Negli “African graffiti” l’unicità d’un continente.

Giulio Gasperini
AOSTA – Non si può raccontare l’Africa se si prescinde dalle persone. Forse nessun altro continente, come l’Africa, affida ancora la sua storia a quelle singole degli individui: lì non esiste, almeno fin adesso, l’idea del destino comune, della meccanizzazione dei destini, dell’inviolabilità del futuro. Forse perché in Africa il futuro ha ben poca importanza in confronto all’adesso, a quello che sta accadendo nell’attimo in cui si parla. E anche perché le incognite, le variabili, non sono preventivate: l’uomo non può immaginarsi ogni casualità, ogni possibile futuro; perché allora doversene preoccupare?
“African graffiti”, la raccolta di storie di Marco Aime, edita da Stampa Alternativa – Nuovi Equilibri (2012), è tutto questo: una galleria di volti, di persone, di nomi precisi, di gesti identificabili. Marco Aime, nei suoi lunghi anni di studio come antropologo delle terre africane, sa che non si può parlare di futuro, per l’Africa, in termini universali, generici. È troppo grande, l’Africa; è troppo composita, varia, multiforme. L’unico modo per capire l’Africa è cercare di capirne i singoli frammenti, i tanti tasselli che la formano. L’Africa ancora non è collettività anonima, industriale, riconducibile a calcoli matematici ed economici. L’Africa è ancora un intreccio e un collegamento di comunità, di nuclei umani. Sicché l’umanità è qualcosa da cui non si può prescindere per descriverla e per capirla.
A cominciare dall’unicità dei cartelloni pubblicitari e delle insegne commerciali: “Sono dipinte a mano, ognuna con un suo stile, colori suoi. Al contrario delle nostre insegne standardizzate, che rimandano a marchi industriali, queste sono dei veri non-loghi, perché sono estremamente personalizzate. Non ce ne sono due uguali”. L’Africa è così, proprio come le sue insegna: è la terra per eccellenza del no-logo, della personalizzazione, dell’esclusività. È una terra dove ancora alcuni valori riescono a sopravvivere, dove ancora si ascolta e dove ancora l’uomo non è soggiogato al tempo incalzante e prepotente.
E la galleria di ritratti che Marco Aime ha messo diligentemente insieme ci conferma tale sensazione. Lui stesso è consapevole di quanto il suo lavoro possa apparire inutile e sterile, di quanto corrompa il pensiero e di quanto si rischi, insistendo, di perdere la meraviglia dagli occhi e dalla mente, non lasciandosi più sorprendere da nulla e attendendosi già tutto. Ma è anche consapevole, Marco Aime, che l’Africa sa sempre come riprendersi la rivincita e come offrire sempre un nuovo motivo, un nuovo gesto, un nuovo sguardo, per far sorprendere, per rimanere ancora una volta senza fiato, e chiedersi qual è quel potere che incatena l’uomo. Che fa stancare dell’Africa il secondo giorno che vi si sbarca ma che la fa mancare, perdutamente, già al secondo giorno del rientro in Italia.

“Verdi colline d’Africa”: vanità di vanità.

Giulio Gasperini
AOSTA – A Hemingway, si sa, garbavano i fucili; a tal punto da usarne uno per spararsi e decidere di morire, nel 1961. Fino a qualche anno prima li aveva usati soprattutto per l’altra sua grande passione: la caccia, quella grossa. E in “Verdi colline d’Africa”, del 1935, codeste sue passioni sono esaltate come in nessun’altra sua opera.
Piuttosto anomala nel panorama della sua produzione, “Verdi colline d’Africa” è la descrizione del primo safari a cui lo scrittore partecipò, nel 1933, nella regione del Lago Manyara, ora Tanzania. Ernest amò l’Africa; quella stessa così magistralmente narrata da Karen Blixen, alla quale pare proprio il vecchio Hemingway aver soffiato il premio Nobel, nel 1954 (e alla quale il cavaliere Ernest si sentì in dovere di riconoscerne, almeno idealmente, il merito). L’Africa fu ispiratrice anche di altri testi hemingwayani, soprattutto racconti brevi, ma questo “Verdi colline d’Africa”, nonostante continue stroncature da parte di critici e altri scrittori, è degno di menzione, perché appare subito diverso, nel risultato, da quelli che sarebbero potuti essere gli intenti. Non è, infatti, un resoconto: ben poco ha di cronaca e di narrazione diaristica; pare piuttosto un’esercizio di analisi, quasi psicoterapico, dove ogni ritratto che ne è tratteggiato risente delle intermittenze del cuore e dove ogni episodio, ogni singolo avvenimento, rappresenta ben più della pura e semplice comprensione letterale.
Il buon vecchio Ernest si sente frustrato perché gli altri caccian bestie più grosse delle sue; perché l’amico (o presunto tale) porta al campo delle corna che son più grosse di quelle sue. Ebbene, Freud si sarebbe divertito da pazzi leggendo questo resoconto di battute di caccia grossa, esplorando il non-detto, il sottaciuto e le pretese palesi dell’irrazionale. E finanche noi un po’ ci divertiamo; e ne (sor)ridiamo, persino un tantino compassionevoli. Perché il buon vecchio Ernest ci credeva davvero, in quel che faceva: nell’energia che spendeva a furia di far meglio dell’altro, di cacciare qualcosa di meglio, di sparare proprio nel punto giusto. E che terribile giorno fu quello nel quale perse la bestia già colpita ma più lesta o semplicemente più furba, che sparì e non si fece più ritrovare, preferendo magari morire nella dignità della solitudine.
Sarebbe troppo facile dire ‘povere bestie’! No, qua c’è molto ma molto di più. C’è la confessione d’un uomo che, novello Sant’Agostino, non trova di meglio, per, appunto, confessarsi, che sterminare una buona porzione di fauna africana. Eran tempi in cui si poteva fare. E adesso se ne pagan le conseguenze; sicché le colline in Africa saran pure verdi, però dopo che c’è passato Hemingway son sicuramente un po’ più disabitate.

La forza di raccontare

Giulia Siena
ROMA
– “Se non puoi aggiungere giorni alla vita prova ad aggiungere vita ai giorni.” Questo è quello che si ripete Anne-Dauphine da quando il primo marzo, nel giorno del secondo compleanno di Thais, scopre che sua figlia è malata. Thais, la sua bambina, presto sarà portata via da una malattia. Il tiranno tanto temuto si chiama Leucodistrofica metacromatica. Il nome le fa paura, ma forse, a farle più paura sono quei piccoli ed esitanti passi sulla sabbia bagnata lasciati da Thais sulle spiagge della Bretagana. Comincia così la storia di una madre che racconta con amore e minuzia la malattia genetica di sua figlia.
“Due piccoli passi sulla sabbia bagnata” è il primo libro di Anne-Dauphine Julliand, giornalista e scrittrice francese, che nel romanzo di Bompiani racconta due anni della propria vita: sfide, dolori e scommesse.

Il giorno del secondo compleanno di sua figlia, Anne-Dauphine scopre che la bambina, con il passare del tempo, non potrà più correre, sorridere e parlare. Con il tempo i movimenti di Thais diventeranno più lenti, sempre più lenti, fino a spegnersi. L’allegria e la curiosità della bambina saranno annientati da questo mostro oscuro, da questa lenta e inesorabile coltre che offuscherà le giornate della sua famiglia. E cosa ne sarà del bambino che ora porta in grembo Anne-Dauphine? La nuova gravidanza, quel piccolo germoglio che sta crescendo nel suo grembo, è minato dal mostro che ha catturato ora Thais? Domande, dubbi e perplessità accompagneranno i protagonisti di questa storia per due anni di vita, un periodo in cui la caparbia e l’amore hanno combattuto con forza il dolore.

“Due piccoli passi sulla sabbia bagnata” è il resoconto di come la vita possa essere riscritta al presente; vivendola ogni giorno, nonostante tutto.

“Lasciami andare”, perché io possa tornare

Marianna Abbate
ROMA  Una figlia che conosce solo suo padre. Una vita avvolta in un velo di maya che nasconde segreti e a volte scopre mezze verità. E’ questa la storia al centro del romanzo di Fulvia Degl’Innocenti “Lasciami andare”, pubblicato da Fanucci.

16 anni, già da soli bastano perché una ragazza abbia dei dubbi generici sull’esistenza propria, sul mondo e sui genitori. Ma quando ai timori adolescenziali si aggiungono alla misteriosa nostalgia materna e vengono stimolati da una sospetta e rabbiosa tristezza dell’unico genitore conosciuto, ecco che la macchina del cervello si accende. Bisogna sapere, bisogna scoprire. Il desiderio di conoscenza spinge oltre ogni confine, calpesta ogni lealtà. Diventa sete. Tanta è l’arsura da insinuare il più terribile dei sospetti.

Eleonora si ritrova tra carte, persone e storie che non le appartengono, ma che l’hanno vista protagonista ancora in fasce. E così, la ragazza accompagnata da un fedele amico, sulle tracce del proprio passato, come un detective, si trova in mezzo ad un mondo che non è il suo, a storie che non avrebbe dovuto sapere e a emozioni che non avrebbe dovuto mai provare. Ma solo toccando con mano questo mondo da cui era stata esclusa, potrà ritrovare la serenità, la fiducia e sentirsi un po’ meno sola.

Commovente questo romanzo, un racconto di formazione. Quello che mi ha colpito di più è l’atemporalità dei sentimenti, delle emozioni e dei sospetti. Una scrittura realistica e introspettiva, che mostra il quotidiano nella sua oggettività, spiegando nel contempo la relatività nella ricezione personale dello stesso.

 

 

“Novelle e impressioni” di Gino Racah

Silvia Notarangelo
ROMA – Personaggio di spicco del sionismo milanese delle origini, Gino Racah (1865-1911) dedicò la sua breve esistenza al tentativo di risvegliare le coscienze e le energie ebraiche che “tendevano a scomparire”, convinto della necessità di riscoprire e difendere la fede e le tradizioni giudaiche. A distanza di poco più di un secolo dalla sua morte, Carlo Tenuta ha curato, per Mucchi Editore, una raccolta di scritti dell’autore milanese da cui emerge prepotentemente tutta la sua passione, le sue convinzioni, ma anche una crescente preoccupazione per le sorti della sua religione.

Novelle e impressioni” raccoglie nove episodi di vita e di storia ebraica. Una narrazione scorrevole, lucida ma profondamente sentita, in cui le novelle sono solo uno spunto, un modo per affrontare temi e problematicità particolarmente care allo scrittore. Gli episodi, in parte a carattere autobiografico, seguono un ordine cronologico, un arco temporale che ha inizio in epoca precristiana, attraversa alcuni momenti salienti della storia fino ad arrivare ai primissimi anni del Novecento e proiettarsi in una Gerusalemme futura.
Protagonisti della quasi totalità dei racconti sono ebrei fieri delle loro origini, fedeli al proprio credo e alle tradizioni, disposti a tutto, anche a sacrificare la propria vita pur di non arrendersi e soccombere sotto i colpi di “energumeni fanatici o empi depravati”.
Con il passare del tempo, le insidie cambiano. Non sono più il cristianesimo o il paganesimo i nemici da cui tenersi lontani, non ci sono più guerre da combattere: la fede va salvaguardata da altri pericoli, forse meno evidenti ma altrettanto insidiosi.
Anche la riflessione di Racah cambia prospettiva, affrontando nuove, delicate questioni divenute cruciali: i matrimoni misti, la rinuncia o l’abbandono della fede ebraica, un persistente sentimento antisemita. È la “crescente assimilazione” una delle cause, secondo l’autore, di questa pericolosa deriva. Non sorprende, quindi, che protagonisti degli ultimi racconti siano una vecchia suocera, costretta a conservare in segreto la propria fede, e un padre che, al contrario, sembra riscoprire, l’importanza delle proprie origini. Ed è proprio a questo padre, tormentato dalla scelta della figlia di diventare monaca di clausura, che Racah affida un messaggio di speranza: “il lamentarsi senza agire è da sciocchi e da imbelli (…) insegnerò agli altri a mantenere raggiante e puro il focolare della famiglia israelitica”. Un impegno a cui l’autore ha dedicato tutta la vita.

“Donna di piacere”, nel dare e nell’avere.

Giulio Gasperini
AOSTA – Non c’è mai luogo migliore al mondo di quello al quale si sente di appartenere. E Chiara, dal nome che splende, scovò in un sogno al limite del mistico la casa nella quale rifugiarsi e compiersi. “Ella era stata una signora, divenne una puttana, incontrò un angelo”: ecco il percorso che Barbara Alberti, nel suo romanzo “Donna di piacere” (Mondadori, 1980), tratteggia per questa donna che si concede, ogni tanto, il peccato del misticismo.
Il bordello di Madame Goullon è un luogo di piaceri, dati e avuti. È un santuario dell’amore, dove gli uomini sanno che possono sempre trovare qualche soddisfazione ai loro desideri. Ma è anche un luogo dove le ragazze, dalla Nichilina a Elvira alla Damina, praticano il mestiere più antico del mondo non perché costrette, obbligate, ma solamente perché pure amanti. Non si tratta di un lavoro, per loro, ma di una missione, di una vocazione: rendere felici gli uomini, alleviare un po’ le loro sofferenze. Ovvio, qualcheduna sogna ancora il vero amore, il principe che finalmente un giorno giunga e le sposi, le conceda il diritto di far parte della società, di poter finalmente, anche loro, avere una parte di socialità. Ma il desiderio rimane quasi sempre vano; sicché il bordello è anche asilo, luogo di ricovero e di salvezza per ragazze che fuggono situazioni familiari insostenibili o che si muovo spinte da un bisogno irresistibile di altro. Così come fa Chiara.
Chiara era una signora, sposa di un uomo di nome Ottiero. La promessa tra loro era perfetta: “Staremo insieme, solo finché sarà perfetto”. Nessun altro obbligo, nessun’altra regola. Solo quella. Andò tutto bene, fino al giorno della rottura, quando la famiglia, “l’antico strumento di tortura”, cominciò a soffocare, a opacizzare l’orizzonte. Sant’Amara, di notte, le apparve e le disse di fuggire nella casa della sua visione: quel luogo era proprio il bordello di Madame Guillon, e lì Chiara si rifugiò, cominciando a fare la puttana per gioco, un po’ per passione, ma anche per curiosità. Ed è lì che incontrò un angelo, l’omosessuale Emilio, che lei aiutò ad affrancarsi dal morboso maschilismo del padre ma che non seppe trattenere a sé quando lui rischiò di correre incontro a morte certa. Ben presto Chiara si sentirà poco adatta al mestiere: non tutte riescono a essere delle brave puttane e c’è bisogno di passione, oltre che di perizia e bravura. Sa, però, con la stessa chiarezza di prospettive, che oramai non potrà mai lasciare quel luogo: il suo castello, il rifugio dei suoi giorni, la difesa contro le meschinità del mondo. E troverà un altro scopo nella sua vita…
È una favola, quella di Chiara, quella di tutte le ragazze di Madame Goullon. E Barbara Alberti la racconta con la sua solita grazia, con l’attenzione alle sfumature della natura femminile, con un’ironia garbata e mai volgare, con un sorriso sempre fiorito sulle labbra. Il genio dell’Alberti è incontenibile. La sua perizia nel saper essere leggera inarrivabile.

“Il corso innaturale delle cose”

Giulia Siena
ROMA
“La lingua felice è assolutamente semplice e brutale: era la ragazza più bella che avessi mai visto. La lingua felice forse è spiacevole: mi guardava come uno più vecchio.”
Ma nell’amore l’età non conta. Nella felicità l’amore non conta; o forse sì. Qualcosa forse, in fondo, conta. Quel divario di età che all’inizio attrae e impaurisce, eccita e rende inquieto Tomas si chiama amore impossibile. Prima di lui, prima di loro, in questo amore controverso e problematico, caddero i cuori di Abelardo ed Eloisa e, ancor prima, quelli dei poeti latini e di quelli greci. Ma in una notte di inizio anno, Tomas e Janna, si incontrano.

“Il corso innaturale delle cose” dell’autore norvegese Tomas Espedal e pubblicato da Ponte alle Grazie, è la visione poetica e sovversiva dell’amore e del lavoro da parte di un uomo che insegue controcorrente la felicità.
Nella scrittura di Espedal e nella storia del suo protagonista, la quotidianità e il lavoro in fabbrica, l’attrazione per Agnete e il matrimonio, l’esperienza in Guatemala e la figlia, il cambiamento, la giovinezza di Janna e l’abbandono sono piccole cicatrici che segnano. Sono impronte che suggeriscono un percorso controcorrente, il percorso di un uomo che trova il successo e lo perde, che cerca l’amore e gli sfugge, che rifugge la solitudine per poi rimanere solo, che assapora la felicità e ne trova l’essenza.

 

Poche volte l’oggettività dei sentimenti: la felicità – e la sua assenza – la vita e la sua negazione, il futuro e il suo aborto sono state così magistralmente descritte.

“Dimmi che c’entra l’uovo”, tragicomiche disavventure da precariato

Luigi Scarcelli
ROMA“Cerco di pensare a dove sto andando ma è come rispondere alla domanda sull’uovo e sul frigo…”

Finalista alla XXIII edizione del premio Calvino e segnalato dalla giuria per “la scrittura disinvolta e disinibita con cui affronta ironicamente e autoironicamente il tema della precarietà”, “Dimmi che c’entra l’uovo” edito da Del Vecchio Editore è l’opera del giovane scrittore Fabio Napoli. Classe 1986, l’autore incentra il suo romanzo sul tema della precarietà, tanto”caro” alla sua generazione.
L’uovo citato nel titolo è quello presente in una domanda di un test psico attitudinale che Roberto Milano, protagonista del romanzo, si trova a dover affrontare durante un colloquio di lavoro presso un fast-food. Roberto è un ragazzo appena reduce dalla perdita di tre dei quattro lavori precari con cui si sosteneva a Roma e anche il “colloquio dell’uovo” gli va male. Ormai disperato, Roberto forma assieme a Marianna e Riccardo, conosciuti poco dopo il colloquio al fast food, la Banda dei precari con l’intenzione di mettere a frutto delle rapine in bar della città e almeno avere i soldi  per andare avanti. Tra rapine, storie d’amore e di competizione, la banda si troverà davanti al colpo della vita: una rapina in un fast food che dovrebbe fruttare loro abbastanza soldi da stare tranquilli per un bel po’ di tempo.
Il libro ha una scrittura molto sciolta e piacevole e attraverso i personaggi principali del romanzo l’autore descrive bene le principali paure e situazioni che i giovani precari d’oggi si trovano ad affrontare: il pensare giorno per giorno e l’assenza di qualsiasi programma di vita, il rassegnarsi a lavori frustranti e malpagati, la ricerca di una soluzione facile e fuori dagli schemi. Molti ragazzi leggendo questo libro rivedranno qualcosa di loro in Roberto, Marianna o Riccardo, ma saranno anche alleggeriti dal modo “ironico e autoironico” con cui l’autore descrive simbolicamente le sfortune di una generazione e facendo buon viso a cattivo gioco forse non risolveranno i problemi ma l’animo, almeno quello, lo salveranno.

“Trambusto”, ultima chiamata per il futuro

Silvia Notarangelo
ROMATrambusto è una particolare prigione, un luogo sospeso tra passato e futuro da cui si può uscire redenti o definitivamente dannati. È l’ultima chance, il bivio per decidere che cosa fare della propria vita. Peccato, però, che non bastino insegnanti, laboratori, regole e vigilanza per superare il vero trambusto, il più difficile da affrontare, quello che ognuno si porta dentro, frutto di scelte, di esperienze, di sofferenza. È un ritratto lucido e disincantato quello che Luca Gallo delinea nel suo secondo romanzo “Prossima fermata Trambusto”, pubblicato da Intermezzi. Una storia tormentata e, al tempo stesso, di speranza, perché se è vero che a dominare sono spesso prepotenza e arroganza, è altrettanto vero che il giorno in cui scegliere da che parte stare arriva per tutti. Paradiso o inferno: è il momento di decidere anche per i tre giovani protagonisti del libro.

Tarek, abbandonato dalla madre, vive con lo zio da quando il padre di origine tunisina non c’è più. Lavora in un’agenzia di servizi per cani e gatti anche se non ha mai abbandonato il suo sogno di studiare. Chioma proviene da una famiglia agiata, crescendo ha scelto di ribellarsi ad una vita ovattata e ora ha un chiodo fisso nella testa: battere Orso, il suo rivale nelle consegne, per diventare il più veloce tra i facchini. Lama ha deciso di dire addio ad un passato turbolento e tornare ad essere Christian, un lavoratore serio ed affidabile, segretamente appassionato di arte.
Apparentemente i tre ragazzi non hanno nulla in comune, fatta eccezione per quell’intento, non nascosto, di provare a raddrizzare un’esistenza che non sembra finora essere stata particolarmente generosa. Talvolta, però, le buone intenzioni non sono sufficienti. Si infrangono o, più semplicemente, devono fare i conti con i tanti imprevisti della vita. Ed ecco, allora, che basta davvero poco per essere risucchiati in situazioni che non forniscono vie d’uscita se non quella di rassegnarsi a pagare un prezzo non dovuto.
Trambusto”, è qui che i tre accidentalmente si ritrovano. Un carcere a cielo aperto, un progetto destinato ad accogliere, su tram trasformati in piccoli appartamenti, tutti coloro che si sono resi autori di reati non gravi.
Durante la sua breve esistenza, nonostante schegge impazzite e tentativi di affondarlo, Trambusto si rivelerà molto di più di una semplice e inconsueta prigione. Sarà un’occasione per riflettere, per mettersi a nudo, per ricordare ciò che a volte si dimentica o si finge di dimenticare ma, soprattutto, sarà il momento giusto per fermarsi e capire che direzione stia prendendo la propria vita, se proceda nel verso desiderato o occorra dare una sterzata e ripartire da zero.
Tarek, Chioma e Lama torneranno alla “normalità” con desideri e propositi diversi, ma uniti da una stessa consapevolezza: Trambusto è stato solo un punto di partenza, l’ultima fermata prima del futuro.

“50 smagliature di Gina”: dalla trilogia alla sana ironia

 

Alessia Sità

ROMA – “Hai dei bellissimi piedi. Hai una bellissima voce. Hai una bellissima protesi sulla testa del femore. Quando una Gina invecchia, coi complimenti si è costretti a scavare il fondo del barile.”
Gina: s.f. Femmina della specie umana, dotata di grande capacità autocritica e di 50 mila smagliature di interiorità ed esteriorità. Insofferente a qualsiasi attività fisica – che non sia lo shopping sfrenato – e tragicamente affetta da diverse sindrome: da quella di Stendhal o dello stendino a quella della Piccola Fiammiferaia. Tratti particolari: la Gina, generalmente è accoppiata, sposata o impegnata con un esemplare gigiesco.
Quello appena tracciato non è che un sommario identikit della tipica Gina di cui parla Rossella Calabrò nel suo ultimo lavoro: “Cinquanta smagliature di Gina”, edito da Sperling&Kupfer. Dopo aver svelato ‘il lato b della trilogia più hot dell’anno’ (“50 sbavature di Gigio“), in cui descrive l’apparente ‘dramma’ di aver un Gigio per casa, la brillante blogger torna in libreria con una sana dose di umorismo per parlare – da Gina a Gina e da Gina a Gigio – di quelle piccole imperfezioni che ci accomunano e allo stesso tempo ci rendono uniche nel nostro universo femminile. Non è facile scegliere quale smagliatura raccontare, dal momento che sono una più divertente dell’altra; ma sappiate che per ognuna di esse esiste un’unica soluzione. Nessuna arma, infatti, è più potente dell’autoironia per combattere inestetismi, imperfezioni e dilemmi esistenziali. Quante volte ci perdiamo nei meandri della nostra mente, nel tentativo di decifrare quel presunto messaggio subliminale che si nasconde dietro un’osservazione esterna? Basta poco per mandarci in crisi. Per esempio, se un’amica ci trova un po’ stanche, noi pensiamo subito di essere terribilmente brutte. Se il nostro uomo riceve un banale sms, il nostro istinto deleterio ci porta subito alla conclusione che ha l’amante. Se la bilancia ci ‘annuncia’ di aver ‘guadagnato’ un etto in più, ecco che davanti a noi si palesa la triste e tragica (ir)realtà di essere ormai obese e senza alcuna speranza. Alt!!!! Fermiamoci. Ricomponiamoci e resettiamo queste assurde convinzioni.  La speranza c’è, e – come dice, anzi scrive Rossella Calabrò – ‘è l’ultima a smagliarsi’. Basta arrovellarsi la mente e il corpo per compiacere i nostri compagni o mariti. Proviamo a guardarci con altri occhi e a sorridere delle nostre smagliature, dei nostri rotolini di ciccia, delle nostre ‘braccia a pipistrello con conseguente onda d’urto’. Non esiste trattamento più efficace dell’autoironia per renderci irresistibili. In fondo, “quando con un uomo ci sentiamo libere di essere totalmente noi stesse, quello è l’uomo giusto”; e pazienza se il nostro Gigio continuerà a baciarci sugli occhi appena truccati… Ricordate: la perfezione non esiste, anzi come dice Rossella Calabrò: “La perfezione è un’immensa cazzata”.