“Sono tutto ciò che vedi attraverso i tuoi occhi” in un certo senso è un libro d’avventure

Flavio Pagano*
NAPOLI
Sono tutto ciò che vedi attraverso i tuoi occhi in un certo senso è un libro d’avventure. Avventure da terzo millennio, vissute davanti al pc, a incontrare un mondo ibrido che ci conduce in uno spazio infinito dove si perde il confine tra ciò che accade dentro e fuori di noi. Avventure virtuali dunque, per un libro di racconti brevi, asciutti. Piccole sculture evanescenti che viene voglia di rileggere, e che ogni volta sembrano mutare impercettibilmente il proprio senso, il proprio significato.
Storie e stili diversi, ma accomunate dal tema, o forse dovremmo dire dall’habitat, perché tutte appartengono a quel mondo che ci rende anfibi tra realtà e fantasia: i social network.
La realtà virtuale amplifica e contrae le distanze, e soprattutto offre un’illusione ingorda, alla quale è difficile resistere. Il virtuale è come la palude definitiva di Manganelli, è il “luogo nel quale è difficile entrare, ma impossibile uscire”. Il virtuale ci tenta con la promessa più seducente: travalicare la propria timidezza e aspirare a porgere di sé stessi una sorta di essenza. Mentre navighiamo su Internet facciamo in qualche modo un’esperienza ultraterrena, diventamo anime; tutto ciò che parla di noi, che ci mostra, è a sua volta privo di qualunque consistenza. Qui è la sua forza, qui la sua amarezza. Il virtuale è terreno scivoloso, ma anche questo – se da un lato rappresenta un’insidia – dall’altro consente di acquistare velocità prodigiose. Ci muoviamo, accadiamo, esistiamo, con la velocità del pensiero e il regno di tutto diventa l’attimo.
Sono tutto ciò che vedi attraverso i tuoi occhi è proprio questo: una celebrazione dell’attimo, nella sua onnipotenza e nella sua disperata vaghezza.
Incontri in chat, occasioni, relazioni, verità e bugie, tutte storie vere, realmente accadute insomma, ma che si snodano in un mondo etereo come quello degli dèi. Solo che qui i protagonisti sono piccoli dèi mortali, e danno vita a storie affascinanti e toccanti che, sfuggite alle maglie strette della realtà, scivolano rapide fino al cuore della vita, dove diventa impossibile capire che cosa faccia parte del nostro mondo interiore, e che cosa no. Dove memoria e fantasia si incontrano, e il presente si colora di emozioni tanto sfuggenti quanto forti, fino a diventare addirittura scabrose – persino immorali, viene voglia di dire, per quel loro essere così spregiudicatamente libere – rendendo vero ciò che siamo abituati a considerare finzione, e vice versa.
Emblematico, il brevissimo racconto di Sabato Cuomo, scrittore raffinato e artista poliedrico (protagonista, di recente, del fortunato Ageroland, pluripremiata opera cinematografica di Camilla Cerquetti). Suo il racconto che dà il titolo all’intero libro, e che, con leggerezza e forza straordinarie, come in un quadro di Chagall, riesce a trattenere in poche pagine tutto il mistero struggente dell’amore e della vita.

SONO TUTTO CIÒ CHE VEDI ATTRAVERSO I TUOI OCCHI
di Cinzia Luigia Cavallaro, Frator, Mariacristina Brettòne, Luisa Gavazza, Daniela Cologgi, Dino Izzo, Thierry59, R. R., Michele Delpiano, Susanna Buffa, Sabato Cuomo, Ermanno Cerutti
Editore: ARPANet
ISBN 978-88-7426-146-8
pp. 96, cm. 14,5×21
Prezzo di copertina: € 9,00

*Flavio Pagano è giornalista e scrittore, il suo ultimo libro è “Il campione innamorato”, scritto con Alessandro Cecchi Paone e pubblicato da Giunti.

Complicità e omertà in “Boschi & Bossoli”


Silvia Notarangelo

ROMA – Un generale affermato ma ancora in cerca di successo, un sindaco incapace di opporsi ai ricatti di presunti investitori, la mafia che, silenziosamente, riesce ad insediarsi in una regione del centro Italia, conosciuta “per la sua bellezza e tranquillità”.
Leggendo “Boschi & Bossoli”, il romanzo di Michael Gregorio, alias Michael Jacob e Daniela De Gregiorio (Edizioni Ambiente), non si può fare a meno di riflettere su come si attivino certi strani meccanismi e su cosa, in realtà, si nasconda dietro.
Voluta e architettata dal Generale Corsini, l’operazione Boschi & Bossoli scatta alle 5.15 dell’11 settembre, coinvolge intere formazioni di uomini e si conclude con l’arresto di una probabile cella terroristica. Tutti contenti dunque. I titoli di giornale si sprecano, la soddisfazione è alle stelle e, a trionfare, è ancora una volta lui, la “Leggenda”, il Generale Corsini. Anche in questo caso il suo intervento è stato determinante. Soprattutto dopo quei due proiettili che, indirizzati alla Presidentessa della Regione, avevano destato non poco scalpore.
Peccato solo che a finire in carcere siano quattro ragazzi innocenti, individuati tra i tanti che si schierano contro l’abusivismo edilizio e, accusati, per l’occasione, di essere pericolosi ecoterroristi che celano la propria vera identità dietro un apparente amore per la natura.
Nessuno potrà mai sospettare che i veri responsabili siano politici, professionisti, forze dell’ordine che si rendono complici del dilagare delle mafie, a volte per paura, spesso per puro interesse personale. E se anche chi si accorge che c’è qualcosa che non va preferisce tacere o viene volutamente messo in disparte, allora davvero certi meccanismi sono destinati a perpetuarsi, indisturbati, nel tempo.

 

“Gigin Zucchina e i cavoli a merenda”

ROMA – Nel tranquillo paese di Cipollonia le verdure vivono rilassate al sole. Zucchine, carote, basilico e pomodori si divertono e crescono fragranti fino a quando, un giorno, sparisce la Zucca Zuccolina. Chiara Patarino crea i protagonisti di “Gigin Zucchina e i cavoli a merenda” e ambienta la sua storia in un orto fatato, dove le verdure si divertono e si presentano in modo simpatico ai bambini. Pubblicato nella collana Il gusto in tasca della Carthusia Edizioni, il libro, con le illustrazioni di Elena Prette, racconta la storia di Gigin Zucchina e dei suoi amici, Patatina Patatuk e Basil Teo.

 

Ma un giorno, la cugina di Gigin Zucchina sparisce; dove sarà finita la Zucca Zuccolina? Sarà stata rapita o si sarà smarrita nell’Orto delle Verdure Scolorite? Allora tutte le simpatiche verdure di Cipollonia attraversano gli Orti Verze&Company per arrivare al Castello delle Zucchine in Fiore, ma dovranno affrontare il temibile mago.

Eating Planet 2012: una sfida per l’uomo e per il pianeta

Silvia Notarangelo
ROMA – Informare, coinvolgere, comunicare. Sono questi gli obiettivi che persegue il Barilla Center Food & Nutrition (BCFN), vero e proprio “centro di analisi e proposte dall’approccio multidisciplinare” impegnato ad approfondire i grandi temi legati all’alimentazione e alla nutrizione. A tre anni dalla sua fondazione e in collaborazione con il WorldWatch Institute, il BCFN pubblica “Eating Planet 2012” (Edizioni Ambiente), una sintesi curata e approfondita delle idee, delle proposte, delle azioni avanzate dal Centro per contribuire alla creazione di “un mondo migliore”.

Il cibo è, innanzitutto, un bene irrinunciabile, un valore di cui è necessario proteggere le varietà locali, diffondendo conoscenze legate alle sue tradizioni e al rispetto del territorio di appartenenza. Pensare che oggi, a fronte di un miliardo di obesi sono altrettante le persone che vivono in uno stato di denutrizione, è davvero sconcertante. Un’autentica ingiustizia sociale che occorre al più presto sanare mediante una sinergia di interventi: favorire lo sviluppo economico dei Paesi più poveri, costruire un sistema di scambi capace di garantire un migliore accesso al cibo, indirizzare la politica economica verso scelte che siano proiettate al benessere futuro.

Adottare un corretto stile alimentare rappresenta un’altra tappa imprescindibile. Una sana alimentazione fin da piccoli e un adeguato regime alimentare lungo tutto il corso della vita, sono presupposti capaci di ridurre in modo significativo l’insorgenza, sempre più frequente, di patologie e malattie croniche. Ed è interessante sottolineare, a questo proposito, il modello a “doppia piramide” elaborato dal BCFN. Analizzando i dati relativi all’impatto ambientale dei cibi, gli studi condotti sono giunti ad una conclusione: rispettare le classiche indicazioni della “piramide alimentare” significa non solo tutelare la propria salute ma anche proteggere l’ambiente in cui viviamo. La “piramide ambientale” conferma, infatti, che i cibi più salutari sono anche quelli che implicano un minore consumo di risorse naturali e un ridotto numero di emissioni. Ciò che si auspica è, dunque, una crescita sostenibile, nella consapevolezza che nuove forme di agricoltura sono possibili, basta saper considerare le diverse variabili e non perdere di vista gli obiettivi finali: tutela del Pianeta e cibo per tutti.

Miseria e vergogna nel romanzo di Federigo Tozzi

Silvia Notarangelo
ROMA – Un’esistenza travagliata, una visione cupa della vita, un consapevole abbandono all’inevitabilità degli eventi. La produzione del senese Federigo Tozzi, autore discusso e talvolta poco apprezzato, non può prescindere dal suo vissuto personale e da quella particolare esigenza di cogliere una “qualunque parvenza della nostra fuggitiva realtà”.

Tre croci”, il suo secondo romanzo “romano”, è scritto di getto, nel 1919, sulla scia di un triste fatto di cronaca di cui Tozzi viene a conoscenza. Una vicenda amara e dolorosa, l’epilogo di tre vite segnate da una decadenza non solo morale ma anche fisica.
Protagonisti sono tre fratelli senesi gestori di una piccola libreria antiquaria, Giulio, Niccolò ed Enrico. La loro inettitudine, la scarsa dimestichezza con gli affari, nonché il comune vizio della gola, determinano il tracollo finanziario dell’attività.
In soccorso dei tre, non privo di qualche personalissimo interesse, interviene il cavaliere Orazio Nicchioli. Tutto inutile, la situazione è disperata. Le scadenze incombono e Giulio, d’accordo con i fratelli, falsifica la firma del cavaliere nell’illusione di poter almeno guadagnare del tempo.
È l’inizio della fine. Lo scandalo, la rovina, il disonore si abbattono sulla famiglia. Dopo essersi addossato tutte le colpe, Giulio non regge alla vergogna e si toglie la vita, avvertendo dentro di sé “una quantità di cose parassite e malvagie che volevano prendere il sopravvento”. Dopo la sua morte, tra Niccolò ed Enrico le cose non vanno meglio, anzi, le tensioni, mai sopite, esplodono e i due si separano. Costante permane, in entrambi, il vizio per i piaceri della tavola e, a distanza di poco, sarà fatalmente proprio la gotta a determinarne il decesso. A ricomporre l’unità familiare, spezzata dalla miseria e dall’infamia, ci penseranno le nipoti ponendo tre croci identiche sulle tombe dei fratelli.

“Qualche lontano amore”, l’appassionante romanzo di Carla De Bernardi

Alessia Sità
ROMA –Si era accorta presto di non essere sola. Due persone la abitavano lottando furiosamente”.

E’ un vero dissidio interiore quello vissuto da Clara, protagonista di “Qualche lontano amore”, l’appassionante romanzo di Carla De Bernardi edito da Ugo Mursia.
Con straordinaria leggerezza, l’autrice ci conduce in un vortice di emozioni che investono e travolgono impetuosamente tutti i protagonisti. Clara è una donna di quarant’anni con due matrimoni alle spalle e due figli ormai diventati grandi. Sin dalla sua infanzia ha sempre agito per non deludere gli altri, ma dopo aver conosciuto un uomo sposato, Juan, che le ha fatto scoprire l’amore – quello che fa gioire e soffrire crudelmente allo stesso tempo – Clara giunge finalmente alla piena consapevolezza che la sua vita non può “più essere una continua richiesta di approvazione”.
Durante una vacanza in Costa Azzurra, la donna si ritrova a fare un bilancio della propria esistenza e a ricostruire, attraverso numerosi flashback, quest’amore esploso improvvisamente durante un’estate rovente. Fra un ricordo e l’altro, Clara rivive la sua turbolenta e irrequieta vita: dalle amicizie ai primi amori adolescenziali; dalle prime esperienze sessuali a quelle da donna adulta e matura; dalla vita matrimoniale a quella furtiva vissuta da amante. Fra ricordi, canzoni, volti e scenari mozzafiato, pagina dopo pagina, Clara mette a nudo la propria anima, sondando anche i meandri più oscuri che la abitano. “Qualche lontano amore” è un vero viaggio interiore intrapreso non solo dalla protagonista, ma anche dal lettore, che soffre e ama disperatamente insieme a Clara.
Con grande capacità introspettiva, Carla De Bernardi ci regala un vero romanzo di formazione, dove a compiere un processo di crescita e consapevolezza è una donna coraggiosa, che non teme di vivere pienamente i propri sentimenti, di qualsiasi natura essi siano.

 

“Il richiamo della strada” e le nostre distanze compresse.

Giulio Gasperini
ROMA –
“Il mondo offre una fonte inesauribile d’ispirazione”. La mistica del viaggiatore sta tutta in questa frase, in questo concetto semplice quanto disarmante, sorprendente. Come racconta Sébastien Jallande nella sua piccola guida “Il richiamo della strada” (edito in Italia da EdicicloEditore nel 2011) il viaggiatore comincia il suo viaggio ben prima di partire. L’attesa, la preparazione, l’edificazione stessa del viaggio rappresentano vere e proprie tappe fondanti, oltreché obbligate. Perché il viaggio è preparazione, è formazione, è crescita; il viaggio è “un atto filosofico”. “Partire impone una presa di coscienza”: il considerare, cioè, di dover mettere in discussione tutto, di noi. Ogni nostra singola scelta, la direzione che, di volta in volta, dobbiamo calibrare ed eventualmente cambiare, ci inducono a confrontarci prima di tutto con noi stessi, con le nostre attese e le nostre pretese, con le fragilità e i punti di forza. “La vita è altrove”, come scrisse Kundera, e come Jallande pone come epigrafe della sua mistica del viaggiatore.
Si parte per conquistare un qualche orizzonte, si parte per dare un nome ad altre terre (un nome che sia tutto nostro, intimo e privato), per nutrire la propria aspirazione all’ignoto. E prima di partire mettiamo in conto le distanze che dovremmo percorrere, quei sentieri che creeranno la nostra mappa personale. Le distanze però, nella nostra contemporaneità, sono da reinventare perché si sono compresse, in qualche caso annullate. Non ci sono effettivamente più nomi da inventare né terre da battezzare. Oramai il mondo è squadernato in cartine e planisferi, è sondato da radar e GPS, è monitorato da internet e motori di ricerca. Oggi, più che in passato, quando l’emozione del grido “Terra!” defibrillava i cuori e sbizzarriva le menti, il viaggio ha senso solo se ripiegato sulla personalità che lo compie. Sul soggetto che lo vive. Sicché la geografia più importante non è né quella fisica né, tantomeno quella economica o politica: la geografia più stimolante (e quella più valida su cui puntare) è quella intima perché “appropriarsi di un luogo sconosciuto è anche sviluppare una rete di legami”. Ecco allora che la geografia si accompagna alla sociabilità, è una “mistica dell’incontro”, e non se ne può separare, non si può scindere né prescindere. Noi siamo gli artefici del mondo, del suo sviluppo, delle sue derive e dei suoi approdi; noi, come scrive Jallande, partecipiamo alla “sedimentazione del mondo”. Ci sono particolari, dettagli, brividi sui quali gli atlanti non dicono niente, per i quali non informano.
Il “partire è anche confrontarsi con ciò che ci viene negato”: è un continuo mettersi in gioco e screditare le opinioni altrui, nell’unico tentativo di cercarsi le proprie. L’unico compimento del viaggio, l’unico modo per analizzarlo e farlo gemmare e fruttificare, è il suo racconto. Perché la narrazione aiuta noi stessi e gli altri: “Ogni racconto è un dono per la memoria degli uomini” scrive Jallande. “Raccontare il proprio viaggio è quindi una forma di terapia contemporanea”, risponde a “un desiderio imperioso di mettere ordine in sé”. E rimane l’unico modo affinché il viaggio continui oltre il rientro. E ne fiorisca il significato.

“La mano destra del diavolo”, smooth criminal

Marianna Abbate
ROMA – Un sicario si prepara alla prossima missione. Ascolta i fatti, segue i suggerimenti e prepara le armi. Ogni tanto legge poesie e racconti radical chic e sorseggia un bicchiere di latte per placare la gastrite.

Nelle prime due pagine ho faticato a districare le fila dei nomi stranieri che sfilavano davanti ai miei occhi, ma già a pagina cinque avevo capito molte cose…

Presa da un fremito ansioso, ho frugato il libro alla ricerca della data della prima pubblicazione, che non ho trovato (è questa l’unica nota dolente della pubblicazione Voland, che per gli altri versi è veramente pregevole, anche da un punto di vista grafico). Da vero lettore degli anni ’10, mi sono armata di Google e ho scoperto che si trattava di un libro del 1967. Tutto ciò per dirvi che la mia brillante associazione intuitiva agli spaghetti western era esatta.

Sulla quarta di copertina ho trovato un mistero legato all’autore Dennis McShade, alias Dinis Machado, ma questa volta Google non mi è stato di grande aiuto, nonostante mi sia presa la briga di leggere la voce di Wikipedia in portoghese.

Così non siamo rimati che io e lui. Io e il libro si intende, a fronteggiarci e a cercare di capire il più possibile dell’altro. Questo subdolo individuo ha cercato di sedurmi addirittura citando Dvorak, un colpo basso e veramente immeritevole.

Ma devo riconoscere che ne sono uscita ammaliata. Sentivo quasi il caldo afoso, l’aria della vendetta, il sale della sconfitta e la puzza della paura. Sarà che è giugno, si muore di caldo e forse sarebbe ora di farmi una doccia- ma credo che sia tutto merito dell’autore.

Anche senza Google avrei potuto datare questo libro con certezza, una volta le parole sapevano emozionare da sole. Non c’era bisogno dei miseri escamotàge da scrittura creativa, né di vocaboli  eccessivamente volgari.

Da leggere, magari quest’estate- e da passare a tuo marito.

 

“La foto sulla spiaggia” e l’immortalità della Storia

Giulia Siena
ROMA
“Sara adesso era lì. Tutta la sua vita era lì, davanti a una porta chiusa. Sulle labbra una preghiera, nel cuore l’ansia e la speranza, due pulsioni che spesso si accompagnavano. Aspettando che qualcuno le aprisse, ogni istante divenne per lei interminabile”.


Parte da lontano Roberto Riccardi per raccontare “La foto sulla spiaggia”, il suo ultimo romanzo pubblicato da Giuntina. Parte da una foto, quella Sissel Vogelmann, scattata su una spiaggia molti anni prima. Dallo sguardo della bambina di otto anni che il 30 gennaio 1944 partì dalla stazione di Milano per arrivare ad Auschwitz, prende spunto questo nuovo e avvincente romanzo. Riccardi comincia il suo racconto su due binari paralleli e distanti: Bari e Auschwitz, due mondi e momenti diversi. Bari, anni Cinquanta: qui si incontrano e crescono insieme Alba e Nicola tra la voglia di ricominciare e la quiete del mare. Nonostante siano così diversi, i due giovani si sentono vicini, uniti da un legame che è amicizia e complicità. Alba è una ragazza di ottima famiglia e il suo affetto per Nicola, il nipote della “serva”, è strano, quasi impossibile agli occhi dei suoi amici. Ma Alba sta cambiando, tutto quello che la circonda sembra che non le appartenga, una vitauna alternativa alla sua vera vita. Simone è ad Auschwitz, aspettando di sapere quando morirà. Simone vorrebbe rivedere sua moglie e la loro piccola Sara. Il pensiero di aver perso la sua bambina rende le giornate in quell’inferno uno strazio costante.

Ma perché Alba e Simone, due voci lontane anche negli anni? Le loro storie parallele e concomitanti forse, tra le pagine, dovranno incontrarsi.

Roberto Riccardi costruisce un romanzo delicato, coinvolgente e ricco. Un romanzo storico pertinente con i fatti e denso di emozioni.

“Era una sensazione frustrante, come mettersi i vestiti di sempre e ritrovarseli addosso alla rovescia”.

Il “Proclama del fascino” alla fine dei giorni.

Giulio Gasperini
ROMA –
Era morto da una manciata di giorni. Si era spento, come tanti suoi amici, di AIDS, a Roma, in quella stessa città che lo aveva visto protagonista di magiche e irregolari notti. Era stato sepolto al Cimitero degli Acattolici, sotto la Piramide Cestia. Fu sepolto accanto all’amica, Amelia Rosselli, che si era suicidata poche settimane prima. Era il 1996: un anno tragico per la Roma letteraria (che a quel tempo ancora esisteva). Poche settimane dopo, nell’aprile, Arnoldo Modadori Editore pubblicò il suo addio al mondo: con “Proclama sul fascino” Dario Bellezza si separò dalla terra cantando un ultimo omaggio all’unica cosa che, oltre l’amore, aveva contato per lui, che gli aveva donato il potere di poetare: il fascino. Inteso come eros, come forza tellurica, potente e sferzante, che stimola gli uomini e impedisce loro di prostrarsi e inaridirsi. Tutto ha fascino, intorno all’uomo, anche tradire: “La verità è che tradire / ha fascino, violento e incorruttibile”. L’uomo vi è immerso, nel fascino, come fosse circondato da una cornice di perfezione: “Come debbo sparire dinanzi / alla bellezza del Creato!”. Il fascino, fin dai versi di “Morte segreta”, ha rappresentato in Bellezza un addendo fondamentale, che spesso si sommava alla morte, alla perdizione, alla putredine. Un compito gravoso, il suo, consapevole che “i poeti animali parlanti / sciagurano in bellezza versi / profumati – nessuno li legge, / nessuno li ascolta. Gridano / nel deserto la loro legge di gravità”.
Si separa dal mondo, Bellezza, da ogni oggetto che lo ha definito uomo. A cominciare dal telefono, “strumento libero / e appassionato di conversari / lugubri e obliqui, allegri / sin da ragazzo, adolescente / e più invano parlando d’amore / che di altro passai la vita / al telefono”. Si separò dal mondo, Bellezza, consapevole di stare per farlo, guardando la paura negli occhi; una paura con la quale conviveva dal 1987, una lotta impari, con un “male stupido”, che gli permetteva di contare i giorni, con la certezza che, presto o tardi, l’ultimo sarebbe arrivato: “Non si muore subito. / Si muore poco a poco / in ogni giornata, / impercettibilmente / in attesa di Lei”. Si sentiva peccatore, si sentiva parte dell’annuncio evangelico: “Chi non ha paura di morire / scagli la prima pietra: adoro / la lapidazione; così il sangue / non sarà più rosso e la morte / non sarà più nera”. Si separò dal mondo, Bellezza, ostaggio della solitudine: “E oggi il telefono / muto non riporta più nessuna / parola amica”. Ogni amico abbandonato, ogni spazio lasciato vuoto, riempito soltanto da un ennesimo dolore: “La sedia di paglia si è rotta, / ne conservo solo lo schienale. / Fu regalo di un amico defunto / ormai sparito, suicida, arrivato / nel buio calmo degli Inferi”. Si sveste persino del suo ruolo, quello poetico, del quale chiede ammenda, come se fosse l’unico, reale, più importante peccato di cui mondarsi per consegnarsi alla luce. E trova spazio anche la concessione del perdono, come un novello Cristo in croce prima dell’ultimo fiato: “Dio mi assolva i peccati capitali. / Quelli sessuali non sono né tali / né osceni reati da prigione, lager / o manicomio. Se sono un expoeta è / solo colpa mia. I critici li perdono”. L’unica certezza di fronte alla morte è, di medicea memoria, la fugacità del tempo migliore, quello più perfetto: “Fugace è la giovinezza / un soffio la maturità: / poi avanza tremando / vecchiaia e dura, dura / un’eternità”. L’eternità, per Bellezza e i suoi versi, però perdura. E ancora perdurerà.