“Le cose brutte non esistono”: i punti di vista che frantumano lo specchio.

Giulio Gasperini
AOSTA – Ci guardiamo allo specchio e siamo sicuri dell’immagine che ci rimanda. Ci siamo noi: coi nostri inattesi capelli bianchi; con le nostre occhiaie; coi nostri dubbi. E poi capita che guardiamo gli altri riflessi allo specchio e, si sa, che tutto cambia. Tanti ne hanno scritto, tanti ne hanno discettato, tanti ci han speculato. Ognuno di noi ha la sua prospettiva e difficilmente due ritratti indiretti arrivano a combaciare. Anche solo di qualche dettaglio. Riccardo Romani scrive un delizioso romanzo, “Le cose brutte non esistono”, pubblicato in un’edizione raffinata – ne rendiamo merito – dalla 66thand2nd nel 2013, incentrato sul tentativo compiuto da un ragazzo mediocre – detto, anni fa, inetto – nel tentativo di smarcarsi dall’ombra incombente di un padre incomprensibile e ingombrante. Ma la sua ricerca si scontra con l’evidente risultato di un fraintendimento enorme, colossale: il padre è un eroe. Un imperfetto eroe.
Quell’uomo che portava a casa ragazze sempre diverse, che arrivava e ripartiva accompagnato da un uomo altrettanto misterioso ma più comunicativo di nome Alfonso Duro, che ignorava la moglie con una precisione maniacale, che evitava ogni affettuoso approccio col figlio e, anzi, lo puniva anche fisicamente, accusandolo di essere gay, per la sua timidezza e ansia da prestazione. Quell’uomo che in ogni immagine si figura tiranno e dominatore un giorno muore. E la sua morte spalanca un’urgenza di sapere, un bisogno di conoscere che porta il ragazzo a volare dall’altra parte del mondo, all’inseguimento di una ragazza dalle poche parole e dalla storia confusa. Era stata proprio la fuga con lei che aveva sancito la misura più alta di ribellione dal padre: lei, destinata a mandare avanti la tabaccheria di famiglia nel paesino dove vivevano, aveva subito esercitato sul ragazzo un’attrazione irresistibile, per qualche motivo apparentemente ignoto. La verità sarà ricercata in modo anche casuale, randomico, nello scenario degli Stati Uniti del Sud, assolati e aridi. Sarà un libretto del 1995 a fare un po’ di luce, di chiarezza, in una vicenda che è un continuo e altalenante allacciarsi di rapporti, di amicizie e di contrasti.
Il romanzo è tutto in sospensione e sottrazione; nulla è chiaro fino in fondo e non è dato capire appieno la direzione verso cui si sta andando. La luce della risoluzione del mistero è lasciata filtrare a gocce, lentamente, come sabbia in una clessidra. Ma lo sguardo non raggiunge mai l’insieme perché sono i dettagli a stabilire le giuste calibrature. E i dettagli ci suggerisco che, come per gli sguardi, possono sempre rappresentare troppi significati tutte assieme.

 

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“I graffiti nel castello di Issogne in Valle d’Aosta” e le vite graffiate sui muri.

Giulio Gasperini
ROMA – Non è così innovativa la mania pei graffiti, quella voglia che i writers hanno di colorare i muri delle città e narrare storie, lasciare tracce, far gemmare d’un segno il corso del tempo. Si è sempre scritto, si è sempre incisa la pietra. E paradossalmente il lavoro di Omar Borettaz, su “I graffiti nel castello di Issogne in Valle d’Aosta”, ci mostra come quel gesto, che oggi è maleducazione, sia un’importante fonte di informazioni su la vita che fu e le persone che, quella vita, popolarono. Il libro, edito da Priuli & Verlucca nel 1995, tratteggia un viaggio senza tempo attraverso le idee, le scritture, le espressioni di persone anonime che hanno cristallizzato un attimo della loro vita su una parete e che ci raccontano un passato appassionante.
Molti sono anonimi, i poeti di Issogne: in pochi hanno reso personale la propria materialità, proprio perché non era prerogativa del tempo pensare all’unicità della persona, o perché, magari, come ai giorni nostri, l’anonimato dava coraggio e una voce più potente. Il più antico è del 1489, quando Giorgio di Challant cominciò a trasformare l’antico maniero di famiglia in una residenza signorile, con il posizionamento della celebre fontana del melograno, in ferro battuto. Chiunque sia passato, viandante o soldato, ha approfittato dello spazio, conquistandosi il suo posto tra i graffiti. C’è tutta la vita possibile, sui muri di Issogne, che pare guidato da un estraneo progetto: c’è l’amore e la saggezza, c’è l’irrisione e l’ironia, c’è la morte e la risurrezione, c’è il coraggio e la paura, c’è il luogo e ogni altro altrove. Non si tratta comunque di affreschi deturpati ma di potente vita che affiora e si converte in arte; in quella di ogni giorno, per la quale tutti possiamo diventare poeti.
C’è chi parla del proprio viaggio, di quello che magari lo ha condotto a Issogne (adi 3 iunio arivai qua / più morto di vivo, un tale Barbero, nel 1568), o di quello che, a breve, lo allontanerà (Quando io penso al partir / io penso al morir). C’è chi usa antiche saggezze per dare forza e coraggio (Omnia vincit amor, di virgiliana memoria), e altri che usano il muro come unico modo per sfogare i loro dolori, per sapersi in un certo modo ascoltati e non traditi (1577 / Per non monstrar ill moi duolore / tal volta rido che crepe ill cuore / Thoma di Druenvaldtd / von Nuremberg). C’è anche chi non può rinunciare a battute e immagini scurrili e chi si diverte a importunare gli altri, chiunque siano (W Marqantoine et ces gros couillon). Ci sono anche iscrizioni moraleggianti, che tentano di educare chi, per caso o per destino, poserà gli occhi: Dum tempus habemus / operemus bonum; altre, invece, esortano all’opposto, prospettando valori ben diversi: Homo sine pecunia / est corpus sine anima. Qualcheduno si lamenta delle delusioni della sua vita (Maledictus homo qui confidit in homine), altri giocano e scherzano con le sillabe, lasciando trapelare tutta la loro triste esperienza, in una sentenza che pare non aver appelli: S’offrir faict souffrir 1607. E poi c’è anche chi si diverte a sbeffeggiare tutto il mondo, secondo modalità che sono ancora oggi concretamente utilizzate: Omne animal habet culum / tu qui legis pone nasum.

“Francesco Borromini”: l’arte e il riscatto del proprio limite.

Giulio Gasperini
ROMA – Francesco Borromini lo si ricorda sovente soltanto per contrasto a Gian Lorenzo Bernini. Due superbi architetti che arricchirono la Roma barocca, due anime distanti e diverse, due concezioni divergenti: di forme, di spirito, di materia; di carne e fiato. Leros Pittoni, con la sua opera “Francesco Borromini. L’iniziato”, edita da De Luca Editori nel 1995, tenta il riscatto dell’uomo Francesco. Si cimenta in codest’impresa perché riscattare l’artista è facile: il Borromini architetto basta riscoprirlo, riportarlo alla luce degli studi, riprenderlo con discernimento e attenzione, esaminarlo di nuovo con prudenza ma perizia. È riscattare l’uomo che diventa più complesso, più arduo: perché Borromini fu personaggio scomodo e scomposto, troppo frugale e d’animo semplice per poter armonizzarsi con l’esuberanza del secolo, con la sua pretesa costante e irrinunciabile allo spettacolare, allo stupore, alla meraviglia.
Borromini fuggì sempre la Chiesa, grande mecenate del suo tempo: cercò di separarsene sempre e risolutamente. Fu uomo scisso tra la passione per la Roma esagitata e caotica del suo secolo migliore e il bisogno intimo e profondo della tranquillità e della sicurezza dei suoi monti, quelli della sua Svizzera lontana, che lo lasciavano tranquillo e placato come uno specchio d’acqua alpino. Ma la febbre del lavoro, l’entusiasmo per il plasmarsi delle forme e delle linee, la dedizione all’arte non potevano lasciarlo appagato del mediocre. Volle osare, nonostante i rifiuti e le diffidenze; volle sempre presentarsi per quello che veramente era, per quello che voleva conservare di sé stesso: un uomo integro, fedele ai propri dogmi e alle proprie necessità interiori, capace di non tradirsi e di accettare piuttosto la morte alla tirannia della società.
Leros Pittoni, scrittore conterraneo dell’architetto, analizza, più poeticamente che architettonicamente, le opere romane del Borromini, da San Carlo alle Quattro Fontane alla partecipazione al Baldacchino di San Pietro, significando ogni linea, ogni intento, ogni apertura e ogni varco, ogni spazio e ogni volume, e tessendo la narrazione delle opere con la biografia del grande genio. Sicché la storia delle opere diventa la storia del Borromini: è la sua travagliata disamina di un sé stesso sospettato sempre peccatore, sempre imperfetto, sempre inappagato dell’idiozia altrui, che sottrae valore a chi merita e conferisce onore a chi – mutatis mutandis – non dovrebbe meritare neppure pietà.
Il presunto scontro tra Borromini e Bernini è sempre aperto e sempre invocato anche da una certa critica attenta ai disagi e agli scandali da copertina: le opere del Bernini respirano il ponentino, si inondano di luce, giocano con l’acqua e l’aria, si incurvano alla pretesa d’evidente perfezione. Le opere del Borromini, all’opposto, a uno sguardo distratto quasi si nascondono, si crepano d’ombra, si incurvano in un sentire che è punizione del sé stesso, ma anche riscatto del proprio limite; a costo della morte.