“La magnifica stronza. Perché gli uomini lasciano le brave ragazze”: il nuovo libro di Sherry Argov

Alessia Sità

ROMA – Dopo il successo di “Falli Soffrire” e “Falli Soffrire 2.0”, Sherry Argov torna in libreria con un nuovo lavoro pubblicato per Piemme editore: “La magnifica stronza. Perché gli uomini lasciano le brave ragazze”. Al centro della riflessione della brillante scrittrice e commediografa americana, è ancora una volta l’universo maschile e femminile, analizzato in un’ottica sempre più proiettata al matrimonio. Fin da subito, la Argov sottolinea che ‘la magnifica stronza non è un altro  di quei libri su come si accalappia un marito’, piuttosto vuole essere una sorta di ‘breviario’, ricco di spunti e consigli utili, per le donne che desiderano imparare a relazionarsi con la propria anima gemella, evitando però di trasformarsi in un misero zerbino solo per arrivare all’altare.
Con il suo stile pungente, ironico e lineare come sempre, Sherry Argov traccia il profilo tipico della ‘stronza’, puntualizzando come di consueto che non si tratta di una ‘donna cattiva o meschina’, ma di una donna sicura di sé e completamente autonoma, sia nella vita privata che in quella di coppia. Dalle numerose ricerche e interviste, rivolte principalmente a un pubblico maschile, emerge che in realtà ‘gli uomini non sono refrattari all’impegno, desiderano l’amore e il matrimonio proprio come le donne’.
In modo divertente e talvolta sarcastico, Sherry Argov spiega perché gli uomini sposano le stronze e non le brave ragazze; pagina dopo pagina, la scrittrice insegna al gentil sesso il modo migliore per approcciarsi col proprio partner, rivelando piccoli segreti e ‘perle di saggezza’ per essere sempre felici.  Basta passare ore e ore a preparare manicaretti per lui. Basta credere alla favola del principe azzurro. Basta essere sempre concilianti e annullare i propri interessi per fidanzati o spasimanti. Non dimenticate mai la regola numero 75: ‘Un uomo non sposa la donna che lo mette sul trono. Sposa la donna che dimostra di essere una sua pari… una donna speciale con la quale può condividere tutti i momenti speciali della sua vita’.

Il “Cantico dei Cantici”: il giorno che non valse l’universo intero

Giulio Gasperini
ROMA – Nei nostri appena archiviati anni Zero, in epoca di feisbuc-addicted e di nuove socialità sul web, in cui i messaggi durano il tempo di un errore e la fiducia è costantemente sotto pressione, nessuno avrebbe mai potuto rinvenire la giusta ispirazione per comporre il “Cantico dei Cantici”, il canto-per-eccellenza (unica forma di superlativo che la lingua ebraica conosca). Ad oggi, dopo millenni di poeti e di pennivendoli, codesto poema rimane il più alto e inarrivabile canto d’amore che l’umanità abbia partorito. O che abbia mai potuto godere, leggendo e rileggendolo senza mai stancarsi della perfezione del ritmo e dell’armonia delle sillabe.
Invocazioni ed esortazioni d’amore di uno sposo e una sposa che si scambiano perfette parole d’amore, plasmando immagini d’inaudita sensualità e sentimento che prende fiato e carne, che si appropria di un corpo e si costruisce un’anima per rimanere immortale come l’autore presunto di questo testo, il re Salomone. “Bàciami con i baci della tua bocca”, “Attirami a te, corriamo!”, “Corri, mio Diletto, / sii simile alla gazzella / o al cucciolo dei cervi, / sui monti dei balsami!”.
Nella nuova traduzione della Bibbia, edita nel 2008, le parole poetiche si son scrollate di dosso la polvere del tempo e dell’usura e son tornare a risplendere di tutta la loro potenza, di significante e di significato. Alcuni passi, addirittura, hanno così leggermente, ma consistentemente, modificato il loro significato da apparire quasi nuovi, come se il cantico fosse stato composto adesso, fresco di mente e di ispirazione. Il passo, ad esempio, che recita: “Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, / se trovate l’amato mio / che cosa gli racconterete? / Che sono malata d’amore!” corregge l’antica traduzione “che sono morta d’amore!”, reintroducendo un rapporto più paritario tra sposa e sposo che giova alla perfezione del Cantico stesso.
Il Cantico dei Cantici è erotismo allo stato puro, scevro di ogni volgarità e bassezza umana, perché l’amore stesso è considerata la perfezione più pura di erotismo: sicché “eros” – “amor” per Origene – è sia l’amore mentale che il trasporto fisico, in una perfetta sovrapposizione di significati da non esser mai stata più così raggiunta, in nessun’altra opera umana. Il Cantico è un libro della Bibba, ma mai si nomina Dio. Per questa sua anomalia (e scomodità) fu sottoposto alle interpretazioni più ardite, nell’ansia di giustificarne l’esistenza; fu salvato dai Padri della Chiesa soltanto attraverso una violenta interpretazione allegorica. Ma il Cantico dei Cantici non conosce soltanto spiragli per un’ipotetica giustificazione religiosa. È un canto che condivide immagini e suoni con altre culture, che attinge a un medesimo sostrato antropologico e figurativo: l’amante arriva rapido come gazzella, in una potente e sconvolgente immagine che già compariva in alcune, rare, poesie d’amore egiziane.
Al di là di chi l’abbia scritto, con quali intenti, quale vero e reale significato scorra sotto le immagini e le parole e le potenzi tangibilmente, l’opera non conosce rivali, né potrà mai temere confronti. Come ebbe a dire un rabbino nel II secolo d.C.: “L’universo intero non vale il giorno in cui Israele ebbe il Cantico dei Cantici”.

Ricordi situati in “via Case di Dozza”

Silvia Notarangelo
ROMA – Emozioni, ricordi, speranze. Gli appunti di Romea Sportelli Mirri, classe 1915, racchiusi nei suoi quaderni, sono stati raccolti in “via Case di Dozza”, un volume pubblicato dall’Editrice La Mandragora e capace di riservare una semplicità tutta da scoprire.

Via Case di Dozza è la strada dove Romea abita da ragazza, una via “più unica che rara”, una via dove tutti si conoscono, in cui la condivisione non è solo un buon proposito ma la realtà di tutti i giorni. Terza di sei figli, Romea non si sente “né carne né pesce”, ha una mamma, Ermelinda, che adora e un babbo, Antonio, innamorato forse più dei suoi canarini che dei suoi stessi figli.
Personaggi ed episodi di vita si susseguono tra le pagine dei ricordi. Un posto particolare spetta alla signorina Baldinotti, maestra di quella scuola elementare tanto rimpianta perché abbandonata troppo presto, ma c’è spazio anche per gli incantevoli carri del Carnevale, per i riti del giorno dei morti, per una rissa improvvisa in cui la protagonista, suo malgrado, si ritrova coinvolta.
Romea si affaccia prestissimo nel mondo del lavoro, prestando servizio presso botteghe e famiglie agiate, con esiti, purtroppo, non sempre piacevoli né gratificanti. Ha appena diciassette anni quando il tempo e le esperienze vissute la portano a definirsi “attenta, furba e scantata”.
Nella sua esistenza non mancheranno vicende tristi e lutti difficili da superare, ma anche un amore vero per il suo “Biondo” e un profondo affetto per le sue tre figlie.

“Acquasanta”, storia di alcune vite in sospeso

chronicalibri_recensione acquasanta_ottavianiGiulia Siena
ROMA
“Generosa, desiderosa di offrirsi attraverso appendici straordinariamente duttili, è di una bellezza di cui ci si può fidare: non intravedo insidie nel suo corpo catalitico. E quando dico corpo comprendo quella che tanti chiamano anima e cercano nel cuore, e che io rintraccio nelle pieghe della mente”. Una scrittura cerebrale è quella che contraddistingue Barbara Ottaviani, autrice di “Acquasanta” (Nuova Ipsa Editore).
Con questo suo secondo libro l’autrice – medico di professione e siciliana di terra e di indole – approda al romanzo. La storia è quella di una bambina in coma dopo un incidente e di una infermiera “in coma” di sentimenti. La donna si prende cura della bambina con devozione e il suo scopo, quasi del tutto inconscio, è quello di scoprire la storia della fanciulla in fin di vita per riscoprire il proprio percorso fino all’età adulta.

Le due donne non hanno nome. Gli altri protagonisti non hanno nome. Quasi nessuno ha un nome che ne definisca e ne “intrappoli” le caratteristiche di personaggi così forti e così universale in un unico e banale nome. Loro non hanno nomi ma si emozionano ed emozionano il lettore.

Il romanzo è breve, intenso, scritto con una cura quasi maniacale; scritto come a voler affermare qualcosa di più che una storia; scritto come un bisogno, il bisogno di dare voce al bambino che in noi; scritto per cambiare o rimediare a qualche errore del passato con la consapevolezza dell’età adulta.

“La mia banda suona il porn. La storia vera”


Alessia Sità

ROMA
– Al giorno d’oggi trovare un lavoro non è molto facile. La crisi purtroppo ha colpito tutti in diversi settori e sicuramente la musica non è da meno. Per non lasciarsi abbattere è fondamentale ingegnarsi e reinventarsi se è necessario. É questo quello accade, a grandi linee, ne “La mia banda suona il porn” un romanzo scritto da Raffaella R. Ferré e Paolo Baron, pubblicato da 80144 edizioni.
Accantonati riconoscimenti e premi illustri, uno dei quali ricevuti direttamente dall’indimenticabile Fabrizio De Andrè, quattro musicisti napoletani decidono di intraprendere un nuovo percorso professionale. Coraggiosamente Paolo, Gianni, Enzo e “l’altro” Enzo abbandonano la discografia ufficiale, per iniziare una nuova carriera come ideatori di colonne sonore per film porno. Le bizzarre avventure di questo insolito gruppo musicale iniziano a corso Secondigliano e continuano fra Roma e Milano. Dal famoso palco di Sanremo agli studi di una delle major dell’hard, passando anche attraverso la chat online notturna, per capire quale sia il vero pubblico fruitore di materiale pornografico. Dopo essere stati catapultati nel dietro le quinte di “Kiss me, baby” e “Pornoveline belle e porcelline” – i film hard dalle musiche originali studiate ‘ad hoc’ dalla band – i quattro ragazzi riusciranno a pubblicare un cd (in 3omila copie) dedicato completamente al ‘suono dell’amore’. Una raccolta accurata di brani sostanzialmente destinati a unire musica e sessualità, in grado di suscitare pensieri ed emozioni difficilmente esprimibili con le sole parole.
“La mia banda suona il porn” è la storia vera di chi nonostante le avversità e i problemi di tutti i giorni, ha avuto l’audacia di inventarsi un lavoro diverso e sicuramente singolare.

“Alture di Macchu Picchu”: là dove potremmo evitare la nostra “breve morte giornaliera”

Giulio Gasperini
ROMA – Tutti noi attendiamo la nostra “breve morte giornaliera”. Ogni ora, ogni battito che trascorriamo (in)consapevoli di noi, noi moriamo. Il concetto è antico, le disquisizioni sono state infinite. E tanti furon coloro che, a codesta ineluttabile condizione umana, cercarono di non sottomettersi troppo debolmente e offrirono vie di fuga, occasioni di rivalsa e di possibile vittoria. Pablo Neruda lo fece utilizzando il suo codice preferito e prediletto: la poesia. E lo fece scovando un esclusivo (e incredibile) angolo di mondo: le “Alture di Macchu Picchu” (Passigli, 2004) divennero, per lui, teatro unico e irrinunciabile della conservazione umana; un tentativo, insomma, per non tornar polvere e disperdersi nel vento, senza che rimanga alcuna traccia del sé stesso.
Lassù, su quelle alture gelose di sé stesse e straniere a qualsiasi sguardo, al riparo da ogni incombente assedio, lontane dalle notizie, dal pubblico, dalla frenesia del keep-in-touch, tutti vi potremmo ri-nascere, trasformati in fratelli. Lassù, dove le stagioni declinano il tempo, dove il sole e la luna comandano l’uomo, dove l’orologio si dimentica di ruotare, l’uomo curioso può persino esagerarsi essere perfetto, senza incertezze né dubbi, senza peccati da farsi perdonare né costanti crimini da dover scontare: “Io t’interrogo, sale delle strade, / mostrami il cucchiaio, lasciami, architettura, / rosicchiare con un bastoncino gli stami di pietra, / salire tutti i gradini dell’aria fino al vuoto, / grattare le viscere fino a toccare l’uomo”.
L’architettura di Macchu Picchu non è reale architettura, ma un’“architettura di aquile perdute”: è un “libro di pietra”, perché la pietra diventa natura, diventa il tutto che edifica l’uomo, che lo rende perfetto, che lo assiste in ogni sua azione e in ogni suo compito: “Attraverso la terra riunite tutte / le silenziose labbra disperse” e ritrovano la voce, riescono a raccontare di nuovo tutta la loro sapienza, tutte le loro esperienze così necessarie all’uomo per poterlo far giungere completo, uomo nel più profondo di ogni cellula: “Lasciatemi piangere ore, giorni, anni, / età cieche, secoli stellari”.
Macchu Picchu è “l’alto luogo dell’aurora umana: / il vaso più alto che contenne il silenzio: / una vita di pietre dopo tante vite”. E la pietra è la sola traccia che, dopo il suo trapasso, dell’uomo perdura. È la pietra il supporto su cui meglio si scrive e si deposita la memoria; è la pietra il pane; è la sorgente, la luce, è la “patria pura”, è “direzione del tempo”, in una litania che non conosce fine né distinzione tra sacralità e laicità, tra reale e immaginario, tra carne e fiato, in uno scontornamento evocativo di vocaboli, quasi formule alchemiche, che travasano la realtà nota e sovrappongono la pietra all’immagine e all’essenza stessa di Macchu Picchu.
“Datemi il silenzio, l’acqua, la speranza. // Datemi la lotta, il ferro, i vulcani. // Unite a me i vostri corpi come calamite. // Venite alle mie vene e alla mia bocca. // Parlate attraverso le mie parole e il mio sangue”: Macchu Picchu è la mèta ultima; oltre, non c’è che il non-sense del nulla.

Dylan Dog, tra esistenza, orrore e filosofia

Stefano Billi
ROMA – Se un buon libro si riconosce dalla copertina, allora “Dylan Dog. Esistenza, orrore e filosofiadi Roberto Manzocco (per Mimesis Edizioni) denota subito un appeal accattivante.

Ma oltre ai risvolti grafici, è il contenuto del testo che vanta un merito particolare. Infatti, “Dylan Dog. Esistenza, orrore e filosofia” si propone come una riscoperta filosofica di una tra le serie di vertice della Bonelli Editore, Dylan Dog per l’appunto. Perché le tavole del celeberrimo “indagatore dell’incubo” non si colorano solo di avventura, mistero, passione, umorismo, quotidianità, orrore. Tra le linee di china nera prendono vita orizzonti di pensiero e riflessioni esistenziali che rendono quel centinaio di pagine dell’albo mensile dylandoghiano un appuntamento imperdibile.

Allora, l’opera di Roberto Manzocco è un appiglio validissimo nel rileggere sotto una chiave filosofica i preziosi spunti disseminati da Tiziano Sclavi e colleghi nelle sceneggiature di Dylan Dog.

L’autore, come un moderno Virgilio dantesco, accompagna il lettore tra i significati più reconditi e le sfumature più sottili delle “zone del crepuscolo” ed altri luoghi noti al mondo dylandoghiano, svelando poi le contingenze, le affinità e i numerosi punti di contatto tra il buon vecchio detective dell’incubo e filosofi immensi (Heiddeger e Sartre, solo per citarne alcuni).

Non solo, poiché le avventure dell’inquilino di Craven Road 47 non rimangono un mero punto d’arrivo, ma piuttosto un punto di partenza per considerazioni ulteriori, che rendono il libro di Manzocco un ottimo saggio sul pensiero contemporaneo in merito a tematiche quali ad esempio l’amore, la morte, la verità, il destino.

Complice alla piacevolezza del testo è poi un tratto stilistico semplice e colloquiale, che rende ogni pagina scorrevole e di facile comprensione, caratteristica rara da scovare nei saggi che trattano di filosofia.

Comunque “Dylan Dog. Esistenza, orrore e filosofia” è un libro per tutti i palati, non soltanto per gli appassionati del fumetto bonelliano: anzi, proprio questo libro può essere l’occasione per esplorare una serie fumettistica italiana di notevole pregio come Dylan Dog, sulle scene ormai dal lontano ottantasette ma certamente insostituibile, soprattutto per tutti i suoi fans.

“Scene da una battaglia sotterranea”: l’arte della guerra e gli armadilli.

Giulio Gasperini
ROMA –
Forse, un tempo, la guerra ebbe un’arte: lo dimostrano le teorizzazioni, capolavori letterari più che strategici, da quella del generale Sunzi, nel VI secolo a.C., fino ad arrivare a Machiavelli, nel saggio “Dell’arte della guerra” (1520 ca.). Rodolfo Fogwill, nel suo straziante romanzo “Scene da una battaglia sotterranea”, pubblicato finalmente in Italia da SUR (2011), parrebbe raccontarci, all’opposto, una guerra che è tutto fuorché arte. Che è piuttosto bizzarra ironia dell’umano, sadica dimostrazione di ferocia, inaudita e immotivata violenza. Una guerra, insomma, che non rimane su carta, sulle mappe, sugli spostamenti delle pedine (una specie di Risiko istituzionale), ma che colpisce e affonda la carne, strazia e strania, abbatte e lascia incompiute le ore.
Scritto in soli tre giorni, durante l’assurda guerra delle Malvine (o, a preferenza, delle Falkland), il romanzo assume un punto di vista radicale, ma che mai diventa straniante; è un punto di vista che ci rende sempre protagonisti estremi della Storia. Siamo trascinati e trattenuti sottoterra, in gallerie e cunicoli dove vive, ridotta al buio e all’umidità, una società che si crea alternativa al mondo, che in cambio di sigarette e scatolette di cibo tradisce il suo ruolo e i suoi compatrioti, che avvantaggia il nemico ma sentendosi, così, paradossalmente, meno sola, meno sfruttata, meno dimenticata e illusa che difendere la patria sia il dovere di ogni cittadino, per la sopravvivenza dell’integrità della nazione offesa.
Sono gli armadilli, “Los pichiciegos”: soldati argentini costretti, come i totemici animali dell’America latina, a vivere nel sottosuolo, a percorrerlo e a sentirselo come una casa. Il titolo originale è proprio questo: “Los pichiciegos”, perché loro sono i catalizzatori della vicenda, loro sono i più evidenti risultati che la guerra, nella sua idiozia senza fine, nella sua più totale ed esclusiva mancanza d’arte, produce e alimenta. La guerra fa rumore alle loro spalle, sopra le loro teste, bombarda e soffoca, si sviluppa secondo le sue regole strane e stranianti. Ma, alla fine, la guerra diventa un pretesto, un accidente che autorizza a soffermarsi su quella società alternativa e straordinaria (perché fuori dal consueto); tanto che non sarà la guerra a ucciderli, ma un banale incidente causato da una loro trascuratezza. Fogwill vuole dirottare il nostro interesse verso questi uomini, verso la loro caratura umana, che si trovano ridotti ad animali, a bestie condannate e dimenticate da qualsiasi logica del mondo: ce li porge, ce li offre, ponendoli alla ribalta del testo, con uno sguardo che piega a benevola compartecipazione.
Grazie a SUR, una casa editrice indipendente e nata senza alcun capitale, attenta al rapporto coi librai indipendenti e alle nuove frontiere che la società impone di valutare, la letteratura latino-americana sta riscoprendo nuove voci, al di fuori dei soliti grandi blasonati (ma che poco osano e si innovano). Voci che nuove lo sono soltanto per noi, lettori italiani, ma che ci permettono di ammirare nuova letteratura e di leggere pagine d’inaudita bellezza, dove la febbre delle parole si allaccia alla passione politica e sociale.

La poesia batte il diritto

Stefano Billi

ROMA – Chronica Libri ogni domenica si occupa di testi scovati in preziose bancarelle, scoperti in librerie secolari, ritrovati nei magazzini di biblioteche poco frequentate. E poi di classici che hanno scritto la storia della letteratura e che hanno forgiato le coscienze; e poi di libri datati, di cui talvolta ci si scorda, ma di cui non ci si dovrebbe dimenticare mai, perché rifulgono ancora per la loro straordinaria bellezza. Queste sono le letture vintage.

Questo è anche l’ “Elogio dei giudici scritto da un avvocatodi Piero Calamandrei (la cui terza edizione, originariamente pubblicata negli anni cinquanta, trova ora una sua ristampa grazie all’editore Ponte Alle Grazie).

Giurista dalla statura elevatissima, Piero Calamandrei ha scritto pagine indimenticabili dove si mette in risalto l’importanza della Magistratura, professione così complicata nel suo aver a che fare, più che con il diritto, col difficile compito di giudicare ricercando una verità, se non altro processuale.

Pensando ad un elogio – soprattutto rivolto ad eccellentissimi signori, quali appunto i giudici – ci si aspetterebbe allora un cumulo di roboanti lodi, dove aggettivi da cerimoniale e frasi ad effetto costituirebbero l’unica impalcatura delle pagine.

In realtà, il libro racconta aneddoti di tanti anni di vita forense, di massime d’esperienza raccolte sul campo, di storture ed umanità di un sistema giudiziario che vede accomunati nella sofferenza del processo giudici e avvocati, entrambi chiamati a fare del diritto qualcosa di veramente giusto.

Umorismo d’altri tempi quello di Piero Calamandrei, che spinge il lettore a divenire consapevole di quanto importante sia la figura di chi per mestiere è chiamato a giudicare, sapendo in cuor suo il peso che deriverà da ogni plausibile decisione.

Singolare, oltretutto, che a tesser queste lodi sia proprio un avvocato: forse, soltanto chi quotidianamente scorge quanto penar comporta l’amministrazione della Giustizia può davvero ringraziare sinceramente la figura del giudice.

Curioso, infine, che attraverso un encomio della Magistratura anche la professione dell’avvocato trovi lustro (lontano dall’azzeccagarbugli di manzoniana memoria), segno evidente di come i destini dei togati siano per certi aspetti simili e coincidenti.

Un libro, “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”, straordinario nella sua attualità e nel suo stile signorile e nobile, che andrebbe assaporato quotidianamente per ritrovare una fede, quasi religiosa, nella Giustizia.

Linee di inchiostro indispensabili, quelle del Calamandrei, per chi decidesse di far della professione forense non solo il proprio mestiere, ma il proprio destino, consapevole che solo i cuori caldi, coraggiosi possono servire veramente la causa della Giustizia.

Ecco perché, nell’edizione originale, il fregio del libro mostrava una bilancia dove nel piatto più pesante era collocata una rosa ed in quello più leggero un codice: la poesia batte il diritto.

“Volevo essere Coco Chanel” o almeno trovare un posto fisso e non annoiarmi

Marianna Abbate
ROMA “Volevo essere Coco Chanel.” Ah quante di noi si sarebbero accontentate di diventare una delle sorelle Fendi. Ma nei libri, si sa bisogna sognare in grande. Vanessa Valentinuzzi al suo esordio letterario con Avagliano Editore, ci racconta una storia tra il romanzo allegro sullo shopping – che negli ultimi anni abbiamo imparato ad amare – e la nuda, cruda e triste realtà italiana sul precariato.

Non riesce a resistere ai vezzi stilistici, tanto che chiama la sua protagonista Ottavia Brandeschi: un nome da favola, decisamente nobile.
Si parte dal lavoro dei sogni, dal fidanzato dei sogni e dalla città dei sogni, o almeno di quelli legati alla moda: Milano. Ottavia fa la shoes designer, ovvero disegna scarpe per un marchio famoso, è fidanzata un giovanissimo modello e la sua vita sembra avere preso una piega molto positiva. Finchè tutto gli crolla addosso: perde lavoro, casa e fidanzato e si ritrova a lavorare in un call center a Roma.

Una storia comune nell’Italia dei nostri tempi, dove non importa quanto hai studiato o quanta esperienza hai, ma chi conosci e chi ti potrebbe dare una spintarella. E’ pur vero che l’autrice non rinuncia all’happy ending, ma è chiaro che si tratta solo di un sogno, qualcosa di immateriale che accade nei libri, dove un bel finale non si nega a nessuno. Potrebbe aver iniziato un nuovo genere letterario. Forse un giorno qualcuno scriverà un romanzo alla Valentinuzzi, come si parla oggi della Kinsella. Ma non voglio sembrarvi troppo negativa: i sogni a volte si avverano! E se anche così non fosse, i sogni sono una delle pochissime cose che non costa nulla.