A cavallo di diverse identità, leggendo "Il fu Mattia Pascal"

Stefano Billi
Roma – Talvolta, nella vita di ognuno, capita di trovarsi di fronte a quei momenti difficili in cui verrebbe voglia di lasciare la propria esistenza per costruirsene una nuova.
Dare un taglio netto a ciò che si è per dar luce ad un nuovo io, che si caratterizzi per non avere problemi né preoccupazioni di alcun genere. Ed ecco allora che si ricorre a viaggi con un solo biglietto di andata per mete tropicali, meglio ancora se atolli sconosciuti, dove una misera somma che qui in Italia servirebbe solo a sopravvivere, là può costituire un vero e proprio patrimonio.
In realtà, l’ideale di rifarsi una vita accantonando la propria identità precedente, specie se sommersa da innumerevoli fastidi terreni, non è poi così invitante come sembra.
A ricordarcelo è “Il fu Mattia Pascal”, un appassionante romanzo di Luigi Pirandello pubblicato per la prima volta nel 1904 a puntate sulla rivista “Nuova Antologia” che, sebbene risalga alla prima decade dello scorso secolo, rivela una modernità sorprendente.
La trama del racconto può agevolmente riassumersi nel tentativo del protagonista, Mattia Pascal, di fuggire dalla propria esistenza problematica e irta di difficoltà.
Oppresso da un matrimonio ormai fallimentare, da debiti che incombono sul suo capo come una spada di Damocle, il Pascal scappa dalla sua terra, la Sicilia, sino ad arrivare a Montecarlo: il grimaldello all’evasione da un mondo che gli offre solo asfittiche prospettive sarà una lauta vincita al gioco d’azzardo, che, apparentemente, gli avrebbe permesso di risolvere tutti i suoi guai. Tuttavia, un destino beffardo lo porta a scoprire che, durante la sua assenza, egli è stato creduto morto, e perciò tale condizione di defunto lo porta a doversi ricostruire una nuova vita. Prende forma così Adriano Meis, un homo novus che nasce per sostituire lo sciagurato Mattia Pascal, ma che in realtà si dimostra essere una fragile maschera di cartapesta.
Adriano Meis, infatti, sebbene costituisca la chance per Mattia Pascal di riscattarsi dalla sua esistenza, sarà sempre una finzione, e come tale perciò non troverà corrispondenza alcuna nel mondo reale. Meis non esiste, se non nella dimensione inventata dal Pascal. Allora, a poco a poco, il protagonista comprende come questa sua invenzione debba addivenire ad una conclusione, e perciò anche l’identità – questa sì, irreale – del Meis viene abbandonata, per ritornare nei panni di Mattia Pascal.
Purtroppo però questa nuova immedesimazione nella propria vita originaria non può ristabilire lo status quo precedente alla fuga monegasca, e così il personaggio chiave della vicenda si trova costretto a far ritorno in una terra dove ormai, per gli altri abitanti, lui è solo un defunto.
L’opera pirandelliana è tutta protesa alla divulgazione del messaggio inerente la struttura ontologica dell’uomo, la cui identità consiste nell’attribuzione di un ruolo, che ad ognuno viene assegnato dal contesto sociale in cui ci si trova a vivere.
Ognuno è un figurante, in scena quotidianamente sul proprio palcoscenico: oltre il sipario, lontano dai riflettori e dalla propria parte da recitare, c’è la perdita di se stessi e l’allontanamento irreversibile dal proprio io.
“Il fu Mattia Pascal” è un libro irrinunciabile proprio perché ci dimostra che occorre essere ciò che si è chiamati ad essere, non soltanto ciò che si vorrebbe apparire.

"H.E.R.O.I.N", il nuovo sound fumettistico dei Motel Connection

Stefano Billi

Roma – Molti lettori hanno assistito ad un concerto dei Motel Connection, gruppo torinese di musica elettronica nato dall’incontro tra Samuel (cantante dei Subsonica), Pisti (dj house) e Pierfunk (ex bassista dei Subsonica). Altri lettori hanno ascoltato la musica di questa “band” e altri ne conoscono la discografia, tra i cui successi spicca l’emozionante brano “Two”. Infine, alcuni lettori ricorderanno i Motel Connection per la colonna sonora di film come “Santa Maradona” e “A/R. Andata + Ritorno”. Da aprile però, tutti gli amanti di questo gruppo musicale italiano potranno leggere un fumetto ispirato ad essa e intitolato “H.E.R.O.I.N La strada dei supereroi”, Verdenero Edizioni.
Quest’opera, ideata da Mauro Garofalo e scritta da Bruno Letizia, narra di tre supereroi (Samuel, Pisti e Pierfunk, per l’appunto) che intervengono in un mondo futuristico per aiutare l’umanità a liberarsi dal giogo di una forza aliena che la domina e che le impedisce di pensare liberamente.
Tra le tavole, dunque, prendono vita intensi combattimenti tra questi paladini del bene e spietati esseri mostruosi, i quali poi dovranno fare i conti proprio con un uomo, in particolare un ragazzo, che, pur appartenendo a quella che gli alieni definiscono una “razza debole”, avrà la forza di guidare la ribellione all’oppressore spaziale.
Il fumetto sembra richiamare in sottofondo il laitmotiv di un altro comic book, intitolato “V per vendetta” (scritto da Alan Moore e David Lloyd e reso celebre dall’omonima pellicola di James Mcteigue), cioè la realtà di una popolazione ormai divenuta cieca nei confronti della vera natura di chi la domina; anche se, ad onor del vero, “H.E.R.O.I.N” riesce poi ad affrancarsi da questo suo “precedente” intessendo una storia dove non è un’autorità politica a spegnere le coscienze degli individui, ma piuttosto una forma aliena che ha instaurato il suo dominio sulla Terra.
Lo stile di questo fumetto è pregevole, sia sotto l’aspetto grafico che sotto l’aspetto narrativo.
I disegni denotano l’abilità di Valerio Schiti, Serena Ficca e Bruno Letizia: i loro tratti sono decisi e accattivanti, e sembrano richiamare alcune caratteristiche tipiche delle chine marveliane. La sceneggiatura, redatta da Bruno Letizia, è poi interessante e stimolante: se la storia denota originalità, soprattutto nella descrizione della realtà futuristica in cui è ambientata la vicenda, l’epilogo del fumetto invece risulta parco di dialoghi e di espedienti che tengano davvero viva l’attenzione di chi legge.
Nel complesso, “H.E.R.O.I.N” è un bel comic book, davvero piacevole da gustare: testimonianza di come la scuola fumettistica italiana sappia regalare al suo pubblico opere stimolanti e sempre nuove.
Soprattutto, il grande merito di quest’opera è la sua grande capacità di divertire e affascinare, senza però copiare i grandi classici del genere.
Piuttosto, nonostante le molteplici citazioni e i numerosi riferimenti culturali (che certamente impreziosiscono la qualità delle tavole), “H.E.R.O.I.N” manifesta un carattere tutto suo, assolutamente peculiare e distinto da ogni altro comic book.
H.E.R.O.I.N” è la testimonianza che, per essere cool, i supereroi non devono necessariamente vestire la bandiera stelle e strisce.

Michele Monina racconta "Eros Ramazzotti"

Stefano Billi

Roma – Da pochissime settimane è  in libreria “Eros Ramazzotti”, il nuovo libro di Michele Monina pubblicato da Leggereditore. Il libro che racconta la vita e la musica della celebre pop star italiana è un percorso nella carriera di Eros: dai suoi esordi sino alle sue ultime opere, passando per i momenti salienti del suo percorso artistico e per gli avvenimenti più importanti della sua vita privata. Le canzoni di Ramazzotti fanno da sottofondo all’intessere – da parte di Michele Monina – di pagine molto appassionanti, che sanno carpire l’attenzione del lettore attraverso l’utilizzo di uno stile narrativo assolutamente coinvolgente e sincero.
Il modus scrivendi utilizzato dall’autore è scorrevole e lineare: l’uso di un linguaggio semplice ed asciutto agevola la curiosità verso questo musicista romano, cosicché tanto i fans più sfegatati, quanto i neofiti potranno trovare uno spiccato interesse nella lettura di questo libro.
Numerosi aneddoti impreziosiscono poi il contenuto della biografia, che diviene così lo spunto divertente per saperne di più su un cantante che, a pieno titolo, risiede stabilmente nell’Olimpo del panorama musicale italiano, a fronte di una storia personale costellata di solidi successi professionali.
Inoltre, è particolarmente piacevole scoprire come il Monina metta a fuoco l’anima da rock star di Eros Ramazzotti in riferimento ai suoi concerti, dove viene sprigionata un’energia e un’adrenalina fortissima, che lascia sbigottiti coloro che assistono, soprattutto per la prima volta, a un suo show.
Uno strumento utile, infine, sono le note sulla discografia inserite in fondo al libro: esse divengono un’appendice indispensabile per tutti coloro che vogliano dirsi ferrati sulle attività discografiche del cantante e sulla sua produzione artistica, dagli esordi fino ad oggi.
“Eros Ramazzotti” è dunque la biografia ideale sia per gli appassionati di musica leggera, che potranno dunque approfondire la storia di questo “big” della canzone italiana, sia per i fans più accaniti del cantautore italiano, che potranno scoprire aspetti inediti attinenti il loro idolo, e sia per coloro che hanno ascoltato per anni la musica del cantautore romano, e che però hanno intenzione di conoscerne la vita artistica e privata.

Paolo Maccioni racconta "Buenos Aires troppo tardi"

Stefano Billi
Roma Intervistato da ChronicaLibri, lo scrittore cagliaritano Paolo Maccioni racconta ai lettori la sua passione per l’Argentina e alcune curiosità legate al suo romanzo “Buenos Aires troppo tardi”, pubblicato da Arkadia editore.



Cosa ha ispirato questo tuo libro “Buenos Aires troppo tardi” e, più in generale, queste pagine dedicate all’Argentina?

Mi ha ispirato principalmente la passione per la letteratura argentina, che ho sempre coltivato e che nel tempo è diventata una passione per l’Argentina in generale, rafforzata da un legame sentimentale che ho avuto in passato e dai ripetuti viaggi in Argentina.



Esiste un legame particolare tra te ed Eugenio, protagonista di questo romanzo? Tale legame rispecchia il rapporto che Eugenio ha con Eleuterio, il personaggio inventato dal protagonista di “Buenos Aires troppo tardi”?

Be’, direi che Eugenio è il mio alter-ego, quel me stesso che tempo fa ignorava la storia recente d’Argentina; l’ho tratteggiato volutamente sprovveduto e ignaro e all’inizio spensierato per poter farlo crescere nel corso del libro e renderlo sempre più consapevole.

Ma ovviamente, come sempre accade ai personaggi fittizi, anche Eugenio comincia a camminare con le sue gambe e ad affrancarsi dal modello originario.
Quanto ad Eleuterio a sua volta è l’alter-ego letterario di Eugenio, nel quale Eugenio proietta un se stesso idealizzato, ma viene abortito presto, perché irrompe la storia d’Argentina, quella vissuta, più urgente e dolorosa, a spazzar via la finzione.


“Buenos Aires troppo tardi”, tra le sue pagine, richiama la storia dell’Argentina della seconda metà del secolo scorso: in sottofondo si percepisce, in maniera assolutamente profonda, la volontà di ricordare un passato che, soprattutto per le popolazioni estere, rischia di essere dimenticato. Dunque, “Buenos Aires troppo tardi” vuole essere principalmente un romanzo storico?

Devo premettere che non era nelle mie intenzioni, né alla mia portata, scrivere un saggio. Tuttavia la storia recente dell’Argentina, col suo carico di dolore e sangue, mi ha investito in modo traumatico, proprio come accade al mio personaggio Eugenio.

Ho voluto condividere la mia esperienza formativa veicolandola nella forma narrativa che trovavo più congeniale e più fruibile: quella del romanzo.
In questo senso può essere considerato un romanzo storico, anche se non propriamente detto, giacché ho fatto largo ricorso agli anacronismi e ad elementi fantastici.
In fondo sia io che Eugenio siamo l’emblema dell’italiano, dell’europeo, e più in generale dell’occidentale che ben poco ha saputo dell’ultima dittatura militare argentina e quel poco lo ha appreso troppo tardi, come dice il titolo.


Quali sono gli autori che più hanno influenzato il tuo modo di scrivere?

Dal punto di vista della tecnica narrativa, diciamo così, mi sento particolarmente debitore di quella scrittura che ha in Antonio Tabucchi e massimamente in José Saramago i suoi modelli più alti.
Una prosa piana e franca, senza magniloquenze, ma ponderata, con il registro proprio della “deposizione al tribunale del lettore”, per usare parole di Tabucchi.
Perciò nel mio libro ho adottato la voce narrante del protagonista, che racconta in prima persona e al presente, mescola dialoghi immaginari a pensieri intimi e riflessioni di più ampio respiro.
Inoltre il mio romanzo abbonda di passi originali di Rodolfo Walsh (parecchi dei quali traduzioni inedite) che ho trascritto in forma di virgolettati attribuiti al personaggio Walsh (che nel corso del libro prende i nomi di Daniel Hernández, Rodol Fowalsh, Norberto Pedro Freire, ed altri).
Le parti in cui tale personaggio invece parla con la mia voce sono il frutto della ricerca di una prosa che cerca di somigliare a quella originaria di Rodolfo Walsh: asciutta e tagliente, tesa a raggiungere la maggior efficacia con la massima economia espressiva.
Insomma: avverto le influenze ma cerco di affrancarmi dai modelli, peraltro irraggiungibili, alla continua ricerca della mia voce personale.
Un cammino lungo e laborioso dove non esiste un “traguardo”, si può solo percorrere molta o poca strada.


Perché i nostri lettori dovrebbero leggere il tuo libro?

Perché la storia recente d’Argentina è un paradigma della storia mondiale del secondo Novecento, perché le derive come quella che ha conosciuto l’Argentina sotto l’ultima dittatura militare rischiano di ritornare sotto altre forme e in altri luoghi e allora bisogna avere gli strumenti per poterle riconoscere quando sono ancora in embrione. Il mio libro da solo non basta, ovviamente, ma può dare un piccolo contributo sul fronte della conoscenza della stagione della dittatura militare argentina.
Infine può essere un piccolo compendio per conoscere meglio l’Argentina e la sua ricchissima letteratura, anche al di là della storia della dittatura militare: spero di contagiare chi lo legge con la mia passione per l’Argentina e per Buenos Aires.

"Bartleby lo scrivano", meravigliosa opera triste di Melville

Stefano Billi

Roma – Cosa rispondereste a chi, in maniera composta e tranquilla, oppone ad ogni vostra richiesta un educato ma disarmante: “preferirei di no”?
Ebbene, leggendo “Bartleby lo scrivano”, una storia stravagante che lascia pervasi da una curiosità mista ad una sensazione di impotenza – meravigliosa opera di Herman Melville, conosciuto soprattutto come autore del celeberrimo libro “Moby Dick” – ci si ritrova coinvolti in questa situazione.
Il racconto narra, infatti, la vicenda di uno scrivano, Bartleby, che svolge il ruolo di copista legale presso un avvocato newyorchese di metà Ottocento. Il protagonista si presenta come un giovane rispettabile ma squallido, dal viso smunto e gli occhi grigi: ogni suo gesto sembra privo di umanità.
Mansueto e al contempo sprovvisto di ogni traccia di rabbia o impertinenza, la sua condotta si traduce in una scrittura scialba, silenziosa e meccanica.
Soprattutto, ad ogni ragionevole richiesta posta in essere dall’avvocato che poi è il datore di lavoro di Bartleby, quest’ultimo oppone un mite ma irremovibile “preferirei di no”, senza dare giustificazione alcuna del suo rifiuto.
Bartleby è un uomo imperscrutabile, non si hanno notizie sul suo passato, se non una diceria che il legale riporta al solo scopo di dare una ragionevole spiegazione all’atteggiamento così strano di quel dipendente.
Lo scrivano, perciò, rimane inaccessibile agli altri, inconciliabile con il resto del mondo.
Nella tenebrosa esistenza di Bartleby si può scorgere quella parte di umanità afflitta nell’animo dal disordine incurabile della solitudine.
Il libello, che consta di poche pagine, presenta uno stile narrativo che richiama il tratto inconfondibile utilizzato dal Melville in Moby Dick; tuttavia, qui l’autore non offre gli innumerevoli spunti enciclopedici menzionati nell’opera sulla balena, ma piuttosto prevale tra le pagine un modus scrivendi asciutto, che non lascia spazio a divagazioni culturali.
Tale tecnica lascia intatta, per tutta la storia, la pressione sentimentale che il romanzo imprime nei lettori: l’angoscia è sempre presente, ed affligge chi legge così come intanto avvinghia la vita del protagonista.
Il fascino di questo libro è insito nella curiosità che aleggia attorno la vicenda di Bartleby, personaggio tanto misterioso quanto disarmante, verso non si può far altro che arrendersi.
Degna di particolare pregio è l’edizione del libro edita da Full Color Sound, che del racconto offre non solo una versione stampata, ma anche una versione letta da Serena Dandini (in sottofondo sono presenti poi le musiche di Lele Marchitelli e Danilo Rea).
Un libro non facile da digerire e che lascia un po’ l’amaro in bocca, come uno scotch whisky invecchiato almeno dodici anni.

Scoprire l’Argentina tra le pagine di "Buenos Aires troppo tardi"

Stefano Billi
Roma – “Buenos Aires troppo tardi” è un ottimo libro, scritto da Paolo Maccioni e pubblicato da Arkadia Editore, il quale racconta la storia e la cultura – soprattutto letteraria – dell’Argentina.
Protagonista della vicenda è un giornalista italiano, di nome Eugenio, che si reca proprio in sud America per compilare una guida turistica e, successivamente, si troverà a confrontarsi con il passato tragico del Paese ospitante.
Infatti, la memoria di questa nazione dell’America Latina ricorda ancora i terribili avvenimenti accaduti in quel territorio a partire dalla seconda metà del Novecento. Precisamente, la vita politica argentina si è caratterizzata, all’epoca, per il succedersi di golpe militari che poi hanno istituito dittature militari, le quali hanno fatto spregio dei diritti umani e delle libertà fondamentali.
Nel libro si richiamano, tra tutte le barbarie commesse da tali regimi, i numerosi sequestri e le innumerevoli torture che ha subito quella popolazione civile che era ritenuta sospetta – da parte delle autorità militari – di cospirazione.
Giornalisti, liberi pensatori, gente comune: nessuno poteva dirsi al sicuro in quegli anni, in Argentina.
Questo il Maccioni lo descrive egregiamente nel suo libro, che è costruito come un viaggio reale in cui il turista italiano si trova a sbattere contro una storia difficile da digerire e che va necessariamente raccontata, affinché questi tristissimi ricordi non rimangano ad appannaggio dei soli superstiti, ma possano essere anche conosciuti da chi non era là nel periodo più buio dell’Argentina.
L’opera, anzitutto, si contraddistingue per il suo porsi a cavallo tra la forma stilistica narrativa romanzo e quella del documentario: sullo sfondo,oltre all’originalità delle vicende di Eugenio, si collocano fatti accaduti realmente.
Il modus scrivendi dell’autore è molto scorrevole, lineare, e l’adozione di questa tecnica rende agevole la lettura, così che i ragguardevoli contenuti culturali del testo possano essere appresi ed apprezzati senza distrazione alcuna.
Merita un rilievo poi l’abilità di Maccioni, oggi merce rara, nel descrivere i “contatti” tra il protagonista del libro e un personaggio femminile che si affaccia tra le pagine, ovvero Silvina; senza scadere in squallide volgarità, tra le righe si delineano intensi momenti amorosi vissuti dai due, ove traspare quella bella istintività che porta l’uomo e la donna ad unirsi in virtù di un’attrazione magica e quantomai inspiegabile.
Da ultimo, sorprende la figura misteriosa che guida Eugenio nella comprensione di cosa sia accaduto davvero in Argentina e quale sia il giusto peso da attribuire agli eventi: una sorta di Virgilio, a cui è deputato l’arduo compito di far luce sul passato, raschiando via le ombre che sono talmente tanto pesanti, da stringere il cuore di fronte a quello che è stato un vero e proprio genocidio.
In sole circa duecento pagine , è condensato il dolore necessario che occorre provare per capire come stanno le cose, per distogliere la propria attenzione dalle banalità quotidiane e soffermarla su quello che è successo.
“Buenos Aires troppo tardi” merita molto, perché è un libro ben scritto, audace.
L’alta qualità con cui è stato redatto e l’originalità della storia, la quale, pur nella sua immaginarietà, non si esime dal divulgare preziosi contenuti storici che debbono essere conosciuti, rendono il testo prezioso e mostrano tutto il talento letterario di Paolo Maccioni.

"Tenera è la carne", un libro per riscoprire piaceri deliziosi

Stefano Billli

Roma La cottura della carne a bassa temperatura non è un’invenzione dei nostri tempi. Annemarie Wildeisen, in “Tenera è la carne” (Guido Tommasi Editore) ci spiega come già duecento anni fa un inglese, il conte di Rumford, inventò il forno e scoprì che la carne diventava tenerissima se, dopo essere stata rosolata veniva cotta a bassa temperatura.
Eppure, fuori dalle cucine dei ristoranti, questa utilissima scoperta venne ben presto dimenticata.
Ma cosa significa cuocere la carne a bassa temperatura?
Rosolare la carne a fuoco vivo fa sì che i suoi pori si chiudano e nell‘impatto con il calore i succhi si concentrino al suo interno. Se in seguito la si lascia riposare, la carne torna a distendersi e i suoi umori circolano in tutto il pezzo distribuendosi in modo uniforme.
Quanto più questo processo è lento, tanto migliore sarà il risultato.
Annemarie Wildeisen, in “Tenera è la carne” (Guido Tommasi Editore) mostra come tutto ciò sia possibile e presenta con fantasia e vivacità un ventaglio di eccellenti ricette da preparare con contorni speciali e ottime salse.

"Il nome della rosa", l’intramontabile giallo di Umberto Eco

Stefano Billli
Roma – Il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia ha portato, insieme ad innumerevoli festeggiamenti, anche ad una rinnovata curiosità per la storia e per il passato.
Allora, proprio sulla scia di questa emozione per i tempi che furono, vale la pena leggere “Il nome della rosa”, intramontabile romanzo scritto da Umberto Eco ed edito da Bompiani (la cui prima edizione risale al 1980).
Il libro è ambientato nel Medioevo e narra alcune vicende avvenute all’interno di un’abbazia cluniacense dislocata nell’Italia settentrionale.
I protagonisti, ovvero Guglielmo da Baskerville (frate francescano che fu inquisitore, prima di abbandonare questo turpe incarico) e Adso da Melk (giovane novizio appartenente all’ordine dei benedettini), si trovano infatti in questo luogo perché è lì che si dovrà tenere un importante incontro tra gli esponenti più eruditi e significativi di alcuni ordini religiosi, su tematiche proprie della Chiesa.

Tuttavia, durante la loro permanenza all’interno del monastero, Guglielmo da Baskerville sarà chiamato ad indagare – in virtù della sua passata “esperienza” – circa l’omicidio di un religioso avvenuto poco prima del loro arrivo.
Partendo da questa premessa, Umberto Eco intesse le fila di un romanzo giallo da leggere tutto d’un fiato (sebbene il testo abbia una dimensione non del tutto esigua!).
La narrazione presenta una straordinaria cura per il dettaglio e per i riferimenti alla storia: infatti, tutto il libro riflette il lavoro certosino dell’autore che, con “Il nome della rosa”, dà vita ad una delle opere più belle che il panorama letterario italiano abbia mai conosciuto.
Tra le pagine si compie poi un’opera di erudizione del lettore, che piacevolmente può abbandonarsi a vere e proprie lezioni di filosofia, letteratura e storia tenute da Umberto Eco.
Il modus scrivendi del libro è assolutamente ricercato e sublime: nell’opera si fondono insieme tecniche narrative diverse, le quali, una volta impresse sulla carta, disegnano un tratto stilistico peculiare ed assolutamente mirabile.
Di quest’opera è stata realizzata anche una versione cinematografica, di cui prendere visione soprattutto per l’elegante recitazione di Sean Connery, affiancata da un giovanissimo Cristian Slater.
Questo classico vintage è prelibato come un cognac d’annata, e perciò va assaporato lentamente, lasciandosi trasportare da ogni frase, persino dalle più piccole sfumature.
“Il nome della rosa” è un romanzo che stupirà il lettore, conducendolo alla necessità – una volta terminata la lettura – di scoprire tutti gli altri scritti di Umberto Eco, anch’essi emblemi di una “penna” tutta italiana, orgoglio della letteratura nazionale e mondiale.

"Dentro la setta": un fumetto per raccontare la drammatica esperienza delle sette

Stefano Billi
ROMA Se è vero che i fumetti hanno tradizionalmente il ruolo di fornire svago e ristoro al lettore, lasciando dunque ai libri l’arduo compito dell’erudizione, talvolta essi riescono a trasmettere messaggi profondi ed assolutamente seri.

Prova di ciò è “Dentro la setta”, sconvolgente pubblicazione di Louis Alloing e Pierre Henri (edito Coniglio Editore) che racconta una vera esperienza legata alla partecipazione in una setta.
La trama dell’opera fa riferimento all’ingresso di Marion, giovane pubblicitaria protagonista della vicenda, in questa “comunità”; questo personaggio narra, tra le pagine, tutto il periodo trascorso come adepta di questo pseudo-movimento, orientato – a suo dire – allo sfruttamento di coloro che vi si affilano, piuttosto che alla progressione culturale ed individuale dei suoi membri.
In maniera scorrevole ed immediata le tavole raffigurano la drammaticità degli individui che fanno parte delle sette: sottoposti a lavori degradanti e a ritmi di vita disumani, essi sono costretti a subire vere e proprie angherie, che poi spesso sfociano in coercizioni psicologiche.
La tecnica grafica del fumetto è particolare: la scelta dei colori, dove la preminenza è affidata ad un blu quanto mai spento e affievolito, riecheggia l’inquietudine della condizione di Marion, che nel periodo in cui era un’adepta, lamentava una mancanza assoluta di libertà.
In considerazione di ciò vale la pena citare le parole della stessa Marion la quale afferma: “Il fatto che io fossi uscita dalla setta non significava che la setta fosse uscita da me“; così infatti la protagonista descrive le difficoltà provate non appena era riuscita a sottrarsi dalla “comunità”.
Lo stile linguistico è semplice e immediato, certamente proteso a veicolare un messaggio d’allarme e di cautela; per questo nel testo non si ravvisa l’utilizzo di espressioni di particolare complessità o di figure stilistiche elaborate.
Questo fumetto merita di essere letto per la funzione sociale che svolge, e per il valido tentativo di mettere in luce quella che per gli autori è la terribile realtà delle congregazioni para-religiose, che troppo spesso rischiano di tramutarsi, come desunto dall’opera di Louis Alloing e Pierre Henri, in campi di concentramento per lo spirito e l’animo di coloro che subiscono la iattura di farne parte.

Campo libero all’immaginazione con "Se una notte d’inverno un viaggiatore"

Stefano Billi

Roma – Sicuramente ad ogni lettore sarà capitato di leggere alcune pagine di una storia e poi di interrompere questa lettura per lasciare andare liberamente la propria immaginazione, cosicché il risultato che deriva da questa esperienza consiste in un intreccio di nuove storie, alcune stampate e fuoriuscite dalla penna di un autore, altre puramente sognate ed appartenenti ad una fantasia sconfinata ed impetuosa.
Ecco, questo fenomeno non deve destare preoccupazione: anzi, esso rappresenta proprio la caratteristica peculiare di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, strabiliante romanzo scritto da Italo Calvino (edito Mondadori).
Il libro prende spunto da una vicenda iniziale, per poi dipanarsi in altre dieci avventure tutte concatenate tra loro: il lettore è così catapultato da una situazione all’altra, indifeso rispetto a situazioni del tutto nuove rispetto ai contesti narrativi precedenti.

Ma proprio questi “salti” creati dal Calvino rendono l’opera assolutamente originale: “Se una notte d’inverno un viaggiatore” è un testo così spiazzante, che affascina e solletica l’attenzione.
Da una pagina all’altra cambiano i protagonisti della vicenda, mutano i luoghi e le tematiche del racconto: ma questi stravolgimenti non affaticano affatto la lettura perché l’autore, attraverso uno stile inconfondibile e sicuramente mirabile, riesce a trovare sempre il momento giusto in cui rapire il lettore per portarlo da una storia all’altra.
La penna del Calvino delinea un modus scrivendi così arguto e ricercato, che si percepisce tutto il valore di una narrazione come questa, che eleva l’autore al rango dei più grandi scrittori che l’Italia abbia mai avuto.
Da considerare poi come, leggendo attentamente, si possano trovare in ogni avventura degli indizi che comporranno la conclusione di un libro così avvincente come davvero pochi altri.
“Se una notte d’inverno un viaggiatore” è l’opera che non ci si aspetta: neanche il lettore più smaliziato è in grado, se non arrivando sino all’ultima pagina, di comprendere come vada a finire il testo, e soprattutto, ogni storia è così inaspettata che quando la si inizia a leggere, si percepisce proprio uno smarrimento provocato dal trovarsi di fronte un quid totalmente nuovo e certamente sconvolgente.
Quest’opera, preziosa come un Brunello d’annata, va gustata con la giusta concentrazione e la sana voglia di lasciarsi sconvolgere da un testo che emana tutta la sua straordinaria creatività.