Fabio Piacenti presenta “La giustizia di Icaro”

la giustizia di icaro
Al suo esordio letterario con “La giustizia di Icaro” (Vertigo Edizioni), Fabio Piacenti dimostra ironia, sensibilità, attenzione ai dettagli e, soprattutto, una particolare attitudine a cogliere e a descrivere le tante sfumature dell’animo umano. Chronicalibri lo ha intervistato.
Fabio Piacenti, sociologo e presidente dell’Istituto di ricerca socio-economica Eures. Come nasce la sua passione per la scrittura?
La passione per la scrittura mi ha sempre accompagnato, per le sue specifiche potenzialità espressive. Scrivo per lavoro, per raccontare o spiegare questioni e fenomeni economici, statistici, sociali. La narrativa e la poesia appartengono ad un’altra sfera espressiva – anche sotto il profilo linguistico – di cui avvertivo una forte spinta negli anni della formazione universitaria, quando tuttavia non riuscivo a darle un indirizzo compiuto.
È stata necessaria una lunga maturazione per dare concretezza alle spinte della scrittura giovanile; ma oggi più che mai, in un tempo in cui sempre più i cinguettii, gli sms e gli emoticon surrogano l’articolazione dei sentimenti e del pensiero, la passione per la scrittura, la ricerca della parola, si rinnova e si rafforza come unica forma espressiva ancora capace di restituire centralità all’infinita ricchezza delle gradazioni e dei dettagli che rendono unico e per questo riconoscibile ciascun individuo.

“La giustizia di Icaro” è il suo primo romanzo. Un titolo singolare, a cui accenna nel libro parlando della necessità di “rinnovare il volo di Icaro” come antitesi alla condizione di vivere “aggrappati alla meschina consapevolezza di averne previsto la caduta”. Da cosa scaturisce la scelta di questo titolo?
La scelta del titolo, che nel corso della stesura del romanzo ho più volte modificato, nasce dall’esigenza di condensare i significati di una storia complessa in cui giustizia e vendetta, conservazione e desiderio di cambiamento, ribellione e rinuncia si sovrappongono e si alternano, affidando al volo di Icaro, al suo richiamo ancestrale al bisogno di liberazione, la speranza della rottura di una trama già scritta.
La giustizia di Icaro è quindi la chiave dell’identità di chi cerca, attraverso il compimento della propria esistenza, di “contaminare l’intero senso del mondo”; è una ricerca di significato, è la scoperta di una rivendicazione che diviene emergenza; è la scelta irreversibile della parte in cui stare, anche laddove tale posizione comporti il rischio di un estremo sacrificio.

La storia si sviluppa seguendo e svelando il sottile meccanismo del potere visto da una particolare prospettiva, quella del sistema televisivo. Quanto le vicende dell’attualità politica hanno influito sulla tematica?
Più che di attualità parlerei di un presente politico, nel senso di una perdurante oscurità che sta investendo ormai da diversi decenni il nostro Paese. Una dimensione in cui sempre più spesso la classe dirigente, più che uno specchio del corpo sociale, ne rappresenta il volto e l’anima peggiore. Il libro racconta le complicità e i compromessi dell’agire politico, del potere che conserva se stesso premiando “l’antropologia dell’uomo in vendita”, cioè dell’uomo che gli appetiti personali rendono massimamente funzionale alla conservazione del potere: questo meccanismo trova nella figura del “Presidente della Televisione di Stato” una rappresentazione ideal-tipica in cui si condensano la brama del dominio, l’appropriazione indecente della cosa pubblica ed il richiamo al sistema dei media come strumento capace di mascherare la mediocrità del potere. Sotto questo aspetto il richiamo al presente dell’Italia è innegabile.

Il protagonista è appena riuscito a realizzare il suo sogno: diventare il Presidente della televisione pubblica. Una vera e propria rincorsa alla poltrona, fatta di “baciamano, compromessi, tradimenti”. Un personaggio onestamente difficile da difendere, a cui è possibile trovare delle giustificazioni?
Se la trama del romanzo, così come l’esplorazione dell’anima dei suoi protagonisti, spingono il lettore ad una naturale empatia verso le sue più positive figure (Caterina, la Professoressa, il magistrato Luigi, il giovane commesso in prova), l’immediata riprovazione suscitata dalla figura del Presidente lascia in più occasioni spazio ad una faticosa sospensione del giudizio morale, almeno da parte della sua diretta antagonista Caterina; tale scelta consente di lasciare aperta la riflessione sulle motivazioni profonde del comportamento, dove la ricerca ossessiva dell’affermazione personale, la meschinità o l’assenza di rispetto verso il prossimo sembrano dettati da una necessità bio-psichica vasta e profonda.
Il valore vincolante del libero arbitrio, la responsabilità individuale per le conseguenze del proprio agire restano integri, ma l’assoluta mancanza di autostima, la condizione psicologica e materiale di “eterno secondo” del Presidente, contro cui si accorge di dover convivere anche una volta acquisita la posizione di “primus” (la poltrona del Presidente della Televisione di Stato) rendono quasi prevedibili i suoi comportamenti, non giustificandoli ma spiegandone al lettore una componente forte dell’origine. La riflessione di Luigi il Magistrato sulla genesi del male che cammina sulle gambe degli uomini, e sul tentativo vano di sconfiggerlo (l’impossibilità di “alzare il calice della vittoria”), esprime anche attraverso un linguaggio intenzionalmente involuto e confuso, la complessità di tale enigma.

Tra i tanti spunti sociali e psicologici che il libro offre, emerge anche la dimensione dell’essere genitore con modalità e risvolti molto diversi…
In un romanzo che si sviluppa proprio a partire dal profilo biografico di tutti i suoi attori, la genitorialità detiene un ruolo primario. Una genitorialità agita o subita in forme molto diverse dai protagonisti del romanzo, a partire dalla maternità mancata di Caterina in cui si annida la sua rinuncia a cercare una via di realizzazione nella sfera privata; c’è la paternità del Capitano, piena, intensa e immortale, ma sacrificata al dominio degli eventi esterni; c’è la maternità della Professoressa, che spiega l’intero significato e ciclo dell’esistenza: una maternità in cui la dimensione affettiva, la conoscenza e la scoperta quotidiana, la trasmissione di significati e di valori, la spinta a “contaminare l’intero senso del mondo” sono i fondamenti necessari del rapporto madre-figlio. C’è infine la genitorialità del Presidente, la figura di un padre “anaffettivo e non di rado violento” che non lo ha mai stimato, che lo ha reso per sempre insicuro; una paternità rudimentale che il Presidente replica verso i suoi stessi figli – mai centrali nel suo percorso di vita -, i quali ormai adolescenti lo ricambiano con rassegnato distacco e disconoscimento critico.
In sintesi, il modo in cui è agita la genitorialità connota nettamente l’identità dei protagonisti del romanzo, assumendo addirittura un valore predittivo in relazione a ciò che saranno capaci di essere.

Il romanzo è ricco di descrizioni, immagini, sogni veri e a occhi aperti. Qual è stata, se c’è stata, la difficoltà maggiore che ha incontrato nella sua stesura?
La difficoltà principale è stata forse quella di trovare un equilibrio tra lo sviluppo della trama – caratterizzata da un impianto semplice e lineare -, la presenza forte, a tratti invasiva, di una “voce narrante” e l’esigenza costante di perfezionare il profilo psicologico e caratteriale dei personaggi. Una seconda difficoltà è stata quella di riuscire a coinvolgere il lettore nei primi capitoli, visto che questi sono quasi interamente dedicati alla costruzione dei profilo dei due principali protagonisti. Una terza difficoltà è stata infine quella di dare al tempo “esterno” in cui si sviluppa il romanzo, cioè ad un aspetto marginale nel disegno dell’autore, una dimensione e una sequenza corretta e univocamente inquadrabile dal lettore. Insomma, trattandosi di una prima esperienza e di una trama sviluppata “in corso d’opera” e più volte modificata, il rischio è stato quello di non riuscire a restituire uniformità e coerenza a tutte le componenti del tessuto narrativo.

La storia si chiude senza vincitori né vinti. E’ possibile ricavarne, comunque, un messaggio positivo?
Il messaggio positivo è nell’ultima pagina del romanzo, nella possibilità degli individui di essere attori di un cambiamento, di rompere i singoli tasselli di un sistema di potere per sua natura in costante equilibrio.
Se è vero che la capacità di rigenerazione del potere politico-burocratico (impersonata dal Presidente) che opprime chi vi è escluso, è vista come una “legge sociale” che il nostro tempo tende a riproporre senza soluzione di continuità, il messaggio positivo è nella possibilità reale di rompere, di tagliare almeno alcuni fili di questa trama: si tratta di una chance che la volontà, la determinazione e talvolta il sacrificio delle “mosche bianche” disseminate nel presente (Caterina, Luigi, Francesco, lo stesso Capitano), possono realizzare.
Il messaggio positivo è in un volo di Icaro, che comunque faticoso e aleatorio, non sempre e non necessariamente deve concludersi con la sua caduta.

Dopo questo primo approccio alla narrativa, sta già lavorando a qualche nuovo progetto?
Si, sto lavorando a tre diversi progetti che spero di portare a compimento con intervalli annuali: il primo è una raccolta di racconti brevi, ispirata all’impianto dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Il secondo è un romanzo familiare che attraversa la storia dell’Italia del Novecento, intrecciando le vicende e le fortune private, le biografie individuali, le trasformazioni (politiche, economiche, sociali, culturali) del “secolo breve”; una saga in cui le sciagure prodotte dall’età della catastrofe (la prima metà del secolo) non saranno mai interamente compensate dall’ascesa sociale conseguita nell’età dell’oro; in cui il passaggio tra le generazioni è segnato da un’ombra antica che ne determina i destini, da uno sguardo all’indietro che consegna il futuro alla continuità, a dispetto della lotta per la liberazione di cui la madre è icona e attiva protagonista. Il terzo progetto in corso d’opera è un romanzo che racconta le vicende di un uomo nella cui vita irrompono insieme l’impoverimento e la disgregazione familiare e che, costretto a rinunciare a tutti i precedenti riferimenti materiali e affettivi, inciampa per caso in una scoperta che riscriverà la sua vita, offrendogli la possibilità di modificare il suo destino e quello di molti altri uomini.

Ricatti e debolezze in “La giustizia di Icaro”

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Silvia Notarangelo

PARMA – Il neo Presidente della televisione di Stato entra nella sua stanza, si siede alla scrivania e si lascia andare, soddisfatto, al torbido flusso dei suoi pensieri.
È lui il protagonista de “La giustizia di Icaro”, romanzo d’esordio di Fabio Piacenti (Vertigo Edizioni). Una storia complessa, cupa, imprevedibile, che riesce a svelare come ipocrisie e debolezze, ricatti e astuzie, possano diventare un’arma micidiale, incontrollabile e molto difficile da disinnescare.
Quando si intraprende una determinata strada, tornare indietro è quasi impossibile. Dall’alto di quella poltrona di pelle nera, la prospettiva cambia e il Presidente sa bene di avere nelle sue mani “uno strumento potente e distruttivo con cui combattere una battaglia permanente contro la realtà”.
Come per ogni capo che si rispetti, al suo fianco non può mancare lei, la segretaria. Bella e impeccabile, Caterina ha quel qualcosa in più che nessuno, neppure l’egregio Presidente, riesce a cogliere: sa scrutare e interpretare i gesti, le parole, le espressioni, riuscendo ad andare oltre le apparenze. La sua dote migliore è probabilmente la pazienza, quella pazienza necessaria per colpire al momento giusto e soddisfare un inappagabile senso della giustizia.
Per il Presidente la strada sembra in discesa, eppure appena qualcosa inizia a incrinarsi, ecco dietro l’angolo, il precipizio. Una caduta lenta e inarrestabile, frutto della propria arroganza, di quel suo sentirsi sempre e comunque protetto da un invisibile paracadute.
Per una volta, però, i conti non tornano. Ed è paradossale che sia proprio l’ultima, insignificante ruota del carro a segnare la sua fine, insieme a quel silenzioso braccio destro incapace di sopportare l’ennesima, gratuita prepotenza.
Ma si sa, la giustizia purtroppo è solo un’utopia e per tanti, troppi personaggi la riabilitazione non è certo una remota possibilità.

“Fratelli”, se le strade possono dividersi

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Silvia Notarangelo

ROMAElisabeth e Uli sono fratello e sorella. Sono cresciuti insieme in un paesino della Germania Orientale, si sono sostenuti a vicenda, hanno condiviso momenti difficili e creduto negli stessi ideali. La vita li ha messi di fronte alla Guerra, alla divisione del loro Paese in due mondi incompatibili, dove, inevitabilmente, si deve scegliere da che parte stare.
Fratelli”, il romanzo di Brigitte Reimann (Voland), racconta la loro storia. Una storia appassionata, poetica, a tratti malinconica, che corre sul filo sottile dei sentimenti.
Il rapporto tra i due protagonisti è fatto di complicità, battibecchi, gelosie e tensioni che la Reimann riesce sapientemente a ricostruire. Intensa e incalzante, la narrazione procede sovrapponendo presente e passato.
È Elisabeth, in prima persona, ad abbandonarsi ai ricordi, quando lei e Uli giocavano a Hänsel e Gretel, quando le strade erano attraversate dai carri armati, quando per la prima volta aveva varcato le soglie del kombinat per dedicarsi alla sua vera passione, la pittura.
Il presente, invece, ci porta al 1960, alla Pasqua di quell’anno. Come sempre, fratello e sorella si ritrovano nella loro vecchia casa per trascorrere insieme le feste.
L’atmosfera è allegra, forse troppo. E, infatti, proprio come “un’ombra che il pomeriggio d’estate oscura il sole”, ecco che su Elisabeth piomba un’inaspettata confessione. Uli ha deciso: si trasferirà a Ovest, ad Amburgo. Per lei è un colpo durissimo. Quella che, almeno superficialmente, potrebbe sembrare una reazione prettamente emotiva, in realtà nasconde tanto altro. A poco a poco, tra i due, si apre una voragine. Lo scontro è duro, serrato. Allo sconcerto e alle emozioni dell’una si oppongono le lucide e rassegnate argomentazioni dell’altro.
Elisabeth è un’idealista, una “piccola sognatrice incallita”, ma anche una giovane donna combattiva, pronta a difendere le sue idee e quelle del socialismo. Uli non crede più a niente, è arrabbiato e deluso, nella sua vita vuole costruire navi ma si sente “a pezzi, prigioniero dietro una grata di stupidità e burocrazia”.
Così si va avanti tra accuse, forti e concitate, e momenti di tenerezza che sembrano poter rimettere tutto in discussione. Il contrasto non si esaurisce nel semplice tentativo di Elisabeth di ridestare nel fratello i vecchi ideali condivisi, ma finisce per scavare in profondità, nell’intimo dei due personaggi, riuscendo a portare alla luce dubbi e insicurezze sepolti sotto un apparente equilibrio.
L’interrogativo finale può essere solo uno: meglio andarsene con la dolorosa consapevolezza di avere “la coscienza sporca” o restare sperando di “armare di nuovo la barca e veleggiare in mare aperto”?

“Interrogato il morto”, un omicidio inaspettato nelle colline brianzole

interrogatoilmorto_Lupo_chronicalibriSilvia Notarangelo
ROMA – Direttamente mutuata dalle perizie necroscopiche, “Interrogato il morto” è la singolare formula che dà il titolo all’ultimo e piacevole romanzo di Renato Cogliati, pubblicato da Lupo Editore. Con uno stile personale e ironico, capace di alternare più registri linguistici, l’autore si immerge nella realtà di fine anni Cinquanta, riuscendo a ricreare un’atmosfera suggestiva e a tratti paradossale, animata da caratteristici personaggi.

 

Siamo a Brivio, un paesino di confine tra le provincie di Como e Bergamo. Come è facile immaginare, chiacchiere e pettegolezzi sono all’ordine del giorno, ma tutti sanno bene come funzionano le cose: qui non accade nulla “senza il consenso del sindaco, del parroco, del medico condotto e del maresciallo dei carabinieri”.
Ed è proprio all’interno di una delle istituzioni, la caserma, che si muovono i protagonisti della storia. Dall’alto del suo “metro e cinquantacinque centimetri”, il comandante Salvatore Inverso è ormai prossimo alla pensione. Nel tempo, ha saputo farsi apprezzare da superiori e magistrati, grazie anche ad alcuni successi ottenuti forse per bravura, più verosimilmente per pura fatalità. In ogni caso, la sua fama non è in discussione e ciò gli consente piccole quanto gradite distrazioni a bordo del suo Galletto Moto Guzzi o seduto in qualche osteria della zona ad assaporare cassöeula, verze e busecca.
Una vita, nel complesso, tranquilla e appagante in cui, all’improvviso, irrompe il maresciallo Antonio Veleno. Sarà lui a sostituirlo, un giorno, alla guida della caserma. Tra i due non è certo amore a prima vista, anzi. Arrogante e sicuro di sé, il nuovo arrivato non fa nulla per guadagnarsi la stima del suo superiore. Ma se nel lavoro Salvatore sembra riuscire a tenere a bada le aspirazioni del giovane collega, più difficile sarà per lui arginare un altro “interesse” prettamente personale. Un uragano si abbatte nell’esistenza del comandante. E visto che i guai non arrivano mai dai soli, ecco qualcosa di totalmente imprevisto: un omicidio. Un cadavere viene ritrovato nei boschi impenetrabili del Monastirolo.
Le indagini, prontamente avviate, si svolgono in un clima surreale, quasi ai limiti del grottesco. Inverso non è abituato a gestire casi simili, nessuno prima d’ora aveva mai osato commettere un delitto nei territori di sua competenza. Gli acciacchi dell’età, poi, uniti al solito, inesauribile appetito, di certo non aiutano. Eppure, tra affanni, improbabili collaboratori e l’immancabile autopsia, anche questa volta il comandante riuscirà a cavarsela.
Tirato un sospiro di sollievo, Inverso può forse riconoscere quanto sia inutile tentare di avere sempre tutto sotto controllo, nella vita come nel lavoro. Ci sono cose che accadono e basta, a prescindere dalla volontà o dai desideri di ognuno, e che poco hanno a che fare con la razionalità. L’importante è capire quando è il momento di deporre l’ascia di guerra e abbandonarsi, serenamente, al corso degli eventi.

“Primi passi sulla luna”, frammenti e ricordi per nutrire il presente

primi passi sulla luna
Silvia Notarangelo

ROMAAndrea e Daria sono padre e figlia. Il loro è un rapporto forte, complice, fatto di sorrisi e di piccoli passi ma anche di quelle responsabilità di cui ogni genitore si sente investito. “Primi passi sulla luna” (Tic Edizioni) racconta la loro storia. Andrea Cosentino trasferisce su carta il suo spettacolo teatrale e il risultato è un testo inedito, delicato e sorprendente, capace di restituire emozioni e nitide immagini di vita, anche quando queste risultano sbiadite dal tempo o da ricordi ormai incerti.
Il confine tra realtà e finzione è molto labile ed è forse per questo che viene ricercato costantemente il dialogo con un lettore che non può e non deve essere passivo, ma seguire e lasciarsi coinvolgere dagli eventi. È una confessione drammatica quella che l’autore affida alle pagine del suo libro, un’esperienza personale che lo tocca da vicino e di cui sente, pressante, il bisogno di parlare. Nessuna ambizione letteraria, soltanto il desiderio di cristallizzare un dolore perché “non me ne voglio liberare, voglio tenermelo ancora dentro o addosso”. È ciò che cerca di insegnare, per motivi diversi, anche alla sua bambina: “evitare la rimozione, non sottrarsi ma venire a patti”.
Un papà attento, dunque, che all’improvviso, nel 2009, a quarant’anni di distanza dallo sbarco sulla luna, si ritrova ad affrontare una prova durissima. A fare la differenza è un clic. Il clic di una macchina fotografica che, involontariamente, coglie qualcosa, un riflesso anomalo, una “mezzaluna” proprio lì dove non dovrebbe essere. Ma è anche un clic più lontano nel tempo, quello di un occhiolino d’intesa che si chiude poco prima di sparire su una barella e intraprendere un viaggio forse senza ritorno.

 
Cosentino scrive da padre rivolgendosi alla sua “stellina” sveglia, curiosa e testarda, a cui la vita sembra stia tirando un brutto scherzo. Ma scrive anche nelle vesti di figlio, ripensando a quel padre taciturno, incapace di esprimere i suoi sentimenti e ora incredibilmente vulnerabile.
L’attesa dell’epilogo, di quel finale tanto caro all’autore, si dilata tra ricordi e “divagazioni”. Se poi la memoria viene meno, ecco subentrare l’immaginazione a ricostruire, scena dopo scena, passeggiate, dialoghi, persino gesti e parole probabilmente solo pensati.
La narrazione resta così sospesa fino a quando dall’imperfetto, il tempo dei giochi e delle favole, si passa al presente, il tempo della realtà. Il salto è brusco ma necessario, perché con la realtà non si scherza.
A volte la verità può essere sconvolgente, altre può riservare sorprese inaspettate. Eppure nessuno è mai pronto ad affrontare un dolore, forse il massimo che si può sperare è ciò che Cosentino si augura per la piccola Daria: addormentarsi sotto un cielo stellato e risvegliarsi con la consapevolezza che “la felicità è reale solo se condivisa”.

“Vagamente Suscettibili”, tre vite al bivio

vagamente suscettibili
Silvia Notarangelo

ROMA – “Vuoi dire che se una strada è piena di buche allora sarebbe meglio non percorrerla proprio?”. L’interrogativo, insidioso, affiora lentamente fino a diventare parte integrante di “Vagamente Suscettibili”, romanzo d’esordio di Pierpaolo Mandetta (Edizioni Noubs). Una storia densa, realistica e vivace, in cui coraggio e paure accompagnano la sofferta evoluzione dei tre giovani protagonisti alle prese con un futuro incerto e un presente non ancora identificabile.
A unire Sandra, Adamo e Sam è quella voglia di riscatto che arriva nei momenti più bui, quando tutto quello che sembrava giusto non lo è più e, improvvisamente, si fa sempre più pressante il desiderio di dare una svolta alla propria vita. Spensieratezza e puro divertimento si alternano, così, a delusioni, inquietudine, senso di inadeguatezza.
Sandra è bella e spigliata, ha una madre che non sopporta, nella vita non le è mai mancato nulla. Il suo motto è “tutto e subito”, per questo non riesce a farsi una regione di tutte quelle persone che passano anni e anni all’università per poi ritrovarsi sole, disperate e, magari, senza un lavoro.
Adamo ha ventisette anni, è affascinante e con una carriera ben avviata come organizzatore di eventi. Vive in prospettiva del futuro, non vuole legami perché, sostiene, non ne ha bisogno, e l’idea di una qualche forma di stabilità, semplicemente, la detesta.
Il collante tra le esistenze di Sandra e Adamo si chiama Sam. Trasferitosi a Torino per poter essere finalmente libero e indipendente, ha svolto mille lavoretti precari senza successo. È sensibile, insicuro ma, soprattutto, è un autentico sognatore, per questo la fine della sua storia con Daniele lo ha letteralmente devastato.
Tutti e tre, in modi e per motivi diversi, si ritrovano a un bivio. Un irrefrenabile desiderio di cambiare si insinua silenzioso portandoli a compiere scelte drastiche e inaspettate. Nessuno di loro sarà più lo stesso, complice una nuova consapevolezza che, a poco a poco, illumina le loro vite. A volte ci sono catene difficili da spezzare, a volte tutto sembra destinato a crollare, ma ciascuno, nel bene e nel male, può scegliere quale strada intraprendere. E i tre protagonisti decidono di rischiare, alla ricerca di quel qualcosa che assomigli alla felicità.

Matisse, un cagnolino giramondo

matisse a quattro zampe
Silvia Notarangelo

ROMA – Spesso sarebbe meglio abbandonarsi all’istinto, lasciando che a conquistarci siano un sorriso, uno sguardo, il calore di un abbraccio. A ricordarcelo è la disarmante spontaneità del piccolo Yorkshire protagonista diMatisse a quattro zampe”, libro di esordio nella narrativa per l’infanzia di Tiziana Cazzato (Lupo Editore).

Da quel primo incontro, il cucciolo non ha avuto dubbi: ha capito che doveva essere lei, quella Signora in nero, riservata e malinconica, la sua nuova mamma. Non una sostituta di quella vera ma, più semplicemente, una persona da amare e da cui essere amato.
Se lo scopo di una favola è quello di “insegnare divertendo”, l’autrice lo ha pienamente e brillantemente raggiunto. Con un linguaggio semplice, schietto ma anche sensibile e attento alle sfumature, è riuscita a dar vita a una storia deliziosa, che saprà coinvolgere i più piccoli e suscitare un sorriso sincero ai lettori più grandi.
Premesso che prendere lezioni non piace a nessuno, vale però la pena fare uno strappo alla regola per seguire l’avventura di questo grazioso cagnolino, “amante degli agi e dei lussi” nonché esperto in galateo e buone maniere. È lui a narrare in prima persona le sue giornate nella casa della Signora e della signorina Gambalunga. Ed è un racconto pieno di gioia, complicità e condivisione, frutto di quella spensierata allegria e di quell’affetto gratuito che solo gli animali sanno regalare.
Matisse non è un cane qualunque: osserva, si interroga, non si lascia abbindolare, sa essere discreto ma anche rivendicare con forza i suoi diritti. Se poi si tratta di cibo…qualunque capriccio è lecito. Certo, la modestia non è il suo punto forte, ma un po’ di vanità si può tollerare quando è ampiamente ricompensata da pazienza, generosità e premurose attenzioni.
Tutto rose e fiori dunque? Neanche per sogno. Anche un cane amato e coccolato come lui vive, infatti, le sue piccole e grandi sofferenze: regole da rispettare, compromessi a cui piegarsi, momenti imbarazzanti, invidie da tenere a bada. Non solo. Perché Matisse è un cucciolo che cresce velocemente e, come tutti, pretende “i suoi spazi, la sua privacy, la sua libertà”. Ha le idee chiare, non c’è dubbio, e anche agli adulti, proprio come tanti piccoli uomini, non risparmia critiche e frecciatine più o meno inconsapevoli. “Diamine, sono un cane! Non sono un uomo che complica anche le cose più semplici!”. Ecco, ogni tanto, “noi grandi” riscopriamo il piacere di leggere una bella favola perché, in fondo, c’è sempre qualcosa da imparare.

“Fatto da Dio”, un entusiasmante viaggio nel passato

Fatto da Dio
Silvia Notarangelo

ROMAUn’esplosione, poi più nulla, il buio. Un corpo irriconoscibile, distrutto, una mente che ha cancellato qualunque traccia di memoria. Eric Ashworth si risveglia, in una prigione di Los Angeles, senza sapere il perché. È lui il protagonista di “Fatto da Dio”, l’intenso thriller di Craig Clevenger pubblicato da Fanucci. Una storia originale, spiazzante, capace di ricreare una realtà parallela e di addentrarsi, con ipnotiche descrizioni, nelle ferite più profonde.

Eric non ricorda nulla. Del suo passato, su cui sembra calato definitivamente il sipario, continua a resistere un solo minuscolo frammento, un nome: Desiree. Chi è Desiree? Che ruolo ha nella sua vita? Perché basta nominarla per far accelerare il suo ritmo cardiaco? Trovare una risposta non è facile quando, all’improvviso, tutto diventa nuovo, sconosciuto, oscuro. E, fidarsi di perfetti estranei, potrebbe non essere una buona idea.
Così, a catturare l’attenzione del protagonista, sono gli odori, i colori, i rumori e un misterioso pacchetto tra le mani della Fata Dietro al Vetro. A poco a poco, uno squarcio di luce comincia ad aprirsi sul suo passato. Il recupero della memoria procede a intermittenza, i ricordi vanno e vengono sotto forma di allucinazioni, a volte sono più nitidi, altre avvolti da una nebbia difficile da dissipare.
Eric inizia a rimettere insieme i pezzi, proprio a partire da quelle molecole e da quegli atomi che lo hanno sempre affascinato fino a trasformarlo in un chimico speciale, in un uomo che “ha passato la vita a dare alla gente il suo di Più”. Per lui, “dare di Più” è un imperativo, un gioco attraente e pericoloso, in cui il limite tra artefice e vittima può essere estremamente labile.
Alla fine, i suoi sforzi saranno premiati. Una verità, straziante, si farà strada. Tutto quello che non ti sei ancora ricordato lo hai dimenticato per una ragione. Tagliala. Eric era stato avvisato, ma niente ha potuto fermarlo.

Questione di scelte: “L’amicizia in guerra”

Silvia Notarangelo
ROMA – Una piccola cittadina degli Stati Uniti dove vivono sei amici. Il giorno del diploma si avvicina. Hanno sogni diversi, pensano e agiscono diversamente, eppure qualcosa di profondo li unisce: un’amicizia che niente sembra poter scalfire. Nessuno può immaginare che qualcosa di sconvolgente cambierà radicalmente il corso delle loro vite.

Si apre delineando una realtà tranquilla e spensierata “L’amicizia in guerra”, il romanzo d’esordio di Marco Narcisi (Nulla die Edizioni). Una storia che inizia lentamente per poi divenire sempre più coinvolgente, capace di mantenere alta la tensione fino alla fine, in un crescendo entusiasmante in cui non mancano colpi di scena e decisioni inattese.
La quiete del gruppo si spezza una prima volta quando Owen, uno dei sei ragazzi, sparisce all’improvviso, senza dare più alcuna notizia di sé. Poi, a distanza di un anno, recuperato un apparente equilibrio, ecco la telefonata che preannuncia la tragedia.
Da questo momento, l’imperativo che attraversa l’intera vicenda è “scegliere”. Niente accade per caso. Alcune scelte sono prese sulla scia di un’emozione, altre appaiono inevitabili, altre ancora possono essere valutate e ponderate. Come intuisce Antony “ogni nostra scelta, anche la più semplice, determina con incredibile forza la differenza tra ciò che accade e ciò che sarebbe potuto accadere”.
Tra i sei amici c’è chi sceglie di lasciare tutto per inseguire un sogno, chi prova a buttarsi il passato alle spalle per ricominciare, chi non sopporta l’indifferenza e decide di rischiare in prima persona. Ognuno, però, magari senza accorgersene, si ritrova a fare i conti con il proprio stato d’animo e con un alternarsi di sentimenti spesso contrapposti: disperazione, sconforto, rassegnazione, ma anche lucidità, determinazione, euforia.
A volte le conseguenze delle nostre scelte sono limitate, altre possono essere devastanti. Soprattutto quando si gioca con un fuoco che, nel caso specifico, si chiama guerra. Un conflitto che appare sempre più inarrestabile, architettato da un nemico silenzioso, disposto a tutto pur di appagare le sue ambizioni e la sua sete di potere.
I ragazzi saranno travolti dalla Storia con la S maiuscola, in un’avventura che li porterà a guardare la propria vita con occhi diversi, fino a compiere scelte decisive e non prive di risvolti inaspettati.

Carmelo Bene. “Io non vendo fumo. Io sono il fumo”


Silvia Notarangelo

ROMA – Poliedrico, ironico, provocatorio, Carmelo Bene è sempre stato una voce fuori dal coro. Probabilmente, non tutti lo avranno amato. Ma, certamente, di fronte alle sue “sconvolgenti esperienze intellettuali” non si può restare indifferenti.
A dieci anni dalla sua scomparsa, Antonio Zoretti ne ha curato, per Lupo Editore, un articolato saggio dal titolo “Carmelo Bene. Il fenomeno e la voce”. Un lavoro meticoloso e suggestivo, ricco di citazioni e di commenti, per lasciarsi trasportare dalle parole e dalle riflessioni, mai scontate, dell’artista. Il nucleo principale è rappresentato da un insieme di testi, “Quattro conversazioni sul nulla”, giustamente considerati una summa theologica del pensiero di Bene. Linguaggio, conoscenza e coscienza, eros, arte: quattro momenti per approfondire quell’orizzonte così particolare in cui si è sviluppata la sua opera.
Il rapporto tra il senso e il suono, la ricerca sempre più approfondita delle possibilità vocali, l’inestimabile valore della musica. È la voce, secondo Carmelo Bene, il solo strumento in grado di “vincere la rappresentazione” così come la musica è l’unico linguaggio “capace di suggerire ciò che la parola non è in grado di esprimere”. Vocaboli e pensieri sono, infatti, solo delle illustrazioni, delle immagini da cui occorre liberarsi. Perché la verità non esiste, se non all’interno della convenzionalità di un linguaggio in cui si nominano le cose pur senza conoscerle.
L’obiettivo di Carmelo Bene, apertamente dichiarato, è quello di mandare tutto in frantumi, compreso il soggetto, quell’io “così ingannevole”, che può e deve essere cancellato.
E forse non è un caso che l’artista non abbia mai nascosto la sua noia, la sua profonda insofferenza verso quel teatro ancora così fortemente legato ad una verosimile rappresentazione della realtà. La rottura, violenta, con la tradizione si traduce in un recupero della creatività e del valore assoluto del teatro, nella convinzione che sia necessario “uscire da tutto quello che è la convenzione dell’arte (…) perché l’unico, auspicabile riconoscimento di un prodotto estetico è la sensazione, capace di incorporare tutti i sensi”.