I nostri “Ricordi di scuola” e i migliori anni della nostra vita

Giulio Gasperini
ROMA – Ciascuno di noi ha pochi ricordi indelebili, come quelli della scuola. A scuola cresciamo, diventiamo adulti, cominciamo a conoscere noi stessi e gli altri, ci confrontiamo con la vite e con la realtà, ci esageriamo le persone che vorremmo: e ci sorprendiamo a considerarli i migliori anni della nostra vita. Giovanni Mosca nella scuola trascorse pochi anni, come maestro. Di questo mestiere, a cui rinunciò per dedicarsi al giornalismo, i suoi “Ricordi di scuola”, editi nel 1968 da Rizzoli, sono una testimonianza preziosa e irrinunciabile: ci aiutano a capire come funzionasse la scuola, nel passato non troppo distante, ma, soprattutto, cosa “fosse” e dove avesse intenzione di andare.
Quel che di più importante, infatti, si evince dalla lettura di queste pagine, redatte dall’occhio d’un maestro giovane e con poca esperienza ma non per questo acerbo né ingenuo, edotto di teorie didattiche e formative ma anche consapevole del proprio entusiasmo e dell’opportunità della deroga, è il legame di profondo rispetto che si instaurava tra tutti i partecipanti all’azione: allievi, genitori, maestri, istituzione scolastica. Tutti contribuivano alla realizzazione del progetto educativo di cui la scuola era referente ultimo e, forse, più determinante. Tutti concordavano su quali fossero gli obiettivi principali, le possibilità di deroga, gli spazi per la flessibilità, i giusti ruoli e i giusti spazi, le giuste pretese e i corretti giudizi.
Non c’è, in “Ricordi di scuola”, nessun’atmosfera idilliaca né idealizzata, alla maniera di “Cuore”; nessuna deificazione di alunni professori o programmi scolastici. Semplicemente, uno sguardo tenero ma non indulgente, ironico e sagace dimostra quanto buono poteva esserci in un’istituzione che, di lì a poco tempo, sarebbe stata colpita in pieno dalla potenza dirompente e stravolgente delle proteste studentesche e del ’68. Parrebbe quasi dirci Mosca che la rivoluzione, se cieca e incontrollata, rischia di privarci anche dell’essenzialità e della positività del buono.
È un racconto lungo di tenerezza e di affetto, che si concreta in figure plastiche, reali, concrete, che maturano e che impartiscono preziosi insegnamenti. Sono personaggi magistralmente contornati, raccontati nel loro ambiente privilegiato ed esclusivo: personaggi che crescono e maturano, esattamente come fanno gli alunni, in uno scambio continuo di esperienze e di insegnamenti; mai univoci né unidirezionali. Personaggi come la signorina Cenci, che, amante del suo mestiere, persino d’estate, quando la scuola è vuota e abbandonata, percorre leggera i corridoi e va a dare l’acqua alle piante rimaste nella classe; o come il maestro Garbini, che al pari dei suoi studenti fantastica su un cavallo bianco; o ancora, come la maestra Marini che, con la prospettiva di un fiore e di un amore, saprà cambiare e diventare più buona e meno severa coi bambini del suo doposcuola.
Alunni e insegnanti sono protagonisti allo stesso tempo, sullo stesso palcoscenico: ma sono forse i maestri a ricevere la rivalutazione più importante, dalla pena intelligente dell’ex giovane maestro Mosca. Sono tutti insegnanti, cioè, che hanno a cuore il loro mestiere, che non difendono inutilmente gli alunni ma ne esaltano le peculiarità e i talenti, che, anche quando li sgridano, ne conservano in cuore e nelle intenzioni l’affetto più profondo: una scuola, tutto sommato, radicalmente giusta negli intenti.

“Cedimenti”…realtà o fantascienza?

Silvia Notarangelo
ROMA – Quando la ventisettenne Martina eredita un po’ a sorpresa la villa in Sicilia di quel nonno appena conosciuto, non può certo immaginare a cosa andrà incontro. Ha pochi ricordi di quella grande casa affacciata sul mare e, tra quei pochi, non è compreso lo scheletro di un enorme edificio che va innalzandosi proprio di fronte la casa, un’autentica “porcata edilizia”. Inizia con questa amara scoperta “Cedimenti”, il suggestivo romanzo pubblicato da Edizioni Ambiente e scritto a quattro mani da due autrici che si firmano con lo pseudonimo Francesca Vesco.

Una scoperta inaspettata per Martina quanto tristemente nota alla comunità di Valduci, che convive con la piaga dell’abusivismo e la prepotenza di certi uomini, poco raccomandabili, con i quali “non è prudente mettersi contro”. Il costruttore in questione, responsabile dell’ennesimo ecomostro, ha un nome, Giacomo Iraci, e una reputazione non proprio cristallina. La frase con la quale si congeda da Martina, al termine di un incontro velatamente intimidatorio, sembra una vera e propria minaccia: “Accetti il mio consiglio, lasci questo posto”. Le parole, dure come pietre, scuotono la ragazza. All’improvviso, tutto le appare incredibilmente chiaro: e se il nonno non fosse morto in seguito ad un incidente ma ci fosse dietro la mano di qualcuno? Si spiegherebbe, così, la presenza nella villa di una pistola: forse l’anziano temeva per la sua incolumità. Ma come dimostrarlo? In assenza di prove, nessuno le avrebbe dato retta. Meglio, allora, agire da sola. Ma visto che nulla capita per caso, ecco che Martina si imbatte prima in Paolo, un giovane e affascinante ingegnere, poi in un attivista ambientalista, Giuliano Chimenti. Saranno loro a lasciarsi trascinare dal suo desiderio di giustizia in un gioco pericoloso, la cui posta in palio si farà sempre più alta. Una battaglia di cui diventeranno protagonisti alcuni insospettabili batteri di laboratorio, capaci di corrodere il cemento provocando inspiegabili quanto inarrestabili cedimenti.

“Bodas de sangre”, Lorca e le nozze insanguinate.

Marianna Abbate

ROMA – Un’atmosfera magica, inquietante e un tantino afosa- quella delle tragedie di Garcia Lorca. Uno dei miei autori preferiti, sia per la sua lirica pesante e carica di duende, sia per i versi più riflessivi, ma soprattutto per il suo teatro. Nel tempo in cui in Italia Pirandello cercava con impeto un autore per i suoi personaggi, molti personaggi avevano trovato il loro autore in Garcia Lorca. Un uomo piccolino, scuro e introverso- ma passionale, forte e rivoluzionario. Ha osato sfidare il regime, un po’ in stile manzoniano- raccontando la storia contemporanea vestita di passato, e questa sfida è venuta a costargli la vita. Bodas de sangre- Le nozze di sangue, sono solo un pretesto per avvicinarsi alla sua letteratura teatrale. Un mondo popolato da donne, dipinte in ogni sfaccettatura: deboli e prive di diritti, ma forti delle tradizioni, del coraggio e di un desiderio di sopravvivenza che gli uomini sembrano avere perduto, in qualche lontana battaglia per una Libertà senza volto.

In un mondo in cui il razionalismo sembra aver preso potere su tutto, in cui in tutto il mondo si celebra la guerra, unica pulizia, la Spagna sembra galleggiare in uno spazio-tempo lontano, astruso. Che vede protagonista il surrealismo di Dalì e Bunuel, e il ritorno in auge del Cante Jondo e della magia Andalusa.

Le nozze combinate, contro la volontà di una sposa innamorata, non possono avere luogo. Perché l’amore vero e la passione preferiscono la morte e la tragedia ad una vita spenta e non voluta. I protagonisti sono spinti da forze occulte, molto più grandi di quelle che guidano e regolano la società contemporanea. Forze che sono metafora della poesia, della passione della libertà. Quelle stesse forze che porteranno gli spagnoli nelle piazze a combattere. E ridaranno ai poeti il loro posto nel mondo.

“Romancing Miss Brontë”: il genio delle sorelle Brontë rivive fra le pagine del romanzo di Juliet Gael

Alessia Sità

ROMA – Fin dai tempi del Liceo, ho sempre nutrito un profondo interesse per la letteratura del periodo vittoriano e in particolar modo per le tre sorelle Brontë: Charlotte, Emily e Anne. A soddisfare ulteriormente la mia curiosità  ha contribuito anche “Romancing Miss Brontë”, l’accurata biografia romanzata dell’americana Juliet Gael, pubblicata da Tea. In perfetta armonia fra realtà e finzione, questo straordinario romanzo ripercorre scrupolosamente le tormentate e drammatiche vicende della famiglia Brontë. Figlie di un sacerdote anglicano di origine irlandese, le tre sorelle trascorsero un’esistenza solitaria nella selvaggia natura delle brughiere dello Yorkshire. Dopo la prematura morte della madre e delle due sorelle maggiori, furono allevate dall’inflessibile zia Mrs. Branwell. L’isolamento però non impedì loro di ricevere un’eccellente istruzione, che favorì la creazione di un mondo fantastico e allo stesso tempo crudele. Nonostante le rigide regole e le tipiche consuetudine dell’Inghilterra dell’Ottocento, Charlotte, Emily e Anne sfidarono i pregiudizi di un’epoca e della gente, facendo conoscere al mondo intero il loro straordinario talento letterario, decisamente fuori dal comune.
Infranto il sogno di aprire una scuola presso la parrocchia e nostalgica di rivivere l’adrenalina culturale del periodo trascorso a Bruxelles, Charlotte persuase Anne ed Emily a pubblicare le loro poesie usando gli stessi pseudonimi dell’infanzia. Fu così che nel 1847, i tre fratelli Ellis, Acton e Currer Bell pubblicarono presso due note case editrici di Londra i loro romanzi – Jane Eyre, Cime Tempestose e Agnes Grey – destinati a suscitare l’interesse della critica e a diventare un vero e proprio successo mondiale. L’anonimato tenacemente difeso, soprattutto da Emily, contribuì per molto tempo ad alimentare il sospetto che vi fosse un unico autore per tutte e tre le opere. La grande popolarità suscitata nel mondo editoriale però non cambiò la solitaria esistenza del trio di scrittrici. Lo spettro della morte continuò a far loro visita prematuramente. Prima fu la volta di Branwell, l’unico maschio della famiglia vittima dell’oppio e dell’alcol, la cui degradazione fisica e morale divenne un vero tormento per l’intera famiglia; poi toccò anche alla ribelle Emily e alla dolce Anne, entrambe scomparse alla soglia dei trent’anni. Tenacemente e confidando solo nella forza della fede, la piccola Charlotte proseguì  il suo lavoro di scrittrice nel ricordo delle adorate sorelle. Con straordinaria capacità narrativa e con grande sensibilità, Juliet Gael ricostruisce, attraverso le vicende e le sofferenze di Charlotte Brontë, la storia, le passioni e gli amori di tre donne decisamente in contrasto con l’ideale femminile del periodo vittoriano, in quanto simbolo di coraggio e determinazione. “Romancing Miss Brontë” ha il merito di ricreare l’atmosfera di un’epoca e di commuovere il lettore in modo del tutto inaspettato.

Quando la legge assolveva le coscienze per “Un delitto d’onore”.

Giulio Gasperini
ROMA – Non sono passati molti anni da quando la legge serviva per assolvere le coscienze nei casi di delitti d’onore. Un uomo si scopriva “tradito” e la legge gli permetteva di rivalersi sulla donna “peccatrice”. Che poi l’uomo fosse un “padre-padrone” nessuno se ne curava: nessuna legge tutelava la donna dai capricci di un machismo violento e cieco. Giovanni Arpino, in questo suo romanzo, intitolato con scarna evidenza proprio “Un delitto d’onore” (Mondadori, 1960) per non farci mai perdere d’occhio l’inderogabile oggetto di analisi, offre una testimonianza letteraria di quello che significava macchiarsi di un tale crimine.
Gaetano Castiglia, giovane medico ostile al progresso e che preferisce condurre una vita sonnacchiosa nella sua Avellino piuttosto che proseguire il suo brillante futuro negli States, si scopre tradito dalla donna alla quale aveva destinato attenzioni e premure, finalizzate a una sua rieducazione e a un suo innalzamento sociale e (nelle intenzioni dell’uomo) finanche morale: come se vestirsi bene e saper parlare fossero garanzie d’integrità d’anima. Poco importa che la donna sia stata oggetto di violenze altrui. Poco importa se si sia fidata di un altro maschio che le ha promesso l’amore e le ha lasciato solamente il disincanto della violenza. (Le vagine ancora non parlavano: lo faranno molto dopo, con Eve Ensler). Quel che interessa il maschio legittimo è il sangue dell’imene; a macchiare un lenzuolo bianco da esporre come prova di virilità (per lui) e di sottomissione (per lei). Castiglia consuma il primo atto carnale con l’ansia di guardarsi, subito dopo, e di scoprirsi addosso le tracce della verginità della femmina. Ma non le trova e rimane sbigottito, spaventato, incredulo di fronte alla presa in giro, al tradimento evidente. Il suo esame di coscienza è breve e indolore: sa già quel che è giusto fare e lo compie con una freddezza da chirurgo, sgozzando la donna nel letto: come fosse un altare di sacrificio, gesto estremo verso qualche improbabile divinità.
Poi Castiglia scompare; e compare la legge, l’avvocato che accetta di difenderlo e sa che, dimostrati i fatti e reso evidente il “tradimento” della donna (offertasi come vergine ma già defraudata d’innocenza e serenità), nessuno lo condannerà e, anzi, gli offrirà modo di emendarsi e auto-assolversi. L’unico pericolo è la coscienza dell’uomo stesso, dell’assassino (“Ma io ho ucciso. Io, io solo. Voi venite a farmi la parte. Avete ragione, dovete scusarmi. Ma io solo ho fatto quel che ho fatto”); ma la legge sa come agire, sa come confondere colpa e giustizia, sa come crearsi giustificazioni fittizie, perché peggiore della condanna è solamente il rimorso (“Niente commedie. Rimorsi no, va bene? L’amore oltre la morte, e così via, benissimo, ma non tra noi, va bene? Capisci? In aula io non voglio pazzie, lamenti, pianti…”).
La narrazione di Arpino è di un estremo lirismo, severo nella lingua e nelle immagini, così come severo vuol essere l’insegnamento. Non c’è nessun giudizio, nascosto tra le sillabe. Ci sono soltanto immagini e parole crude, dure, pesanti come pietre. E come pietre vengono scagliate, a dimostrare che tutti noi abbiamo peccati. E che alcuni peccati, indipendentemente da tutto e da chiunque, non posson esser autorizzati col beneplacito della legge.

Quando “Trema la terra”

Marianna Abbate

ROMA – Dormi nel tuo letto, litighi con il tuo fidanzato, ti alzi e vai al lavoro che odi. Soffri per amore, sorridi alle nuvole, mangi/preghi/ami. All’improvviso La terra trema. Nessuno ti ha avvertito, anche se hai visto quel pazzo alla tv vaneggiare maremoti. La tua vita viene improvvisamente interrotta senza ma e senza spiegazioni. Non hai neanche il diritto di chiederti: perché proprio a me? Insieme a te sono state colpite centinaia, migliaia di persone- e ti è pure andata bene se sei ancora qui a raccontarlo.

Sono diciotto i racconti di questa raccolta pubblicata da Neo, e quattro i terremoti che hanno travolto il nostro paese e che gravano ancora oggi sulle accise della benzina. Ma non pensate di leggere un libro di cronache storiche di fatti lontani. Il terremoto è solo un pretesto : ognuno di questi racconti è una storia. Ci parla di persone, anche se chiamarle vere suona terribilmente scontato.

Il terremoto dura un attimo- un’eternità. Rimangono ferite, crepe nei muri, paura. Lutti.

Certe volte sconvolge l’esistenza, e un avocato affermato si trasforma in un barbone. Altre volte rimane nascosto, sotto la pelle, ed esce fuori sfocato e inodore nei racconti di un vecchio.

E il terremoto non ha reso tutti più buoni, non ha trasformato i malvagi in esseri riflessivi. C’è anche chi approfitta meschinamente delle porte aperte per accaparrarsi quanto più possibile, con quel tipo di delitto che porta giustamente il nome di sciacallaggio.

Accanto alla classica coppia di anziani che muoiono vicini, ci sono i mariti fedifraghi colti impreparati dal destino.

Anche gli autori sono diversi tra loro, alcuni come Massimo Cacciapuoti, hanno alle spalle esperienze editoriali importanti, altri sono alla loro prima pubblicazione. L’esperimento è riuscito, anche grazie all’attento lavoro di editing di Isabella Tramontano.

 

“La terza crisi”, come sconfiggere la crisi e difendere il futuro di imprese e famiglie

Silvia Notarangelo
ROMA – La parola crisi, in relazione al contesto economico, ha letteralmente invaso tutti i mezzi di comunicazione diventando sintesi di molteplici e inevitabili riflessioni. “La terza crisi” affrontata dal manager Danilo Bonato per Edizioni Ambiente, sembra, invece passare sotto silenzio pur essendo più devastante. Spesso minimizzata, la crisi ecologica presenta, infatti, una drammaticità che rischia di compromettere seriamente il futuro del pianeta.

Se i principali modelli di sviluppo economico, liberismo e statalismo, hanno evidenziato nel tempo le loro criticità, percorrere la strada di una decrescita o affidarsi al solo progresso scientifico potrebbe rivelarsi utopistico e pericoloso. Ecco perché la via d’uscita proposta da Bonato si chiama “progetto di rinascita del paese”. Un progetto che deve porsi, da subito, un obiettivo ambizioso: la ricerca di un equilibrio ecologico da perseguire imponendo dei limiti alle risorse prelevate e rendendo tale prelievo il più possibile rispettoso e compatibile con i cambiamenti che determinerà. Non solo. La rinascita di un Paese passa anche attraverso alcuni strumenti di regolazione esterna che un governo può mettere in atto. Rientrano in questa categoria finanziamenti e sgravi fiscali, contributi per quanti cercano di limitare l’impatto ambientale della propria produzione, ricerca e iniziative per ampliare le conoscenze e formare “capitale umano qualificato per costruire una crescita buona, quella qualitativa”. In quest’ottica, non può essere secondario l’apporto delle aziende e, in particolare, dei dirigenti d’azienda, di coloro che possono e devono farsi promotori di un reale cambiamento. In un piano di rilancio industriale non dovrà mancare un adeguato sviluppo del settore energetico ma anche una particolare attenzione nell’accesso e nell’utilizzo delle risorse naturali. Le possibilità e le metodologie ci sono, la biomimetica, l’analisi del ciclo di vita, un’accorata gestione dei rifiuti sono tutte strategie che già stanno fornendo ottimi risultati. Che cosa occorre ancora? Il coraggio di compiere “scelte virtuose”, magari impopolari ma sicuramente vincenti, come suggerisce Bonato.

“Bel Ami”, un personaggio che attraversa le epoche

Silvia Notarangelo
ROMA – Ci sono personaggi che attraverso le storie di cui sono protagonisti sanno catturare e mantenere inalterato nel tempo l’interesse dei lettori, suscitando, in un modo o in un altro, curiosità. È questo il caso di Georges Duroy, il “Bel Ami” del celebre romanzo di Guy de Maupassant, da cui è stato tratto l’ennesimo film che uscirà a breve nelle sale cinematografiche. Il libro, pubblicato nel 1885, presenta situazioni e temi che sono ancora oggi di grande attualità, lasciando trapelare una visione alquanto pessimistica della vita.

Georges Duroy vive, infatti, nel vuoto morale più assoluto cercando di sfruttare a suo favore i vizi della società per raggiungere ricchezza e successo. La sua ascesa sociale ha inizio grazie ad un incontro casuale, a place de l’Opéra, dove, tra la folla, riconosce un vecchio amico, il commilitone Forestier, ormai noto collaboratore del giornale “La Vie française”. È lui ad indicargli la strada “giusta”, a spronarlo ad intraprendere la carriera giornalistica dove “tutto dipende dalla disinvoltura”. Saper scrivere o meno sembra un dettaglio del tutto irrilevante. Georges, seppur con qualche dubbio, decide di accettare il consiglio dell’amico e comincia a frequentarne la casa riuscendo, in breve tempo, a conoscere il direttore del giornale e a farsi affidare una prima serie di articoli. E’ solo l’inizio. La sua nuova vita lo esalta riservandogli non poche soddisfazioni, complice anche un forte ascendente sulle donne che, di lì a poco, diventerà la sua arma vincente. Saranno proprio loro infatti, le donne, le artefici più o meno consapevoli, della sua fortuna. Se a Clotilde de Marelle, la prima indimenticabile amante, va riconosciuto il merito di aver introdotto il “suo” Bel Ami alle gioie della vita mondana, è il matrimonio con Madeleine, la vedova di Forestier, a consacrarne la posizione rendendolo uno dei giornalisti politici più affermati del momento. E allora perché non puntare ancora più in alto e mirare ad un posto in Parlamento? Attraverso un’abile manovra finanziaria e sostenuto dall’aiuto dell’ennesima amante, la moglie del direttore del giornale, Georges accresce ulteriormente il suo successo personale. Il Parlamento sembra ormai vicino, ma la sua fame di potere è insaziabile. Per sentirsi come “un re acclamato dai propri sudditi”, non c’è che un modo: un nuovo matrimonio con l’ambitissima ereditiera Suzanne.

“Parsifal e l’Incantatore”: Ludwig e Wagner.

Giulio Gasperini
ROMA –
Non ci sarebbe potuto essere titolo migliore per questa recensione: soltanto i loro due nomi, i protagonisti di questa storia, che Nicola Montenz, giovane studioso di musica e di filologia, ci narra in “Parsifal e l’Incantatore” edito da Archinto nel 2010. Ogni altro aggettivo, ogni altro termine sarebbe stato superfluo, inutile, eccessivo. Perché la storia, quella documentata, quella ricostruita dagli inchiostri e dalle grafie di corrispondenze e diari, sta tutta costì, tra quei due nomi, tra Ludwig e Wagner: tra, appunto, Parsifal e il suo Incantatore. Tra due personalità che potremmo definire, esagerando magari, borderline, al-di-sopra-delle-righe. Due uomini che esplosero di genialità, che finirono per asfissiare sé stessi per la grandezza delle loro prospettive, delle loro anime sempre assetate d’ignoto. In campi distinti, seguendo percorsi e tortuosità conoscitive e comportamentali diverse e stra-ordinarie (perché, appunto, al di fuori dell’ordinario), Ludwig e Wagner strinsero un rapporto convulso e complesso, in un reciproco tiranneggiare, dominare e subire; come in uno scontro combattuto su un fronte mobile, che di volta in volta vedeva l’uno nei panni della vittima e l’altro in quelli del carnefice.
Ludwig si entusiasmò all’ascolto di Wagner, e se ne volle nominare mecenate, protettore e finanziatore, in un ripristino di cortigianeria oramai lontana dalle mode del tempo e dal mondo stesso ma, nel caso del compositore tedesco, necessaria per farlo ardere di musica e farlo, soltanto su quella, concentrare. Wagner colse l’occasione, la indovinò in tutto il suo potenziale e non volle mai rinunciarvi, consapevole della volubilità della propria vocazione e ben più allettato dall’idea di aver un patrocinatore che, al pari suo, si infiammasse d’amore per l’arte fine a sé stessa – quella, ovvero, che già a quei tempi cominciava a far i conti con investimenti, entrate e ricavi.
Un teatro intero Ludwig innalzò al genio del musicista, quasi una sorta di tempio pagano. Tra incomprensioni e impulsi di feroce ammirazione, mentre ognuno parve cadere sotto l’assedio delle confuse vite private (per entrambi si trattò, forse, d’un puro orgoglio distorto il non voler arrendersi all’evidenza del loro essere), Ludwig alimentò il mito di sé stesso (nella sua furia architettonica da fiaba) e, tramite Wagner, il mito della sua opera. Wagner ne apprezzò l’intento, ne saturò sé stesso, si esagerò dispensatore ultimo di ogni saggezza. E approfittò della situazione, come soltanto i grandi geni sanno fare, perché consapevoli che le occasioni propizie sono poche; e che bisogna cogliere la messe seminata, anche se senza apparente né diretto merito.
Nicola Montenz conosce: merito pregevole. Conosce e sa farlo conoscere. Ha la sorprendente abilità di trasformare la storia – filologicamente ricercata e stanata nei documenti vivi e pulsanti – in una narrazione ammaliante e persino necessaria. Sa trasformare due figure polverose in persone (e non personaggi) corporee e palpitanti, assecondando un fluire narrativo sorprendente che riesce dissetante.

Wilwoosh: quando Youtube sbarca in libreria

Marianna Abbate

ROMA – Youtube pullula di divi di piccole e medie dimensioni. Ci sono personaggi divenuti famosi per i tutorial su qualsiasi cosa, persone che insegnano a truccarsi, a vestirsi, che danno consigli sulla vita sociale, sul benessere e sull’alimentazione.. E poi ci sono i divi. In Italia sono due, in particolare, quelli più famosi: Clio Makeup e Wilwoosh. Entrambi sono approdati in libreria, e hanno scalato spavaldamente ogni classifica di vendita.

Qual’è il segreto del loro successo? Sicuramente avere un bell’aspetto aiuta. Ma Wilwoosh, al secolo Guglielmo Scilla, non è solo un bel ragazzo da copertina. E’ autoironico, simpatico allegro e semplice. E con tutte queste qualità da bravo ragazzo, riesce anche a non essere noioso. Anzi, i suoi video sono veramente divertenti ed anche un po’ folli. Se non ci credete, potete visitare tranquillamente il suo Canale Youtube.

Il suo primo libro è edito da Kowalski, e si intitola 10 regole per fare innamorare. Un titolo che è anche un omaggio a quei tutorial sconclusionati che lo hanno reso famoso. Perchè l’amore, è un po’ come la Cocacola, la cui formula rimane un segreto. E qui il nostro temeraio Wilwoosh, si lancia nel tutorial estremo: quello dell’innamoramento.

Non so se seguendo le sue 10 regole riuscirete mai a far innamorare qualcuno, ma sicuramente leggendo il libro vi farete qualche sana risata.

E dopo aver letrto il suo libro, seguite un tutorial di Clio e andate tranquille al vostro appuntamento. Youtube non vi permetterà di fallire.