“La palude e la balera” il libro di esordio di Adriano Marenco

Alessia Sità

ROMA – ‘Nella palude ci sono solo due stati atmosferici. Un caldo che brucia i pensieri. Una pioggia che annega i pensieri. Alla palude si crepa o di caldo o di odio. Mica si crepa soli di cecchino. Sotto una pioggia sabbiosa che quando casca pare non finire mai. E quando finisce, la pioggia si secca in un amen’.
Smarrimento, desolazione e dolore, sono queste le sensazioni che si provano leggendo il libro di Adriano Marenco, “La palude e la balera”, pubblicato da Edizioni Progetto Cultura. Nella palude ‘vivacchiano tranci d’esseri umani’ privi di nome e di memoria. Su questi ‘pezzi di uomo’ vigila uno spietato cecchino che, pur di mantenere l’ordine del posto o anche solo per porre fine al proprio tedium vitae, è pronto a mutilare gli abitanti senza alcuna pietà; e non fa alcuna differenza che si tratti di anziani, donne o bambini. L’unica speranza per questa misera gente, la cui vita è stata ormai ridotta ‘al grado zero dell’umanità’ , è soltanto l’illusione di poter raggiungere la balera ‘vera, con le lucette intermittenti e tutto il resto. Compreso il fresco dolce della sera’. Un luogo in cui nessuno potrà più rubare ‘pezzi di uomo, cuore, anima e lingua’ e dove ognuno potrà finalmente riavere un nome e la memoria del proprio passato. Nel libro di Marenco ogni personaggio è imprigionato in un ruolo: vecchio, bambini, pazzi, sposa, madre; tutti destinati a vivere in una condizione esistenziale misera e priva di gioia. Eppure, nonostante tutto, si intravede nelle figure femminili una flebile speranza di salvezza, una possibilità di riscatto da una condizione sociale sempre più degradante. “La palude e la balera”  è una logorante e inevitabile riflessione sul senso della vita e sullo straniamento estenuante di una società, convinta ormai che esista ‘un futuro  distante non più di 120 secondi’.

“Gli indifferenti”, Moravia


Silvia Notarangelo
ROMA – E’ una critica violenta e senza sconti quella che Alberto Moravia riserva alla classe borghese nel suo romanzo d’esordio, “Gli Indifferenti”.
Mariagrazia, Carla, Michele e Leo, i protagonisti, sono espressione di una borghesia sottomessa, priva di qualsiasi attitudine morale e persa in una squallida apatia.
La storia si sviluppa in soli due giorni, in un’atmosfera resa insopportabile proprio dai contrasti tra i quattro. Mariagrazia Ardengo è una madre vedova, sull’orlo del dissesto finanziario, impaurita dal tempo che passa ma soprattutto gelosa di un amante, Leo, avido e sicuro di sé, intenzionato a impossessarsi dell’ultima proprietà della famiglia Ardengo, la villa.
Carla e Michele sono i due figli di Mariagrazia. La prima vorrebbe evadere da una realtà che sente soffocarla ma non trova la forza per farlo. Così, si rassegna, senza alcun entusiasmo, ad accettare il corteggiamento di Leo fino a decidere di sposarlo.
Michele è l’unico che, apparentemente, cerca di affermare la propria personalità, nell’illusione di riscattarsi. Ma l’indifferenza, questa condizione di torpore morale che accomuna tutti i personaggi, non risparmia neanche lui. “Vado ad uccidere un uomo”, si ripete avvicinandosi alla casa di Leo. Eppure, la sua andatura è lenta, tranquilla, non c’è furia né sdegno. Anche gli sforzi per ricordare i motivi che lo stanno inducendo ad un gesto tanto estremo sono velleitari. Già prima di entrare, infatti, prova “gioia e sollievo”, al pensiero che Leo possa non essere in casa. È solo un presagio di ciò che succederà di lì a poco. Dalla rivoltella di Michele non partirà alcun colpo, perché l’arma non è mai stata caricata. La resa del giovane è compiuta. Anche lui, come i suoi familiari, soccombe, vittima di una malattia che impedisce qualunque impulso di ribellione, che frena ogni tentativo di cambiamento, che rende incapaci di agire.

“Acquasanta”, storia di alcune vite in sospeso

chronicalibri_recensione acquasanta_ottavianiGiulia Siena
ROMA
“Generosa, desiderosa di offrirsi attraverso appendici straordinariamente duttili, è di una bellezza di cui ci si può fidare: non intravedo insidie nel suo corpo catalitico. E quando dico corpo comprendo quella che tanti chiamano anima e cercano nel cuore, e che io rintraccio nelle pieghe della mente”. Una scrittura cerebrale è quella che contraddistingue Barbara Ottaviani, autrice di “Acquasanta” (Nuova Ipsa Editore).
Con questo suo secondo libro l’autrice – medico di professione e siciliana di terra e di indole – approda al romanzo. La storia è quella di una bambina in coma dopo un incidente e di una infermiera “in coma” di sentimenti. La donna si prende cura della bambina con devozione e il suo scopo, quasi del tutto inconscio, è quello di scoprire la storia della fanciulla in fin di vita per riscoprire il proprio percorso fino all’età adulta.

Le due donne non hanno nome. Gli altri protagonisti non hanno nome. Quasi nessuno ha un nome che ne definisca e ne “intrappoli” le caratteristiche di personaggi così forti e così universale in un unico e banale nome. Loro non hanno nomi ma si emozionano ed emozionano il lettore.

Il romanzo è breve, intenso, scritto con una cura quasi maniacale; scritto come a voler affermare qualcosa di più che una storia; scritto come un bisogno, il bisogno di dare voce al bambino che in noi; scritto per cambiare o rimediare a qualche errore del passato con la consapevolezza dell’età adulta.

“La mia banda suona il porn. La storia vera”


Alessia Sità

ROMA
– Al giorno d’oggi trovare un lavoro non è molto facile. La crisi purtroppo ha colpito tutti in diversi settori e sicuramente la musica non è da meno. Per non lasciarsi abbattere è fondamentale ingegnarsi e reinventarsi se è necessario. É questo quello accade, a grandi linee, ne “La mia banda suona il porn” un romanzo scritto da Raffaella R. Ferré e Paolo Baron, pubblicato da 80144 edizioni.
Accantonati riconoscimenti e premi illustri, uno dei quali ricevuti direttamente dall’indimenticabile Fabrizio De Andrè, quattro musicisti napoletani decidono di intraprendere un nuovo percorso professionale. Coraggiosamente Paolo, Gianni, Enzo e “l’altro” Enzo abbandonano la discografia ufficiale, per iniziare una nuova carriera come ideatori di colonne sonore per film porno. Le bizzarre avventure di questo insolito gruppo musicale iniziano a corso Secondigliano e continuano fra Roma e Milano. Dal famoso palco di Sanremo agli studi di una delle major dell’hard, passando anche attraverso la chat online notturna, per capire quale sia il vero pubblico fruitore di materiale pornografico. Dopo essere stati catapultati nel dietro le quinte di “Kiss me, baby” e “Pornoveline belle e porcelline” – i film hard dalle musiche originali studiate ‘ad hoc’ dalla band – i quattro ragazzi riusciranno a pubblicare un cd (in 3omila copie) dedicato completamente al ‘suono dell’amore’. Una raccolta accurata di brani sostanzialmente destinati a unire musica e sessualità, in grado di suscitare pensieri ed emozioni difficilmente esprimibili con le sole parole.
“La mia banda suona il porn” è la storia vera di chi nonostante le avversità e i problemi di tutti i giorni, ha avuto l’audacia di inventarsi un lavoro diverso e sicuramente singolare.

“Zagreb”

Aìsara_recensione Zagreb_chronicalibriSilvia Notarangelo
ROMA – L’orrore della guerra raccontato dagli occhi di un adolescente: la follia omicida, l’incredibile senso di onnipotenza, la straziante presa di coscienza. Si legge tutto d’un fiato “Zagreb”, il coinvolgente romanzo di Arturo Robertazzi, pubblicato da Aìsara.

Il protagonista del libro è un ragazzo che, inaspettatamente, si ritrova complice e artefice di un terribile quanto inarrestabile vortice di violenze. Al grido di “Puntare! Mirare! Sparare!” assolve, con una certa soddisfazione e leggerezza, al compito di eliminare i tanti prigionieri racchiusi all’interno di una fabbrica dismessa, la Base. Prigionieri che hanno perso le loro fattezze umane per diventare una “creatura informe, con cento occhi e cento gambe”.
Tra di loro, silenzioso e quasi irriconoscibile, si nasconde un vecchio amico del protagonista: Dražen Vivić, un ragazzo come lui, uno dei tanti che, improvvisamente, la guerra ha trasformato in un nemico da sterminare. Eppure sono proprio i suoi occhi a restituire la vista al protagonista, a fargli scorgere, per la prima volta, non più una massa indefinita ma “tanti disperati sull’orlo della fine”. Una terribile consapevolezza inizia ad affiorare: “la Base è un mostro che ingoia carne e sputa ossa, è un mostro che mangia uomini e vomita soldati”. Dopo tre mesi di assedio, non c’è alcun vincitore, solo un’infinità di sconfitti.
Il primo desiderio del ragazzo, allora, non può che essere quello di scappar via, allontanarsi il più possibile da un inferno in cui si è lasciato trascinare. Prima, però, deve salvare Dražen e Darka, la sua Darka, quella ragazza che aveva conquistato il suo cuore e che ora si ritrova, nel buio di una cella, ad attendere il suo turno.
Anche la guerra, tuttavia, può riservare dei colpi di scena e se è scontato non aspettarsi un happy end, ci penserà, comunque, una bomba scagliata sulla Base a mettere tutti a tacere, a seppellire sotto le macerie tutti quegli uomini divenuti una “Bestia colma di odio e assetata di morte”.

“Tramonti d’Occidente”: il romanzo d’esordio di Emilia Blanchetti

Alessia Sità

ROMA – “ Ci sono luoghi dove dovresti essere. Le responsabilità, i doveri, il tuo posto nel mondo, la voglia di fuggire e di lasciarsi tutto alle spalle, la voglia di sparire, la certezza che può cambiare le cose, il bisogno di espandersi nel cosmo e di fondersi con un sentire più vasto. E poi c’è casa tua: il posto che ti sta stretto, che ti soffoca a volte, che ti stritola, privo di slanci selvaggi e di eroiche planate, pieno di ordinarie insidie.
Quante volte sentiamo il bisogno di evadere, di alienarci da tutto e tutti? Quante volte ci sentiamo insoddisfatti? Non dimentichiamo però che “la vita è un semplice e tumultuoso susseguirsi di episodi minori. A volte si può ripartire […] a volte invece è troppo tardi.
Nel suo romanzo d’esordio,“Tramonti d’occidente”, pubblicato da Autodafè Edizioni, Emilia Blanchetti spinge a riflettere sulle imprevedibili dinamiche dell’animo umano e su come la vita sia molto spesso una corsa disperata contro il tempo. Improvvisamente, tutto può cambiare. La sensazione di essere prigionieri di responsabilità, ambizioni e potere svanisce non appena sopraggiunge la consapevolezza di aver perduto qualcosa di terribilmente importante.
Claudio conduce apparentemente una vita tranquilla: è sposato con Daria, dalla quale ha avuto una figlia, ed è un professionista stimato e brillante. Spesso però, le apparenze ingannano. Dietro la maschera di uomo colto e affermato si nasconde un’anima logorata da un terribile segreto. Improvvisamente, tutte le sue certezze, consolidate faticosamente nel tempo, crollano sotto il peso massiccio di pensieri e sensi di colpa. Il rimorso per aver commesso qualcosa di abominevole spinge l’uomo a intraprendere un viaggio non solo fisico, ma soprattutto spirituale. Un viaggio alla ricerca della propria identità smarrita. Fra drammi e tradimenti, la vicenda di Claudio si inserisce in una storia drammaticamente corale. Sullo sfondo di tre città, Roma, Torino e Milano, le vulnerabili esistenze di Daria, Nina, Angela, Alberto, Manu, Nichi, Amina, sono destinate a incontrarsi e intrecciarsi. Gradualmente, ogni personaggio prende coscienza di essere vittima di qualcosa di incontrollabile e di terribilmente ‘umano’. Il lettore assiste impotente a un susseguirsi di tragici eventi destinati a mutare irreversibilmente le vite dei singoli protagonisti.
Con una scrittura lineare e dettagliata, Emilia Blanchetti riesce a fare emergere il senso di inquietudine e di smarrimento che accomuna ogni singolo personaggio. Fra violenze sessuali, terrorismo, vari abbandoni, l’incapacità di guardare avanti e di costruire un futuro diventa il dramma collettivo di un’umanità vittima di se stessa.

“La ragazza di Bube”

Silvia Notarangelo
ROMA – Ci sono la resistenza e il dopoguerra, tanto cari alla narrativa neorealista, ma anche il sentimento e l’antichissimo topos della separazione degli amanti ne “La ragazza di Bube”, il romanzo di maggior successo di Carlo Cassola.
Toscana, 1945, le formazioni partigiane si sciolgono e i militanti tornano a casa. Tra di loro c’è Bube, un ragazzo impulsivo che, sulla strada del ritorno, decide di fermarsi dalla famiglia di Sante, un suo compagno rimasto ucciso. Qui incontra Mara, la sorella di Sante, e tra i due nasce subito un timido sentimento, segretamente alimentato da scambi di biglietti e fotografie.
La situazione, però, precipita quando Bube, resosi protagonista di un omicidio e di un altro incidente in cui aggredisce un prete, diventa un ricercato. Le occasioni di incontro con Mara si fanno più sporadiche e pericolose. Bube, ormai consapevole della gravità della sua posizione, decide di espatriare in attesa di un’amnistia. Mara non può seguirlo e, così, prima di separarsi, i due si promettono reciprocamente.
Il tempo passa, le notizie sono incerte e la ragazza, complice l’incontro con Stefano, un giovane operaio, sente affievolire, a poco a poco, il sentimento per Bube. I suoi dubbi sono, tuttavia, destinati a dissolversi. Arrestato in Francia e costretto a subire il processo, durante un colloquio in carcere Bube le confessa che è ancora lei il suo unico pensiero. All’improvviso, la confusione di Mara si trasforma in consapevolezza del proprio ruolo e delle responsabilità che si è assunta. Non può abbandonarlo proprio ora, perché lei è “la ragazza di Bube…e il suo posto è accanto a lui. Per sempre”.

“Gli occhi di mia figlia”, il romanzo d’esordio di Vittoria Coppola

recensione ChronicaLibri Gli occhi di mia figliaGiulia Siena
ROMA “Lasciala guardare il mondo con i suoi occhi, anche nei colori più bui, solo così non scapperà quando non si sentirà all’altezza della vita…”. Dana deve guardare il mondo con i suoi occhi, deve amare e provarsi nonostante le costrizioni della sua rigida famiglia e l’organizzazione maniacale di sua madre. Infatti quest’ultima, Amanda, ha già deciso ogni minimo dettaglio dell’esistenza della sua bambina.

Il romanzo di Vittoria Coppola, “Gli occhi di mia figlia” pubblicato dalla Lupo Editore si apre con sfumature di poesia e una finestra dischiusa sul racconto dalla stessa autrice. Siamo in Toscana, a Siena nei primi anni Settanta e Dana ha quasi diciotto anni. “Dana è la protagonista di un amore che le occupa il cuore per anni, tutti i giorni e tutte le notti”. Vive la bellezza di un amore intenso e inaspettato, Dana scopre la passione per “il pittore di sguardi tristi” lontana dagli occhi bulimici della società borghese. Dana rincorre il suo sogno celandosi dietro lettere e piccole fughe, Dana è talmente giovane da commettere errori che la porteranno lontano da chi ama. Ma non è lei che lo ha deciso. La vita di questa delicata adolescente sarà segnata dalle decisioni di sua madre: Dana è solo un’attrice nella sceneggiatura già scritta da Amanda.
La protagonista si muove inconsapevole, ignara della piega che sta prendendo la sua vita tra Parigi e Siena. Ma il destino non segue dettami prestabiliti; il destino – così come l’amore – riuscirà a rendere Dana una donna consapevole del suo passato, a svegliarla dal torpore degli anni e farle riconoscere nelle tele lo sguardo che fin a quel momento non aveva occhi. Perché “l’amore è unico: a volte nasce dal niente, cresce con niente, si spezza per niente”.


Creatrice di tanto amore e di un destino beffardo ma giusto è Vittoria Coppola, scrittrice salentina al suo esordio letterario. L’autrice, con “Gli occhi di mia figlia” raggiunge il suo obiettivo: “Lo scopo che mi prefiggo nel momento in cui inizio a riempire pagine di parole e sentimenti, è quello di emozionare, regalando a chi mi privilegia leggendomi, attimi personalissimi di evasione dalla realtà […]”
La sua scrittura, già matura nell’intreccio narrativo, fa viaggiare i personaggi con le proprie gambe. Il romanzo prosegue a ritmo spedito, incalzante e concitato, ma qualche dettaglio andrebbe sottolineato – la vita in Italia negli anni Settanta e le strade di Parigi? – frutto solo di un po’ di inesperienza. A quest’ultima si può sempre rimediare… noi siamo pronti a leggere ancora questa promessa della narrativa pugliese.

“L’enigma della pietra”: l’intrigante romanzo di Maurizio Agostini

Alessia Sità
ROMA – “Aelia Laelia Crispis/né uomo ne donna, né androgino / né bambina, né giovane, né vecchia / né casta, né meretrice, né pudica /ma tutto questo insieme. / Uccisa né dalla fame, né dal ferro, né dal veleno, / ma da tutte queste cose insieme. / Né in cielo, né nell’acqua, né in terra, / ma ovunque giace, / Lucio Agatho Priscius / né marito, né amante, né parente, / né triste, né lieto, né piangente, / questa / né mole, né piramide, né sepoltura, / ma tutto questo insieme / sa e non sa a chi è dedicato”.
Un intrigante mistero legato a un’antica iscrizione latina, probabilmente del XVI secolo, fa da sfondo a “Aelia Laelia Crispis. L’enigma della pietra”, il nuovo romanzo di Maurizio Agostini pubblicato dalle Edizioni Pendragon.

La  tranquilla vita di Marcello viene scombinata dalla misteriosa morte dell’amico Piero.L’improvvisa tragedia spinge l’uomo a fare chiarezza sulla strana vicenda che, sorprendentemente, sembra essere collegata alla falsa iscrizione funeraria della Pietra di Bologna. Ad alimentare i sospetti sulla morte di Piero contribuiscono anche una serie di mail datate simbolicamente venerdì 13 ottobre 2007, e alcuni doni apparentemente casuali. Il desiderio di scoprire cosa si nasconda dietro tutta questa strana vicenda, spinge Marcello a coinvolgere anche l’affascinante e sagace Francesca. La loro determinazione e il loro desiderio di verità li porterà fino ad Edimburgo; ed è proprio nella bellissima città, sede di un importante esperimento genetico, che l’indagine giunge finalmente ad una svolta importante e decisiva.
Con grande capacità narrativa, Maurizio Agostini ci riporta indietro nel tempo, alla scoperta di uno dei misteri più noti della Bologna esoterica, facendoci rivivere i segreti dei Templari e, al contempo, scoprire i misteri dell’Ordine dei frati Gaudenti.
Con uno stile brillante e lineare, l’autore ci regala un romanzo-verità sull’intrigante mistero di Aelia Laelia Crispis, un ‘giallo’ che da secoli è al centro delle divergenti interpretazioni degli studiosi e che ancora oggi suscita la curiosità di molti studenti.

"La forma incerta dei sogni", l’immaginazione sconfina nella realtà

Marianna Abbate
ROMA Ci sono diversi punti di vista. O, come direbbe Einstein, tutto è relativo. Ci sono uomini che per tuo padre sono degli eroi e per lo stato sono degli assassini. Per te, infine, sono uomini normali, che hanno dovuto fare delle scelte. A volte hanno preferito l’opzione giusta, altre quella sbagliata, altre volte ancora non è possibile definirne la natura. “La forma incerta dei sogni”, il libro di Leonora  Sartori edito da Piemme, parla di scelte.
Perché questa è la vita. E questi sono i volti di quelle sei persone di spalle sull’adesivo in camera di Leo. Sei persone accusate di omicidio che compaiono nella vita di una bambina come dei fantasmi. E che quella stessa bambina, una volta cresciuta, vorrà conoscere.
Scoprire gli orrori dell’apartheid porterà Leonora a comprendere comprendere che a volte la vita è guidata dal caso, e che è facile rimpiangere alcune decisioni prese sotto l’impulso del momento. L’impegno politico dei suoi genitori, così lontani dalla guerra che odiavano, le sembrerà anacronistico. Ma lo guarderà con la tenerezza di chi capisce il sentimento.
Il romanzo della Sartori si legge con avidità e con passione. Soffrendo di quel male di vivere che ha guidato le scelte dei suoi personaggi e riconoscendosi negli atteggiamenti della protagonista. In quel desiderio di conoscere e di capire che è, probabilmente, l’unica scelta possibile.