Feltrinelli: “Un mondo a tre zeri” di Muhammad Yunus

Daniela Distefano
CATANIA
“Ho dedicato la maggior parte della mia vita a lavorare per i più poveri, in particolare le donne, cercando di eliminare gli ostacoli che si trovano di fronte quando tentano di migliorare la propria condizione. La Banca Grameen – mediante lo strumento noto come microcredito, che ho avviato nel mio paese natale, il Bangladesh, nel 1976 – mette capitali a disposizione degli abitanti poveri dei villaggi, specialmente delle donne. Finora il microcredito ha liberato le capacità imprenditoriali di oltre 300 milioni di persone in tutto il mondo e le ha aiutate a spezzare le catene di povertà e sfruttamento che le imprigionavano”.
Muhammad Yunus è un nome divenuto iconico nel campo dell’economia, specialmente per le sue innovazioni “prodigiose” con le quali ha combattuto e combatte tuttora la piaga della povertà nel mondo.

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“Un mondo al bivio”, perché la Terra può e deve essere salvata

Silvia Notarangelo
ROMA – Il tempo sta per scadere, non si può più aspettare. È questa, in estrema sintesi, la conclusione a cui giunge il presidente dell’Earth Policy Institute, Lester R. Brown, nel suo nuovo, coraggioso volume dal titolo “Un mondo al bivio”, curato, per Edizioni Ambiente, da Gianfranco Bologna.
L’analisi è lucida e schietta. Non si tratta di diffondere vaghi allarmismi, la situazione della Terra è grave, necessita di attente riflessioni ma, soprattutto, di interventi immediati.
Rapido esaurimento delle risorse idriche, erosione del suolo con conseguente aumento della desertificazione, innalzamento delle temperature. Sono questi i principali problemi da affrontare.

Ed è, infatti, proprio l’imprevedibilità del clima, unita alla violenza con la quale si scatenano oggi alcuni devastanti fenomeni climatici, a determinare una seria emergenza alimentare, tale da prospettare preoccupanti scenari futuri. Non solo, è in costante aumento anche il numero di rifugiati ambientali, persone costrette ad abbandonare le proprie case perché colpite da lente o repentine catastrofi, e ciò non fa che aggravare la situazione, di per sé già precaria, di tutti quegli Stati prossimi al fallimento o in preda a pericolosi conflitti interni.
La proposta avanzata da Brown è chiara e si concretizza in un Piano B, una trasformazione radicale, da mettere subito in atto, nella consapevolezza che la domanda da porsi non è più “se” il nostro pianeta “andrà incontro ad un collasso” ma “quando” questo avverrà. Le misure da adottare sono diverse. Una netta riduzione delle emissioni di anidride carbonica, il ripristino dei sistemi naturali della Terra, la stabilizzazione della popolazione mondiale, l’eliminazione della povertà. Obiettivi importanti e ambiziosi, da raggiungere anche attraverso una revisione del sistema di tassazione e una ridefinizione del concetto di sicurezza. Non più guerre o rivolte armate, le nuove, incombenti minacce per la sicurezza del Pianeta si chiamano “cambiamenti climatici, scarsità d’acqua, fame e povertà”. Ed è alla risoluzione di questi problemi che occorre far fronte con un’adeguata ridistribuzione delle priorità fiscali.
Cambiare strada è possibile, la direzione indicata da Brown è quella di un progresso sostenibile. Bisogna, però, darsi subito da fare, perché la Terra può e deve essere salvata.

Come nutrire il pianeta nella nuova edizione di "State of the world"

Silvia Notarangelo

Roma – Economia sostenibile, attenzione alle risorse e ad una loro più equa distribuzione, sicurezza alimentare, sono questi alcuni dei temi affrontati da “State of the world 2011”. Il volume, curato da Gianfranco Bologna per Edizioni Ambiente, propone un ventaglio di possibili soluzioni per “cambiare il modo in cui coltiviamo ciò che mangiamo”, cercando di risolvere uno dei problemi più esecrabili, la fame nel mondo. E lo fa dedicando particolare attenzione al continente africano, in possesso, purtroppo, di tristi primati in materia. La premessa è chiara, il sistema attuale non funziona, o meglio, non è più in grado di rispondere alle esigenze di una popolazione mondiale in crescita costante. I numeri non mentono: un miliardo di affamati, quasi tredici milioni di bambini malnutriti nella sola Africa Subsahariana dove una percentuale del raccolto, che oscilla tra il 25 e il 50 per cento, non riesce neppure a raggiungere le tavole

E allora, cosa fare per garantire ciò che la comunità internazionale ha riconosciuto come un diritto al cibo? Innanzitutto, prevenire gli sprechi ed evitare il rapido deperimento dei raccolti. Può sembrare una banalità, ma si tratta del metodo più efficace ed economico: se recuperato, quel cibo consentirebbe non solo di sfamare i 2/3 della popolazione mondiale ma anche di scongiurare pericolosi impatti ambientali e sociali. Per sconfiggere la fame, però, questo non basta. Occorre investire nel settore agroalimentare, prendere le distanze da logiche di mercato contingenti, adottare strategie a lungo termine. Sarebbe, pertanto, opportuno favorire una diversificazione delle colture e una più attenta gestione delle acque piovane, assicurare un’adeguata formazione agli agricoltori di domani, abbandonare forme puramente assistenziali a vantaggio di aiuti che sappiano promuovere un’economia locale. E ancora, salvaguardare le tradizioni, tutelare la biodiversità, incoraggiare il consumo di prodotti del luogo nella convinzione di riuscire, così, a rafforzare la coesione all’interno delle comunità. 
Da ultimo, ma non per questo meno importante, valorizzare il ruolo delle donne attraverso specifiche politiche di aiuto e di sostegno, garantendo loro pari opportunità nell’accesso, ad esempio, a forme di credito e programmi di divulgazione.
Piccoli successi, esperienze positive da prendere ad esempio non mancano, basta citare il caso dei forni solari, adottati in alcune località del Senegal, o del burro di Karité, una produzione tutta al femminile capace di imporsi sul mercato mondiale.

Forse si potrebbe partire da qui, da questi ancora sporadici tentativi, per affermare un nuovo modello di sviluppo, in cui l’agricoltura rivesta un ruolo determinante grazie alla sua capacità di “mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici, ridurre le patologie legate all’alimentazione e i costi connessi, creando posti di lavoro in un’economia globale stagnante”.