“Storia delle Olimpiadi”: storie di uomini e donne.

Giulio Gasperini
ROMA – Significherà pur qualcosa se uno studioso di Dante, autore di un commento della Commedia diventato caposaldo della critica letteraria, si è imbarcato nell’avventura di raccontare imprese sportive. E non imprese sportive in generale, ma l’evento sportivo per eccellenza, già fondante dell’antichità classica per più di un secolo, che fu riesumato e riproposto alla fine del XIX secolo dal barone francese Pierre De Coubertin: i Giochi Olimpici. Stefano Jacomuzzi compilò questa “Storia delle Olimpiadi” per Einaudi nel 1976 dopo l’insanguinata edizione dei giochi di Monaco 1972 che parvero pietra tombale dello spirito olimpico. Questa storia è stata completata, fino alle olimpiadi di Pechino 2008, dalla coppia di fratelli giornalisti Giorgio e Paolo Viberti e pubblicata nel 2011 da SEI Frontiere.
Jacomuzzi principia a raccontare dai prodromi delle Olimpiadi, da quel primo desiderio concretato in un progetto mondiale: dalla lungimiranza del barone De Coubertin, dalla potenzialità del suo sguardo e del geniale intuito che ebbe nel rievocare e nel riportare in vita una competizione che, col passare degli anni, non fu soltanto sportiva ma divenne sociale e persino politica, dall’edizione di Berlino 1936, “irta di svastiche” in piena affermazione di Hitler, alle edizioni dei boicottaggi incrociati di Mosca 1980 e Los Angeles 1984, dalle Olimpiadi del centenario di Atlanta 1996, interamente sponsorizzate dalla Coca-Cola, fino all’Olimpiadi di Pechino 2008 che decretarono e sancirono la potenza mondiale della Cina. Jacomuzzi racconta con ironica leggerezza gli episodi più potenti che hanno definito le Olimpiadi e le hanno significate: dalla celeberrima maratona di Dorando Pietri a Londra 1908, alla triste vicenda del giovane Fabio Casartelli, oro nel ciclismo a Barcellona 1992, dal primo oro olimpico conquistato dall’Uganda con John Akii Bua a Monaco 1972 al dramma umano ed esistenziale di John Thorpe “Sentiero lucente”, atleta pellerossa che vinse pentathlon e decathlon a Stoccolma 1912 e si vide togliere le medaglie per una futile diatriba tra professionisti e dilettanti.
Stefano Jacomuzzi non trascura il suo essere letterato, non abdica al ruolo di scrittore forbito e consapevole della lingua, tanto da creare quello che i suoi figli, Ulisse e Vincenzo, definiscono nella presentazione “Al lettore” del volume come “il suo romanzo più bello”. E di romanzo effettivamente si tratta perché Jacomuzzi non presta tanto attenzione ai risultati ottenuti, ai tempi della corsa, ai record dei lanci, alla potenza delle falcate con cui si vince l’oro, ma porge la sua – e veicola la nostra – attenzione sulle storie, sui drammi, sulle felicità, sulle casualità e le tragedie di persone che vincono per un giorno, in un attimo, e diventano immortali per sempre. Ogni uomo e ogni donna sono infatti pura narratività e ogni loro racconto, ogni loro evento o impresa, può diventare letteratura. Di quella più genuina.

“Storia naturale di una passione”, ovvero quando a mancare è l’amore

Giulio Gasperini
ROMA –
L’amore e la passione non sempre procedono con ugual passo, né misura. A volte c’è passione, ma non c’è amore; altre volte fiorisce l’amore ma la passione gela. Chi può sapere quale delle soluzioni sia la migliore? Forse vorremmo tutti dire: quando ci sono, contemporaneamente, passione e amore. Ma quanto dura, effettivamente, la passione? Quanto dura, invece, l’amore? Possono sostenersi a vicenda e creare una sinergia duratura, oppure l’uno fagocita inevitabile l’altro? Alfredo Todisco, con un linguaggio volutamente aulico, raffinato, come in una sorta di antiquariato linguistico, ci squaderna una “Storia natura di una passione” (Rizzoli, 1976).
Todisco parrebbe dirci che amore e passione son due accidenti ben distinti, e nessuno dei due implica obbligatoriamente l’altro. In questo romanzo, in una storia dai sinuosi intrecci sentimentali e dalle complesse personalità ritratte, la passione esiste, si consuma nel tempo d’un errore, ma l’amore gemma soltanto in “lui”, mentre “lei” rimane glaciale, spietata nella sua analisi, senza possibilità di ricorsi.
I due si rincorrono, s’indagano, s’annusano e si dileguano, si telefonano e s’ignorano, s’allontanano e si riavvicinano: la danza è quella delle più collaudate, delle più sperimentate: un accendersi di passione incontrollabile, una furia feroce di sensi e di trasporto emotivo, che trascinano i due protagonisti in un vortice irresistibile di frasi non dette e parole rubate, di sguardi troppo insistenti e rimorsi insaziabili.
Sicuramente Alfredo Todisco dimostra una grande perizia d’analisi, che, per altro, esibì nella sua carriera persino scrivendo dei reportage di viaggio (come in “Viaggio in India”). E i suoi personaggi son orchestrati così sapientemente da parere la visione d’un teatrino, di quelli che, un tempo, facevano divertire i bambini ma sorridere i genitori, perché ne capivan tutti i trucchi, e perdevano la magia della vita che, da inanimata, riusciva a sorprendere.
L’ultima immagine del romanzo, da cui si trae la morale e che purificherà i cuori di “lui” e di “lei”, come una catarsi involontaria e persino fastidiosa, è quella d’una natura che paga lo scotto della violenza e della prepotenza umane e che si autoflagella, si autopunisce per salvarsi risolutivamente, presa da una cieca ira e da una rabbia che, non possiamo non immaginare, nel giro di poco tempo si riverseranno frenetiche e furiose sugli uomini che rimangono a valle, e che stanchi del cammino non trovan di meglio che ritenersi fortunati d’avere una sedia sulla quale sedere.

Durante un’“Estate al lago” un ragazzo pensa e cresce

Giulio Gasperini
ROMA – È il racconto d’un’esperienza di crescita sentimentale, umana e anagrafica, questa “Estate al mare”, dello scrittore Alberto Vigevani, pubblicata nel 1976 da Mondadori. È una vicenda, un’analisi lucida e nitida, totalmente interiorizzata dalla figura del protagonista, un ragazzo milanese annoiato dalle nebbie e affascinato dalle vele che, leggere, pare volino sull’acqua. Giacomo amava il mare, quello toscano, dove ogni estate trascorreva le vacanze, per cercare riparo dall’umidità e dalla calura della feroce Pianura padana; un anno, però, la mèta delle vacanze cambia: non più il mare ma un suo palliativo, le rive del lago di Como. E il lago diventa lo scenario dell’addio all’età infantile.
Giacomo è un personaggio che pensa troppo; pensa forse inutilmente. Tutto il romanzo, in effetti, si edifica come un percorso senza tempo, durante il quale il sole sorge e tramonta senza marcatori temporali, quasi a sottolineare una natura più partecipante al tempo dell’anima che, piuttosto, a scandire il tempo convenzionale, quello del quadrante. La storia dell’amicizia con un ragazzo di salute cagionevole e dalla libertà limitata si sviluppa arrivando fin a sfiorare la tragedia: una febbre d’entusiasmo che punisce, come sempre, coloro che troppo si sono spinti a varcare i limiti imposti e non hanno ancora la capacità né la forza di contrastare l’imprevisto. Giacomo però si innamora, in maniera sublimata e ideale, della madre del suo amico, la cerca come un sorso d’acqua fresca, in un continuo indagare le ragioni dei propri sentimenti e della sottile sofferenza.
L’amore astratto, quello etereo e immateriale, per la donna si conclude, bruscamente, con la fuga: un mascherato atto d’amore materno, chissà se per evitare una pericolosa risoluzione. Non lo potremmo mai sapere, perché quando Giacomo torna a cercare l’amico trova solo finestre sbarrate e una cameriera che conferma la ritirata. C’è anche l’altro amore, ovviamente, in questo romanzo: se l’estate è la stagione della crescita, non si può diventare adulti senza sperimentare anche le passioni dell’amore più carnale e violento, che lasciano però Giacomo come scosso e perplesso, ancora troppo immaturo per far veramente i conti con sé stesso.
Geno Pampaloni definì il romanzo un “piccolo classico”, proprio in virtù di questo suo merito: l’analisi di Giacomo è senz’appello. Ogni passaggio presuppone il precedente e non ci si può aspettare null’altro rispetto a quello che segue, in un legame talmente stretto e dipendente tra cause ed effetti che è come assistere a un’eclissi: siamo tutti ben consapevoli di quel che avverrà ma ne rimaniamo, ugualmente, col fiato mozzato.