“Viola”: il toccante romanzo di Pervinca Paccini

Alessia Sità
ROMA – “Se ne stava lì. Lo sguardo fra le lunghe ciglia scure di trucco. Lo sguardo divorato dalla nostalgia di un domani che non sarebbe mai arrivato. Quello sguardo spalancato scagliava gli ultimi brandelli di vita verso il cielo di ghiaccio, come per catturarlo nella ragnatela disordinata di immagini che avrebbe trascinato con sé nella notte.”

Si apre negli anni ’70 “Viola”, il nuovo romanzo di Pervinca Paccini pubblicato da Autodafé Edizioni. Fra lotte studentesche, amore, sesso e disubbidienza femminista si dipana la storia di Giulia e Viola, due sorelle unite da un profondo ed intenso sentimento fraterno. Purtroppo però, l’inaspettato irrompe nelle loro giovani vite, spezzando per sempre qualcosa che mai più ritornerà. Quel legame che le aveva sempre accompagnate fin dall’infanzia viene inspiegabilmente stroncato da un evento oscuro.
A distanza di trent’anni, però, Giulia continua ad interrogarsi e a tormentarsi sulla morte dell’amata sorella. L’impossibilità di riuscire ad affrontare un passato doloroso, lentamente lascerà spazio ad un nuovo sentimento. Sarà proprio l’incontro e l’amore di Gabriele, un restauratore di libri antichi, la vera chiave di svolta nell’esistenza della donna. Fra foto sbiadite, indizi vari e vecchi amici, Giulia troverà la forza e il coraggio per intraprendere un viaggio doloroso, ma indispensabile per poter finalmente ridare la serenità al ricordo dell’adorata Viola.
Fra presente e passato, Pervinca Paccini racconta una toccante storia umana. A fare da sfondo alla vicenda esistenziale di ogni personaggio è sempre Milano. La Milano di oggi: “grigia, fredda inospitale, necessaria come il denaro” e la città di ieri, scenario di rivoluzioni culturali, di eccessi e partecipazione politica.
Vincitore nel 2010 del premio per il miglior incipit tra i romanzi pubblicati su IlMioLibro, “Viola” è un romanzo generazionale, che ha il merito di aver saputo mettere a confronto due generazioni completamente diverse.

Il fiuto infallibile di Hercule Poirot


Silvia Notarangelo

ROMA – La risoluzione di un caso apparentemente impossibile, la ricerca di un colpevole, il Bene che alla fine prevale sul Male. Sono questi alcuni degli ingredienti che hanno determinato, nel tempo, il successo del genere giallo. Un successo di cui parte del merito va attribuito anche alla penna della scrittrice inglese Agatha Christie. Osservatrice attenta e scrupolosa, curò sempre i suoi lavori con grande abilità, creando atmosfere suggestive, momenti di suspense, personaggi brillanti, dotati di ingegno straordinario, eppure capaci di far sorridere per le loro tante, piccole, debolezze.
Assassinio sull’Orient Express”, scritto nel 1934, è uno dei suoi romanzi più famosi. Protagonista l’inimitabile detective belga Hercule Poirot, un uomo piccolo di statura, con i baffi, maniaco dell’ordine e dell’igiene ma anche incredibilmente acuto.
È il caso a farlo trovare proprio su quel treno diretto a Calais che, durante la notte, si trasforma nella scena di un delitto efferato. La vittima è Samuel Edward Ratchett, un ricco americano selvaggiamente ucciso da molteplici coltellate. Nonostante, nel silenzio notturno, rumori inconsueti avessero colpito l’attenzione dell’investigatore, nulla lasciava immaginare una simile tragedia. L’inaspettato ritrovamento del cadavere, mette in moto il formidabile intuito di Poirot. Le indagini sono rapide e si concentrano sui passeggeri del treno. Chi può avercela con Ratchett al punto da ucciderlo così ferocemente?
La prima, interessante scoperta riguarda la vittima, non un americano qualunque ma un omicida di professione che risponde al nome di Cassetti. Gli indizi raccolti dal detective, uniti alle testimonianze dei passeggeri, sembrano convergere in un’unica direzione. Dietro all’assassinio si nasconde la vendetta di chi, proprio per mano di Cassetti, aveva perduto, anni prima, qualcosa di molto caro. Un piano crudele e ben architettato, capace di riservare colpi di scena e abili depistaggi, ma che alla fine sarà brillantemente scoperto dall’infallibile Poirot.

“Come pelle di bambù”, segreti di un’altra vita

Marianna Abbate

ROMA – Sensualità e mistero, le parole chiave di questo romanzo, che segna i debutto narrativo di Michela Vanon Alliata, già affermata saggista e docente di letteratura inglese a Venezia. L’autrice s’ingarbuglia in una vicenda decisamente contorta, ma riesce a districarsi bene tra ricordi, lettere e rivelazioni- tenendo le fila della vicenda.  Il tutto nasce dal ritrovamento del carteggio di uno psicanalista con la sua paziente. Lettere che di una vita passata che è proprio il figlio della donna a ritrovare; incuriosito e toccato dal loro contenuto decide di incontrarne l’autore.

Una storia tormentata, con un epilogo tragico- che fa da sfondo e da spunto per l’evolversi narrativo. Flashback e attualità si susseguono, si rincorrono e a volte combaciano.

I personaggi sono disegnati linearmente. Nulla è lasciato a caso: le scelte, i sentimenti e le trasformazioni, sono conseguenti alla vita. Bisogna solo incastrare bene i pezzi del puzzle che la compongono. Ma ci vuole pazienza- questo puzzle nasconde l’ultimo pezzo tra le pagine finali, rendendo la lettura affascinante e avvincente.

Una prova riuscita, questo primo romanzo, edito da Pendragon.

“Incontriamoci all’Inferno” con un Dante spensierato.

Giulio Gasperini
ROMA – E se Dante diventasse meno austero e istituzionale? E se fosse possibile scherzare con la Commedia, la più grande opera che l’umanità letteraria abbia mai pensato e partorito? E se immaginarsi le liti, i bisticci, le incomprensioni tra Dante e la moglie Gemma non sottraesse nulla alla magia dell’opera ma, anzi, ce l’avvicinasse e la rendesse più familiare? Cinzia Demi, toscana di origine, lancia un invito e una sfida: “Incontriamoci all’Inferno”, edito da Pendragon nel 2007 e ripubblicato in nuova edizione nel 2010, non è una semplice “parodia” dei fatti e dei personaggi che formano quel “racconto di incontri” che è la Commedia, ma è una maniera nuova e quasi rivoluzionaria di penetrare nella complessità della materia e della forma poetica. Come strumento la Demi utilizza quella stessa ironia con la quale Dante aveva così sapientemente tessuto il suo poema, le sue sillabe poetiche, le sue metafore e le immagini ricche di vita e di quotidianità. Dante aveva scherzato su tutto, su ogni aspetto dell’uomo, della vita, della religione, senza farsi problemi e senza timori reverenziali sulla materia trattata.
Si comincia con una lettera che un fiorentino invia al suo illustre concittadino, rimproverandolo per aver seminato il terrore su quello che, nell’oltretomba, i morti avrebbero trovato: “Va bene che c’avevi rabbia ‘n corpo e core / ma la paura ci fe’ ghiacci marmati / e pe’ secoli s’è tramandato ‘l terrore”. Poi si prosegue con il catalogo delle donne più importanti, da Bice Portinari (che, insieme a Rossana Fratello, canta “sono una donna non sono una santa”), al dialogo tra Pia de’ Tolomei, Francesca da Rimini e Piccarda Donati, infastidite tutte dalla presunzione di un Dante che crede di poterle ridurre loro e le loro vite a una manciata di sillabe: “Nessun uomo, nemmen’il Poeta / ha, in nessun tempo, mai afferrato / di quanta giustizia è fatta la meta / che può raggiunger sol chi ha capito / quanto noi donne siamo speciali / nel sentimento e nella ragione / e che ‘un siamo tutt’uguali / ma ognuna di noi è pur’emozione!”. Poi ci sono gli uomini, da Ulisse al Conte Ugolino; e poi ci sono i demoni, da Caronte a Pluto, che affermano, in tutta onestà, qualche lato divertito e divertente della loro personalità. E poi la Demi crea dei contrasti, delle dispute verbali sul modello della tenzone, così tanto di moda ai tempi di Dante: Gemma Donati litiga con Dante per la sua infedeltà di sguardi (“Madonnina mia che attaccabottoni! / Tu e tu’ amici rimatori e la sapete lunga: / ‘n chiesa co’ santi e ‘n taverna co’ ghiottoni, / e la lista de le conquiste qui s’allunga! / E io a casa: co’ tutto quello ch’ho portato ‘n dote / oberata di figli, mai nelle tu’ opere citata: / che forse ti riscordi cosa disse ‘l sacerdote? / Che so’ meno gentile e onesta di ‘sta Bice dannata?”), Bonifacio VIII e Celestino V si confrontano ironicamente sui loro peccati, Virgilio protesta con Dante di averlo sfruttato per accompagnarlo e gli angeli e i demoni si offendono con lieve sarcasmo.
La lingua della Demi è corposa, densa, plastica. È una lingua tangibile, deittica perché figura un hic et nunc applicabile a ogni momento, ogni attimo, a ogni realtà che possa presentarsi a ognuno di noi. È la lingua che si usa correntemente in Toscana, è quella che ribolle come magma e fluisce come acqua potente. È una lingua che può essere giustamente declinata anche negli incontri che caratterizzano la Commedia, negli incroci di persone e di realtà, nella varietà delle situazioni. Con Dante, insomma, si ride e si scherza, senza per questo perdere la potenza delle sue parole e del suo messaggio ma, anzi, calandolo in una ricca quotidianità e capendo più intensamente la grandezza della poesia.

“Mal di mare”: le intriganti indagini del Capitano Osvaldi

Alessia Sità
ROMA – “Quando andrò in pensione – una data incerta per via dell’eterno dibattito sull’età e il sesso – scriverò un romanzo ambientato nella città in cui sono nata e vivo. Malgrado le letture e i viaggi, rimango infatti dell’idea che il luogo d’origine sia insostituibile fonte di buona lettura. Ma, al contrario di altri autori legati al territorio, che arcaizzano di proposito con il lessico oppure trascolorano nel mito vicende paesane tutto sommato banali, io di Maraglia voglio raccontare l’oggi poco onorevole, e nel linguaggio ordinario.”

Inizia con questi propositi il romanzo di Virginia Savona Less,Mal di mare”, pubblicato da Autodafé Edizioni. A fare da sfondo alle intriganti indagini di Osvaldi, Capitano dei carabinieri, – definito come “un omaccione impegnato ad offrire al mondo l’immagine stereotipata dell’orso di buone maniere” – è proprio la cittadina immaginaria di Maraglia. In sette episodi, il prode Osvaldi e il suo insostituibile ‘braccio destro’, il maresciallo Pellicciotta, tenteranno di far luce su misteriosi delitti, quasi tutti di ambientazione nautica. Uomo di cultura e amante della buona cucina, il Capitano lascia che sia l’intuito e la deduzione a guidare il corso delle sue indagini. Ecco perché ama molto ripetere una citazione di Bloch: “Nessun egittologo ha visto Ramsete”; una sorta di ‘motto’ che metaforicamente riassume molto bene la sua tecnica investigativa. “Non si assiste al delitto né all’evento, però bisogna attendibilmente ricostruirli e cercare la verifica con gli strumenti adatti”. Il Capitano non lascia mai niente al caso, ma spesso sono proprio le sue lucide deduzioni la vera chiave di svolta. La prontezza di osservazione, la cura del dettaglio, l’attenta diagnosi di ogni teste coinvolto nei vari delitti, saranno le armi principali usate per la risoluzione dei complessi casi. In “Mal di mare” la piccola cittadina immaginaria diventa lo specchio infelice e il simbolo di un paese devastato dalla corruzione e dalla tracotanza umana. “Maraglia è rallegrata da un vistoso spaccio, da infiltrazioni camorristiche con tanto di riciclaggio e da un numero di rapine, ferimenti e omicidi in linea con la media nazionale”. Con uno stile molto lineare, Virginia Less racconta storie – alcune delle quali tratte liberamente dai fatti di cronaca – che hanno come comun denominatore figure e comportamenti che ormai sono entrati a far parte del nostro attuale‘costume’ sociale.

“Un mondo a parte”, quando il lager si chiama gulag.

Marianna Abbate
ROMA – Ho pensato a Gustaw Herling questa mattina a Napoli. Un autore che mi è particolarmente caro, dal momento che viene dalla mia amata Kielce, la città d’origine di mia madre. L’ho pensato a Napoli, perché dopo il dramma della sua vita è venuto proprio a Napoli, dove ha sposato la figlia di Benedetto Croce e ha avuto una figlia, vivendo i suoi anni felici circondato dagli intellettuali napoletani.

Ho avuto l’occasione di conoscere sua figlia in un incontro per la dedica della scuola polacca di Roma alla memoria del padre, e con mio immenso sgomento scoprii che non parlava il polacco.

Ma in questa mattina di sole, il mio ricordo va a quelle pagine che lessi con sgomento e disagio, anni fa. Una lettura obbligatoria, durante i miei studi di polacco- pubblicata in Italia da Feltrinelli, per la prima volta nel 1958, con il titolo “Un mondo a parte“, anche se la traduzione letterale dovrebbe essere: un altro mondo, o un mondo diverso.

Non sto qui ad enumerarvi i singoli fatti che non mi lasciarono dormire per lungo periodo. Vorrei soltanto condividere quel disagio appunto, quella tristezza che ho provato nel comprendere come i sentimenti umani siano fragilissimi e soggetti all’estinzione.

L’autore ammette di non aver descritto realmente tutti i fatti di cui è stato testimone, ma di aver mantenuto il rispetto per il verosimile. A mio avviso, aver romanzato alcuni elementi nel suo racconto, gli ha permesso di esorcizzare immagini che lo avrebbero comunque perseguitato fino alla morte.

Atti disumani, come la violenza di gruppo, compiuta su una donna con il tacito assenso dell’amante, che non voleva mostrarsi debole davanti al gruppo, erano all’ordine del giorno. E, ora, con il senno di poi – non mi stupisce che Herling non abbia voluto insegnare alla figlia il polacco, la lingua che lo ricollegava al dolore – a quella patria perduta per sempre, a quelle ferite putride dell’anima che quel mondo a parte ha lasciato in crudele eredità.

Leggete, fate leggere e raccontate; è l’unica arma che abbiamo contro il mondo che ama dimenticare.

 

“Per dirmi che sei fuoco”: la ricerca della verità attraverso i versi di Ungaretti

Alessia Sità

ROMA – “Non mi era mai apparso tanto violento, brutale e attraente, il paesaggio. Lo scoprivo ai miei occhi con una spontaneità di immagini che ancora mi sorprende.”
(Lettera di Giuseppe Ungaretti scritta da San Paolo a Bruna Bianco).

Sono proprio i versi di Giuseppe Ungaretti a fare da sfondo alla straordinaria storia di Nico, un ragazzo romano che sta per laurearsi in letteratura con una tesi proprio sul poeta di Alessandria d’Egitto. Improvvisamente, però, la tranquilla esistenza del giovane viene stravolta dalla sconcertante scoperta di essere il figlio biologico di un  ‘donatore misterioso’.
Inizia così “Per dirmi che sei fuoco”, il romanzo di Fabrizio Falconi pubblicato da Gaffi Editore in Roma, nella collana Godot.
Il pretesto narrativo è fornito da una reale inchiesta giornalistica – realizzata qualche anno fa dall’autore – sui bimbi nati in ‘provetta’ negli anni ’80 e sulle difficoltà, riscontrate da molti, ad accettare l’idea di essere figli di ‘anonimi donatori’.
Attraverso gli archivi della banca del seme di Amsterdam, Nico riesce a raccogliere le informazioni necessarie che lo metteranno sulle tracce di Michele, un rivoluzionario ecologista che da anni lotta contro le ecomafie in giro per tutta l’Europa. Il desiderio di incontrare il padre naturale, per dare finalmente un volto a un nome scritto su un pezzo di carta, spinge il ragazzo a intraprendere insieme alla fidanzata Valentina, una ricerca estenuante che lo porterà ad avventurarsi sulle montagne abruzzesi, sfidando ostacoli e pericoli di ogni tipo. A infittire sempre di più la trama, già ricca di avvenimenti, è anche l’arrivo di Brigitte, la sorella naturale di Nico. I due fratelli si ritroveranno a ricostruire insieme la storia di vita del padre, dopo che questi resterà gravemente ferito in seguito ad una delle sue ‘azioni dimostrative’. Qualche volta però, la verità ha un prezzo troppo alto da pagare, e i due ragazzi lo scopriranno a proprie spese.
Attraverso le vicende di Nico e l’esperienza di vita di Giuseppe Ungaretti, che diventa quasi il ‘cantore’  e il simbolo di una lunga peregrinazione umana, Fabrizio Falconi racconta e affronta, con straordinaria sensibilità, due importanti tematiche: la fecondazione artificiale e lo smaltimento illegale di rifiuti.

“Città distrutte” e ricostruite, in eterno.

Giulio Gasperini
ROMA – La storia è un susseguirsi di eventi, allacciati da rapporti di causa ed effetto. Questa è la prima regola da capire. Poi esistono degli snodi, generalmente dei punti finali, che chiudono un’era e ne principiano un’altra: e spesso, a marcare questi momenti, c’è una città che viene distrutta, rasa al suolo, assediata e magari espugnata. Davide Orecchio parte da questo, possiamo chiamarlo, strano postulato, magistralmente riassunto in un verso di Betta Rauch (“Certo, sono una città distrutta. Se Dio vuole, la storia è fatta di città distrutte e poi ricostruite”), e sbizzarrisce la sua fantasia e la sua vocazione poetica in sei biografie infedeli (come recita il sottotitolo), sei biografie al limite dell’invenzione: “Città distrutte”, edito nel 2012 da Gaffi nella collana Godot, è proprio questo. Un inganno storico, ma un profondo e perforante bisturi umano; una collana di exempla che potrebbero essere anche veri, ma sono piuttosto finti; sempre che non se ne capisca la verità vera più profonda.
Inutile negare che l’autore ci prenda in giro; e che, nel far questo, si diverta come un bambino, di gusto. E proprio di un bambino preservi l’innocenza e lo sguardo limpido, puro. Perché la sua presa in giro, il suo inganno, non è né violento né crudele. È l’inganno di chi sa che un dato storico imperfetto, che un albero genealogico un po’ trascurato, un incontro anticipato o posticipato non inficiano i veri rapporti, quelli più profondi, di causa ed effetto, ma le significano magari in maniera più potente o più intensa. Una galleria di sei personaggi, dalla desaparecida Éster Terracina alla poetessa obliata Betta Rauch, dal politico Pietro Migliorisi al regista Valentin Rakar, che attraversano come un colpo di fendente tutte le categorie dell’umano lavoro. Le loro storie sono complesse, spesso smarrenti, confuse da una narrazione che scivola nella mente del lettore con disinvolta poesia, senza pretese di chiarezza ma con un processo di sottrazione dell’evento e del sentimento che lascia smarriti ma pieni di domande future, di tensioni centrifughe e centripete; le quali allontanano ma, al contempo, trattengono al racconto, alle parole, a quelle linee che, così, pare possibile seguire sui palmi sinistri delle loro mani, come un continuo accadere delle “casualità della vita”, le sole che possano mai scombinare un destino.
Il privato diventa pubblico, e lo condiziona. Il pubblico forza il privato, e spesso lo devasta. Le poche regole sono ridotte in frantumi, l’orizzonte è sempre un poco più lontano da dove si era calcolato potesse essere: le biografie tratteggiate da Davide Orecchio hanno solo queste, come leggi. Non c’è, in queste storie, sudditanza alla Storia, ma un ancor maggiore rispetto e attenzione per quelli che sono i veri e potenti significati che la storia ha: una verosimiglianza di manzoniana memoria ma di modernissimi risvolti. Questi personaggi sono veri, sono concreti, perché la parola li ha definiti e contenuti, con un leggero tratto, come fossero volti e figure botticelliani. Non delicati, ma ben compresi. Al di là che una qualche terra li abbia davvero sorretti e li abbia visti passare. Sempre con bene in mente, però, che l’infedeltà alla storia non deve mai diventare un obbligo.

“La ragazza scalza” che resisteva in montagna.

Giulio Gasperini
ROMA – Combattere sulle montagne è sempre stato difficoltoso. Un vero e proprio calvario. Uno sforzo aggiuntivo in un momento in cui tutto ero rischioso. Sulla coltre di neve, ogni orma era una traccia compromettente, ogni rumore era amplificato come diventasse un urlo, un grido che inficiava ogni nascondiglio e rovinava la vita. In montagna, però, ugualmente si combatté e si resisté. Saverio Tutino fu commissario politico della 76° Brigata Garibaldi nella zona di Ivrea; e poi fu scrittore e narratore. Conobbe i personaggi protagonisti della resistenza tra Valle d’Aosta, Canavese e Biellese, e li raccontò in una serie di racconti brevi, schegge di azione e di ricordi, dal titolo “La ragazza scalza” (Einaudi 1975).
Vengono raccontate le ore calme, quelle che seguono le azioni di guerriglia; vengono raccontati i riconoscimenti, le tangenze delle vite, le occasioni di incontro. Sono squadernate le ore nelle quali si mescolano “vino e sentimenti” e nelle quali i personaggi si palesano per quello che veramente sono, con le loro debolezze e i loro vizi, ma anche le virtù e i piccoli gesti che, dimessi e modesti, edificano un “uomo”. Sono narrate quelle “ore calme”, che rallentano dopo la troppa vita e le emozioni che infiammano e stordiscono, che scontornano e sconfinano nella Storia. Quella Storia che la Morante aveva così bene rappresentato: distante, distaccata, indifferente agli uomini. Ma in Tutino c’è una consapevolezza diversa, una visione cordiale: lo scrittore ha simpatia per l’uomo, per i suoi sforzi, e qualche volta gli regala persino la consolazione di un premio, di una vittoria. Non esiste soltanto la sconfitta, per il giornalista: c’è anche la possibilità che l’ideale (e l’illusione) si concretino e prendano forma e sapore.
Incantevole il ritratto della partigiana Aurora Vuillerminaz, conosciuta come Lola. Aveva soltanto 22 anni quel 15 ottobre 1944 quando, catturata dai militi del battaglione fascista IX Settembre, fu uccisa con un colpo di rivoltella alla tempia, presso il cimitero di Villeneuve. Era una staffetta; stava rientrando dalla Svizzera e conduceva con sé cinque fuoriusciti (“un poeta, un operaio, un dottore in medicina”). Tutino ce la presenta come “la moglie ideale di un vero partigiano: era bella e tutti se lo dicevano: ma dalla sua bellezza era escluso ogni gioco sottinteso o malizia. Non doveva essere semplice innamorarsi di lei; prima di tutto bisognava misurarsi col suo carattere”.
Tutti i personaggi, questi nomi che non sono semplici nomi, ma volti e storie anonime, non si domandano se saranno ricordati o amati, in futuro; se le loro azioni saranno prese a modello, se i loro colori esploderanno ancora e quali cieli coloreranno. Sanno per atavica legge di natura che il loro contributo aiuterà i loro discendenti, che siano figli, nipoti o perfetti sconosciuti, magari persino avversari: “Discussero un poco, e poi ognuno di quelli che avevano partecipato all’azione riprese il racconto delle cose viste da lui e così, come sempre, ci si rese conto che la storia è fatta da tutti: ognuno, muovendosi, ci mette qualcosa di suo”. È la scrittura, poi, che li eterna; e che non li fa scolorire.

Quando il mondo crolla “Salta, corri, canta!”

Marianna Abbate
ROMA Un campo di concentramento dal nome impronunciabile e maledetto. Capelli, scarpe, valigie e ricordi. Solitudine, terrore, fame. E poi, quando non sai più cosa fartene, la salvezza. La Libertà.

Il ritorno al tuo paese; e magari un figlio.

“Salta, corri e canta!”, il nuovo romanzo di Lizzie Doron per La Giuntina è anche questo. Ne ho letti veramente tanti, di libri sulla vita nei campi di concentramento. Ma veramente pochi sulla vita dopo i campi. Come se tutto quello che c’è da raccontare finisse lì, dietro il filo spinato. Come se quella auspicata libertà, non fosse valida nemmeno a occupare una riga delle memorie di una vita.

Eppure la vita è arrivata. I cancelli si sono aperti e ci sono stati quelli che sono tornati alle proprie tiepide case. Ma quelle case non erano più tiepide, non erano più sicure. Nella notte comparivano davanti agli occhi i capelli biondi delle SS. Ogni grido, ogni rumore improvviso, faceva balzare dal letto. E ogni tanto tornavano i ricordi delle persone amate. Polverizzate.

La vita dopo il campo, non ce la racconta un sopravvissuto. Ce la racconta sua figlia. Una bambina degli anni ’50 a Tel Aviv.

Una bambina col desiderio di giocare, di essere uguale agli altri- di avere un papà; o almeno di avere una storia da raccontare su di lui.

Ma quel papà è stato nel posto innominato, e poi se ne sono perdute le tracce per sempre.

 

L’autrice ci accompagna nel percorso della sua memoria, per rintracciare quei segni, quei segnali impercettibili, che la aiuteranno a comprendere e a scoprire il dolore degli adulti di ieri.

Un viaggio avvolto di mesto mistero, di triste allegria infantile e di rimpianti. Nel sottofondo aleggia ancora quell’aria di terrore che ricompare nelle maledizioni gettate al vento. Con quelle ferite putride nell’animo, che non guariranno mai.

Non ne ho letti molti di libri sulla vita dopo i campi.

Peccato.