, Osaka, Parigi e Tokyo. Fresca e gustosa, come i sapori di un gelato unico e indimenticabile.

Federico Grom e Guido Martinetti, 39 e 37 anni, sono nati e hanno studiato a Torino. Manager il primo, enologo il secondo, hanno dato vita nel 2003 a Grom – il gelato come una volta. Sono un po’ matti e, a parte questo libro e qualche ricetta, non hanno mai scritto nulla… ma fanno un ottimo gelato! (Grom. Storia di un’amicizia, qualche gelato e…, Bompiani, 2012, €17.50)

 

VerbErrando: Così in terra – l’out of the blue del 2012

Veruska Armonioso
ROMA – “Sai cosa vorrei? Rubare il freddo dell’inverno, accussì, quando viene lo scirocco, avrei sempre un po’ di sbrizzìo di vento sulla pelle e sul cuore. Di una storia, invece, vorrei ricordare solo gli attimi prima. L’attimo prima di pescare il pesce, l’attimo prima di toccare le mìnne, l’attimo prima di assaggiare l’arancia. Poi, se un giorno imparo a scrivere, mi inventerei una storia tutta di “non”: quando non sono partito, non ti ho salutato, non sono andato altrove, non lavoravo sotto un padrone e quando non ci fu la festa di piazza, non ballai con una femmina troppo bona, non ci posai un bacio in bocca lungo e sapurìto e lei non mi disse subito: baciami ancora, amore mio.”

Ci sono sapori di tanto tempo fa, quando avevi ancora qualcuno da amare in modo viscerale e semplice, senza sofisticazioni, particolari attenzioni, forzature, estetica. Quel qualcuno da amare aveva il sapore di vecchio, di trascorso, di liso, ma liso per usura, non per strappo. Se non perdi non sai cosa vuol dire restare senza, e se perdi impari cosa vuol dire ricordare. Tra i ricordi di chi c’era prima e l’intuizione di chi arriverà, ci sei tu. Con i tuoi sogni, le aspettative, i progetti, i sentimenti. Tra i ricordi di chi c’era prima e chi arriverà c’e il tuo presente.
Ho appena terminato il mio presente con lui che è diventato, da qualche minuto, chi c’era prima. Ora ci sono io. “Così in terra” di Davide Enia è il mio lui,  il mio out of the blue letterario di quest’anno.

Quando mi chiedono come editor e agente letterario con che criterio scelga i romanzi su cui lavorare, io rispondo sempre allo stesso modo.
Un libro deve possedere il mistero degli dei, la percezione che contenga una rivelazione dentro di sé a rilascio lento.
Poi, deve possedere una grande umiltà linguistica, perché la sofisticazione non deve mai essere artifizio stilistico, lo scrittore è come un pugile, se ti misuri con qualcuno devi sfoderare tutte le tue armi, ma fuori dal ring “non devi mai approfittare della tua superiorità, sennò sei un uomo di merda”.
In fine, deve essere universale, vale a dire giusto per tutti, senza nicchie, caste, gruppi o elite di preferenza. Arrivare a quante più persone possibili parlando a tutti, questa è la missione: “le parole servono sempre, basta che siano esatte. Quando un messaggio non passa è perché il vocabolario dell’interlocutore non contempla quelle parole”.

“Così in terra” è una lettura a più livelli, a strati: più a fondo vai più significati trovi, proprio come accade nella vita vera, in cui gli eventi puoi leggerli in modi diversi, a piani diversi a seconda degli occhi con cui li guardi. Ché poi la letteratura e, prima ancora la poesia, sono proprio questo, simulazioni di vita, di altre vite possibili, sognate, desiderate, odiate, temute, ma vite, pur sempre vite.
“Nicola disse che lui sarebbe rimasto lì, avrebbe continuato a curare le piante della campagna, non avrebbe smesso di affondare le mani nella terra e, quando le cose non sarebbero andate come è giusto, amen, avrebbe ricordato i momenti felici. Lui, i libri non li aveva letti. Lui conosceva solo il senso del proprio lavoro, che stava tutto lì, nell’osservare il campo seminato sapendo che non oggi, non domani, ma tra un po’, se curale e coltivate, le piante sarebbero fiorite e avrebbero dato frutti. E allora, al tramonto, slacciarsi le scarpe, lavarsi le mani, riposarsi sulla sedia buona e versarsi il vino per berlo con lentezza. Si chinò a raccogliere una pianta grassa. Era così piccola che il vaso stava tutto nel palmo.
< Te la regalo. Questa, ti fiorisce tra ventidue anni. E’ forte, ti assomiglia, non ha bisogno di niente, manco dell’acqua, un sorso ogni tre settimana d’estate e, se la curi bene, ecco.>
Ventidue anni per un germoglio. Obbligava a osservare oltre l’orizzonte degli eventi. Rosario la accarezzò. La pianta non lo punse”… è così che una pianta grassa che germoglierà tra ventidue anni diventa una fede nuziale, un sabato pomeriggio a pulire casa con la tua persona un rito privato di condivisione di intimità e un libro da leggere un’occasione.
Allora, quando mi chiedono come editor e agente letterario con che criterio scelga i romanzi su cui lavorare, io rispondo sempre allo stesso modo: il libro che scelgo deve essere un’occasione.
“Così in terra” lo è, in ogni riga, di ogni pagina.

Tre uomini, tre vite di maschi siciliani che non potrebbero essere altro se non siciliani, perché orgogliosi  e spavaldi, autentici e disincantati, prodotto di eccellenza di quella terra che ha visto cose che nel resto dell’Italia nemmeno immaginiamo. Solo che “Così in terra” non te lo fa pesare, non te la fa pesare. Non ti fa pesare niente. Non i cinquant’anni di storia lungo i quali ti fa cavalcare, non la prigionia in Africa, non la fame, non le bombe della Mafia, non la morte. Ti fa godere, dell’atro che trovi, di tutto quello che è Palermo, da cinquant’anni fa al 1992. Il dolce delle arance, la dedizione del pugilato, il mistero incantato delle puttane, il rispetto per il più forte e poi la concretezza dell’amicizia, senza viatici, senza dolcificanti: se c’è da picchiare, si picchia, se c’è da ammazzare, si ammazza, se c’è da abbracciare si abbraccia.
L’amicizia è la bandiera di questo romanzo, nelle sua forma migliore, quella della solidarietà, dell’onestà intellettuale, della semplicità delle intenzioni, quella della condivisione:
<“Sai cosa, Poeta? Dovremmo parlare a colori. Risparmieremmo parole e uno dal colore capirebbe tutto. Basterebbe conoscere i colori dei sentimenti.>
<Non è una cattiva idea.>
<E’ colorata. Comunque, Poeta, stai tranquillo, ci sono io con te.>
<Sul ring però i pugni li piglio tutti io.>
<Non è vero.>
<Come no?>
<Tu prendi sul corpo i pugni di carne, noi quelli invisibili all’anima. […] i pugni invisibili colpiscono diritto al cuore e fanno male uguale.>”
Quel senso supremo di amore tra esseri umani, che è essenza di tutte le relazioni. Quel senso di comunione che rende un’unione vera e indissolubile:
“<Poeta, come si scrive una poesia?>
<Una parola dopo l’altra.>
<E di cosa c’è bisogno?>
<Una penna e un foglio bianco.>
<Ma le ascrivi più tardi una poesia pure per me? Se mia madre era ancora viva, stasera era felice se tu vincevi perché significava che pure io ero contento.>
<Hai sbagliato tutti i tempi, Gerruso.>
<Non importa, la felicità va oltre il tempo. Per questo, io, ora, sono un po’ felice perché tra un po’, forse, c’è la nostra vittoria.>
<Nostra?>
<Sì, il tuo soprannome l’ho inventato io. Te la posso chiedere un’ultima cosa e poi basta?>
<Amunì.>
<Vinci anche per me, stasera, ne ho bisogno.>

Vent’anni fa, alla fine di questo libro, muore Borsellino. Questa settimana appena trascorsa ci ha visti, ancora una volta, in silenzio. Non un silenzio contemplativo, non un silenzio partecipe. Un silenzio di dimenticanza. Falcone ce lo ricordiamo perché è a maggio, e a maggio si è ancora un po’ (ma giusto un po’) più svegli, ma a fine luglio, signori, a fine luglio tra poco arrivano le vacanze, e poi c’è la stanchezza e poi ci sono i bimbi a casa da gestire perché le scuole sono chiuse e poi ci sono le sagre di paese e il mare nel fine settimana. Va bene non interrompere la vita, ma vent’anni sono tanta roba, signori. Vent’anni di silenzio, poi, sono ancora più che tanta roba. Vent’anni di silenzio sono troppi.
“Le guerra prima risiedeva nei racconti dei sopravvissuti, in quelle memorie tramandate la domenica pomeriggio dopo pranzo. Gli sventramenti ancora visibili nel centro della città ricordavano che sì, una guerra c’era stata, aveva distrutto ma era finita. L’esplosione di una bomba, invece, riconsegnò la guerra al presente. Fu il punto di non ritorno, assolutamente non paragonabile agli spari delle pistole. Non si poteva più far finta di niente. La quotidianità fu stravolta, così come la città, che subì una militarizzazione massiccia. […] Cambiare strada per un’intuizione improvvisa, diffidare delle facce estranee, provare ansia quando sotto casa si trovava parcheggiata un’automobile mai veduta prima. Le sirene delle voltanti risuonavano dappertutto, a ogni ora del giorno, a ogni ora della notte. Nessuna aveva cuore di dirlo, ma si attendevano nuovi attentati di Mafia. Ci volle solo un mese e mezzo perché la profezia si compisse. Un’altra bomba scoppiò, eppure Palermo non si svuotava. L’unica certezza di quella guerra fu che uscirne illesi era di per sé un fatto meritevole di lode.”

E così, questo è il mio consiglio di lettura per i prossimi giorni. Uno dei libri che ha maggiormente contribuito alla costruzione della mia coscienza. Scritto da un uomo che sa che “non vince mai il pugile con il braccio più forte, ma quello più veloce, nel corpo e nel pensiero, perché possiede un vocabolario del movimento più ricco”.
Uso Davide Enia per ricordare Borsellino, non perché sia un libro sulla Mafia, ma perché sono felice che questa rivelazione sia avvenuta proprio in questi giorni di memoria, a darmi strumenti nuovi per capire una gente, quella siciliana, che non uguale a nessun’altra. Mi vengono alla mente altri amici scrittori, come Barbara Ottaviani, amici scrittori siciliani che portano dentro di loro questa saggezza ancestrale, questa centratura emotiva, questa eredità genetica che li rende fieri e unici, lucenti e profetici. Le loro parole sono preziose perché scelte, loro sanno cosa vuol dire scegliere e lo fanno ogni giorno della loro vita. E allora lascio a Davide Enia il finale di questo editoriale, il suo punto di vista sulle parole, attraverso… parole.
“Con il tempo avrei capito come, nella comunicazione tra esseri umani, il senso transiti soltanto al livello minimo attraverso le parole. Nel sesso, per esempio, i corpi raccontano più e meglio: le smorfie, l’eccitamento, il gusto, i gemiti, il sudore. Oppure quando termina un rapporto. Pochissime esperienze sono così narrative come il silenzio tra due persone che si sono appena lasciate. Eppure nella certificazione dell’abbandono, finalmente ci si ascolta a vicenda, in un silenzio pure perché assoluto. E si comprende che l’abisso rappresentato dall’altro non è masi stato esplorato.”

 

“Se c’è una cosa che la Mafia non ha, ed è quello che prima o poi la fotterà, è la capacità di capire la bellezza.”
Davide Enia, Così in terra. Dalai editore, 2012

“Amy. Mia figlia”

Giulia Siena
ROMA
“Le canzoni sono straordinarie, ma dovette attraversare l’inferno per poterle comporre”. Sono le parole di Mitch Winehouse in “Amy. Mia figlia”, il libro scritto dal padre della celebre star inglese morta il 23 luglio 2011. Il volume, pubblicato in Italia da Bompiani, è il racconto intenso, straziante, tenero e sofferto di 27 anni di vita di un’artista geniale.

Oggi, a un anno esatto dalla scomparsa di Amy, su queste pagine trova spazio un libro che parla di una bambina vanitosa, un’osservatrice attenta, una star con le sue virtù e le sue paure, una donna che si è lasciata rovinare per amore e che, nonostante l’amore, non è riuscita a rialzarsi.
Mitch Winehouse parte dell’infanzia di Amy, dalla passione di entrambi per la musica e per le canzoni di Sinatra; racconta la semplicità, la testardaggine e la determinazione di quella bambina che amava cantare, acconciarsi con i vestiti e le collane della nonna, riuscendo a fare sembrare attente decorazioni retrò. Amy era così, era una ribelle che amava la sua famiglia e le tradizioni ebraiche, era una ragazza curiosa, esplosiva e ironica.
Amy, all’inizio degli anni duemila, sapeva quello che voleva: cantare e diventare famosa. Frequentò diverse scuole, allenò la sua voce e compose in musica con la sua chitarra le frasi che raccoglieva sul suo taccuino per gli appunti. La sua musica si fa vita e nel 2003 pubblica Frank. Ma Amy per far conoscere la sua arte doveva affrontare il pubblico; “Amy non riuscì mai a capire come tener testa alla sua paura del palco. Anche se non si sentiva male fisicamente, come accade ad alcuni artisti, a volte aveva bisogno di bere qualcosa prima di salire sul palco”. L’insicurezza, il timore di affrontare chi le stava di fronte, accompagnava l’artista quando doveva salire sul palco; allora doveva bere qualcosa, all’inizio bastava qualche drink, poi, con gli anni, divenne alcolismo.

 

A peggiorare la situazione arrivò Black, l’ossessione di Amy. Black era il ragazzo scanzonato per il quale Amy perse la testa. Nel 2006 si conobbero e Amy si lasciò trascinare nella tossicodipendenza. A questo punto la vita di Mitch non è più solo quella di un padre. Mitch da amico e confidente di Amy ne diventa anche l’angelo custode, correndo al capezzale della figlia ogni volta che un collasso o una ricaduta portavano Amy a essere l’ombra della grande donna che era. Il 2007 è l’anno decisivo per Amy: esce Back to Black, l’album che le fa scalare le classifiche mondiali e grazie al quale ottiene cinque Grammy Awards. Ma Back to Black è una dichiarazione d’amore a suo marito, Black che sposa lo stesso anno e dal quale divorzierà nel 2009. A Black, a l’uomo che secondo Mitch sarà la causa di tutti i problemi di Amy, è dedicato un album nel quale l’artista esprime anche tutto il suo dolore, la sua sofferenza e la sua voglia di uscire dalla trappola letale che è la tossicodipendenza. Sono questi gli anni più bui di Amy Winehouse come donna, ma la con l’amore della sua famiglia, l’affetto degli amici e la sua determinazione riuscirà a uscire dalla tossicodipendenza a fine del 2008. Ma la strada è ancora in salita. Nel 2010 Amy sembra rinascere: suona, compone, ama nuovamente, ha tanti progetti e vuole vivere. Nella notte del 23 luglio 2011 la sua vita si arresta e la sua voce tace. Forse un collasso per abuso di alcool.

 

“Amy. Mia figlia” è un libro scritto in soli quattro mesi, un atto di amore frutto di un diario che Mitch tiene dal 2007 e dove appunta i tanti giorni d’inferno di una tossicodipendente, i grandi momenti di gioia di un’artista geniale e le tante richieste di aiuto di una figlia in difficoltà. Un libro su Amy, una biografia intensa per raccontare al mondo che oltre alle debolezze Amy aveva una grande forza e la cosa che amava di più era la sua musica. Ora ci resta la sua voce.

In viaggio con… Alessandro Aresu

ROMA – Bentrovati all’appuntamento di “In viaggio con…”: la nuova rubrica di audiointerviste, che anima il nostro Canale Youtube.

Antonio Carnevale e Massimiliano Augieri, due navigati e affascinanti speaker radiofonici, intervistano per noi gli autori delle più importanti novità editoriali.

Questa settimana è ospite Alessandro Aresu con il suo successo “Generazione Bim Bum Bam”

Per ascoltare l’intervista cliccate su questo link:

Intervista a Alessandro Aresu su CHRONICAtube

Oppure accedete direttamente al Canale Youtube, dal video a destra. BUON ASCOLTO!

 

Alessandro Aresu

Generazione Bim Bum Bam

Perché gli italiani passano il tempo a darsi degli imbecilli a vicenda? Per via di quello che è successo negli anni Ottanta.”
Alessandro Aresu è nato nel 1983, è cresciuto negli anni in cui la televisione commerciale è diventata un fenomeno di massa e i cartoni animati uno dei miti fondativi dei ragazzi di allora, oggi giovani adulti in una società gerontocratica che non solo offre poche possibilità di esprimere i loro talenti ma che, soprattutto, non riconosce o sottovaluta la “generazione Bim Bum Bam”. Nati tra il 1975 e il 1990, i suoi rappresentanti sono cresciuti con Uan e BatRoberto, mentre la vecchia Italia si dibatteva tra debito pubblico e stragi di Stato e la Cina cominciava il suo travolgente processo di trasformazione.
Per raccontare la storia di questa generazione ci sono due alternative: “Una è giocare e fare sul serio allo stesso tempo, e l’altra è pensare di essere un popolo di imbecilli e darci degli imbecilli a vicenda. La prima è divertente, la seconda inutile. Questo libro sceglie la prima strada per sbarazzarsi della seconda”. Domanda precisa: Cosa è successo nel 1981? Risposta precisa: Provano ad ammazzare Reagan ma anche (non secondario) Cristina D’avena e Alessandra Valeri Manera si incontrano a Bologna e nasce Bim Bum Bum.
Domanda precisa: Quanto duravano i discorsi di Aldo Moro?
Risposta precisa: Infinite sigle dei cartoni animati. Domanda precisa: Che cos’è la cei?
Risposta precisa: La Certezza di Essere Incapaci di risolvere qualunque problema.
Domanda precisa: Quanto duravano i discorsi di Deng Xiaoping nel 1992? Risposta precisa: Due sigle dei cartoni animati. Dopo, la gente doveva tornare al lavoro.
Domanda precisa: Se Bim Bum Bam è finito come facciamo a riprendere il suo spirito?
Risposta precisa: Internet.
Giocando attraverso 131 “domande e risposte precise “, Alessandro Aresu ci svela cos’è stato sul serio il “trentennio perduto”, dal 1981 a oggi, attraverso un racconto ricco di ironia pungente e leggerezza, ma anche capace di intuire acutamente le ragioni della nostra decadenza. Passando per Cristina D’Avena, Travaglio, la Prima Repubblica, la Cina, Lady Oscar, Berlusconi, Prodi, Max Pezzali, Scalfari, Mattei, Dagospia e tanti altri, scopriremo, giovani e meno giovani, che “molti dei nostri problemi derivano dal mancato riconoscimento dell’importanza della Generazione Bim Bum Bam. Immersi in questa sottovalutazione, dimentichiamo i sogni e, messi davanti alla realtà, non sappiamo che fare”.
Un libro che costruisce in maniera sorprendente l’immaginario, lo stile e l’universo culturale di una generazione mal rappresentata dalle analisi del censis: circa dieci milioni di giovani italiani, superficialmente bollati come “bamboccioni”, che rappresentano invece una collettività più viva che mai, oggi cruciale per il futuro del nostro paese. (Mondadori, 2012, € 17,00)