La nuova attualità della vecchia disobbedienza civile.

Giulio Gasperini
AOSTA – Il pamphlet di Henry David Thoreau è anagraficamente datato. Proclamato nel 1848 nella Sale delle assemblee di Concord, nel Massachusetts, e pubblicato l’anno successivo negli Stati Uniti per protesta contro la politica estera. Thoreau si rifiutò di pagare le tasse allo stato, finendo – per questo – in carcere, ma aprendo la strada a un atteggiamento che fu definito di Disobbedienza civile e che tanto alimenterà la dottrina e l’ideologia dei movimenti di non violenza, come quelli di Martin Luther King, Gandhi e don Milani. Oggi, a distanza di oltre un secolo e mezzo, Piano B edizioni è tornato a pubblicare il pamphlet, che si viene a costituire, in questo modo, come una lettura di nuovo attualissima e indispensabile per capire gli ansiosi e angoscianti cambiamenti di questi ultimi anni.
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Frontiere e orizzonti sul limite di Lampedusa.

Le rughe sulla frontiera. Lampedusa: restiamo umani!Giulio Gasperini
AOSTA – Lampedusa è un’isola di undici chilometri di lunghezza per 2,5 di larghezza: quasi uno scoglio. È quasi esattamente orizzontale rispetto alla linea dell’orizzonte. È una piega di terra, una ruga che interrompe la frontiera. Proprio quest’aspetto è stata la molla che ha spinto Gianpiero Caldarella, giornalista e autore satirico siciliano, a curare nel 2011 “Le rughe sulla frontiera. Lampedusa: restiamo umani!” per Navarra Editore: una raccolta di vignette satiriche dei più importanti disegnatori e illustratori italiani, da Altan a Vauro, che per il progetto non hanno percepito nessun compenso. Esposte durante l’edizione del LampedusaInFestival, organizzato ogni anno dal Collettivo Askavusa, tutte queste illustrazioni hanno come protagonisti Lampedusa, i migranti, i politici e le tante direzioni dell’umano peregrinare.
Anche la dedica a Vittorio Arrigoni, con il richiamo al suo motto “Restiamo umani!”, morto a Gaza il 15 aprile 2011, è un evidente richiamo alla vocazione ultima di questa raccolta, che vuole proprio essere un’opportunità di riflessione attraverso l’arte, il disegno, il colore. Abbandonando le usuali e più complesse forme di partecipazione, anche arrabbiata, ma concedendosi una pausa. Che pausa, comunque, in definitiva, non è, perché seppur con il sorriso le implicazioni sociali, umane, politiche che stanno alla base di questi disegni sono tutt’altro che spiritose e divertenti. Sono amare, feroci, persino crudeli nella loro capacità di cogliere il lato più disumano e grottesco della vicenda.
Nessun aspetto viene risparmiato, nessuno viene perdonato. Si smascherano le responsabilità e si cerca di far luce sulle cause, sulle conseguenze, sui paradossi e le vergogne della gestione di un’emergenza che emergenza, in realtà, non è. E soprattutto si cerca di fare luce su cosa Lampedusa rappresenti, su quali siano i ruoli di cui è stata suo malgrado investita e quale gioco si porti avanti sulla sua pelle. Ellekappa, Giuliano, Makkox, Staino, Vincino sono soltanto alcuni dei nomi presenti in questa antologia su e per Lampedusa: su un’isola che spesso è teatro aperto e smascherato del caso.
Dal 2011 la situazione è un po’ cambiata: tanti ministri dell’Interno si sono succeduti al Viminale, tante operazioni sono state messe in piedi e portate a termine, è finita l’epoca dei respingimenti in mare e la violazione, almeno, della Convezione di Ginevra sui rifugiati. Ma tante cose, invece, sono rimaste inalterate: come il nostro senso di smarrimento di fronte a quella che assume la sostanza di una gravissima crisi umanitaria e i muri che, dentro la mente e nella realtà, pensiamo di poter innalzare per stare al sicuro. Senza capire mai bene da che cosa.

“Roghi fatui”: la più grande invenzione della storia.

Roghi fatuiGiulio Gasperini
AOSTA – Probabilmente è stata la più grande invenzione dell’umanità: un’invenzione che ha rivoluzionato il mondo in tanti modi, aprendo prospettive e percorsi inarrestabili. La stampa ha cambiato il mondo della cultura, e la cultura ha cambiato la storia dell’uomo: un’evidenza che non è mai troppo sottolineata né considerata, quando si discute di cultura, di costi e tagli. Ma quale prezzo abbiamo pagato per la libertà di stampa? Questa è la domanda dalla quale parte l’indagine romanzesca di Adriano Petta, che in “Roghi fatui. Oscurantismo e crimini dai Catari a Giordano Bruno” edito da La Lepre Edizioni nel 2011 nella collana “Visioni”, dispiega un’appassionante vicenda, ai limiti del giallo e della spy story, tutt’intorno all’universo del libro e della stampa.
Quella di Petta è una narrazione basata su un’indagine storica accuratissima, secondo le parole stesse dell’autore: “Per scrivere questo libro ho scavato nella cenere dei roghi delle biblioteche e di tutti i martiri della ragione e della scienza”. Nelle intenzioni dell’autore “Roghi fatui” è una sorta di conclusione ideale del precedente romanzo, “La via del sole”, e porta a compimento un cammino di conoscenza e di indagine delle ragioni culturali e sociali di cambiamenti epocali: quelli scientifici e culturali.
La storia affonda le sue radici in epoche remotissima a conferma di come il cambiamento sia sempre in moto, sempre in azione: “Nella Grecia antica cominciava il cammino della conoscenza”, a partire dai calcoli di Eratostene sulla circonferenza della Terra all’ipotesi di Aristarco di Samo che la Terra non stesse ferma ma si muovesse intorno al Sole. E poi la storia continua, si dipana in una trama oscura, fatta di episodi snelli e ben descritti, attraverso lo sviluppo e il fiorire della cultura ellenistica, nell’Alto medioevo, nella persecuzione dei Catari, il filosofo Bacone e altri illustri esponenti dell’età moderna, fino ad arrivare a Galileo Galilei, il padre della scienza moderna, ingiustamente umiliato per posizioni che nulla avevano in contrasto con la religione.
Nel corso della storia si tramandano segreti appassionanti, potenzialmente destabilizzanti la tranquilla placidità di un mondo dove la religione detta le paure e mantiene il controllo di un’umanità da imbavagliare. Donne e uomini, tutti sono protagonisti di una rivincita: la stampa terrorizza l’istituzione e alimenta le speranze degli intellettuali, fiduciosi (al di là dell’illusorietà) di liberare la cultura e di poter gridare al mondo verità ritenute pericolose per la religione.
Struggenti e paradigmatiche di questo scontro eterno sono le pagine dedicate al colloquio tra Giordano Bruno, da tempo imprigionato a Castel Sant’Angelo, e il cardinale Roberto Bellarmino, uno dei principali responsabili della sua morte a Campo de’ Fiori. Lo scontro tra i due, serrato e appassionato, mette in campo due diverse e divergenti visioni del mondo, che fin da subito si caratterizzano come inconciliabile e non mediabili, in nome di interessi discordanti.

 

ChronicaLibri ha intervistato l’autore, Adriano Petta: http://www.youtube.com/watch?v=clLJW7Q1Ba8

“Grazie per il fuoco”: la distruzione e l’inizio

grazie per il fuocoDalila Sansone
AREZZO – Da qualche parte ho letto che la tensione di “Grazie per il fuoco” si muove tra il prologo e l’epilogo, qualcosa di simile all’andamento di una funzione tra due punti di massimo insomma. A me piace vederlo come un arco voltaico, una scarica tra due poli opposti. Mario Benedetti lo pubblica nel 1965 ma in Italia arriva solo nel 1972 (Il Saggiatore), poi scompare e torna nel 2011 con le edizioni laNuovafrontiera dietro quel fiammifero spento, ancora fumante, sulla copertina di cartoncino ruvido. Ruvido.
Il tatto… c’è qualcosa di assolutamente sensoriale in questo libro dove la narrazione in senso proprio manca e i fatti prendono corpo e si fanno spazio nel fluire continuo, incessante di pensieri sparsi.
Di temi ne affiorano tanti tra il convenzionale e il meno convenzionale ma non sono il potente conflitto generazionale, ideologico, o lo sfondo che attanagliano la mente e catturano ipnoticamente l’attenzione. No, è il flusso di pensieri incastonato in una informe decadenza allo stesso tempo sociale, morale, individuale.
Un padre e un figlio, distanti, allontanati da un disprezzo che ha smesso di avere cause. Il bisogno di liberarsi da entrambi le parti, anche esso senza ragioni precise, se non quella del raggiungimento di una condizione diversa dall’adesso. Una costruzione narrativa perfetta nel mettere davanti al lettore l’evidenza: l’unicità di interpretazione non esiste, i sensi ci limitano e la mente si chiude su una o poche idee rendendoci incapaci di cogliere sfumature che non sappiamo vedere, perché non pensiamo nemmeno di farlo. Per questo compaiono voci fuori campo ed il pensiero continuo del protagonista si intervalla a attimi della mente di altri personaggi, donne. Tutte donne quelle che ascoltano riflessioni e amarezze mai espresse fuori da una alcova diventata metafora di una auto reclusione inconsapevole dalla vita, o che costruiscono pensieri inconfessabili persino a sé stesse. Sono questi punti di vista alieni che piombano a interrompere il crescendo dell’azione, obbligando il lettore a osservarla neutralizzando ogni giudizio.
Poi la pelle. Compare nei ricordi, nell’adesso, la pelle. Quella membrana assente alla percezione mentale eppure filtro della percezione reale. I sensi assorbono la mente, la attraversano, la incanalano, la distraggono e poi è li che si risolve tutto: in qualche modo l’essere pensante annegato in sé stesso si allontana dall’essere vivente, fino al richiamo dei sensi. E’ un richiamo materiale (un rumore, un colore) o mentale (un ricordo), troppo a lungo intermittenti o deboli per essere un qualcosa di duraturo nella vita di un uomo… fino a che divampa il fuoco, perché qualcuno ha saputo accenderlo, perché qualcuno bruciando dello stesso combustibile ha permesso che la distruzione si trasformasse in un vero inizio. Tanti singoli inizi.

Una donna “Nel paese dei briganti gentiluomini”.

Giulio Gasperini
AOSTA – Il suo è uno di quei nomi che riempiono la fantasia e che garba palleggiare in bocca, far esplodere in fondo alla gola: Alexandra David-Néel. Il suo è il nome di una donna che rappresenta l’avventura, prima ancora di un’emancipazione femminile che non conobbe forse esempio migliore. Alexandra fu golosa di strada; il richiamo del cammino, degli orizzonti sempre nuovi, delle terre da scoprire e battezzare fu un canto irresistibile, un imperativo improrogabile. Mai nascose i suoi bisogni dietro imposizioni altrui, né opinioni o pregiudizi: quando, nel 1911, partì per l’Oriente, lasciò il marito con una semplice lettera. Voland ha riproposto, recentemente, “Nel paese dei briganti gentiluomini”, che racconta il primo tentativo di Alexandra di raggiungere Lhasa e viaggiare attraverso il Tibet, dove ancora nel 1920 nessun occidentale aveva mai messo piede; tantomeno una donna.
La descrizione che Alexandra fa dei luoghi attraversati e la narrazione della sua avventura trasmettono prepotentemente tutta la sua passione per l’oriente, per codeste terre avvolte nel mistero, dove lo spirito d’adattamento deve primeggiare e nei quali l’arditezza e il coraggio non erano mai troppe. Puntuale in ogni dettaglio, attenta a spiegare ogni nuovo concetto e ogni parola mai pronunciata dagli occidentali, Alexandra si palesa anche come abile insegnante e come puntuale divulgatrice. Non c’è sguardo imparziale, nella sua visuale; c’è il punto di vista di una donna uguale a nessun’altra che sa, conosce e quel che ignora lo vuole presto imparare, così da non sentirsi mai impreparata di fronte a nulla che le possa accadere. Il cammino della pellegrina Alexandra attraverso le terre inesplorate e avverse è descritto e significato soprattutto attraverso gli incontri, le tangenze di persone, le frasi e le parole scambiate: la lungimiranza della sua visione umana e cosmopolita, in una sorta di pacifica globalizzazione culturale e sociale, sorprende e fors’anche un po’ spiazza. Ma la saggezza che si distilla da questo racconto è il tratto distintivo di una donna la cui vita stessa è un racconto appassionante di avventura. Dal 1914 al 1916, ad esempio, mentre il mondo sprofondava nel delirio e nella furia della prima guerra mondiale, Alexandra praticò esercizi spirituali in una caverna in Sikkim e nel 1921, all’età di cinquantatré anni, riuscì a entrare a Lhasa, travestita da pellegrino tibetano.
Desiderosa di vita vagabonda, Alexandra viaggiò, studiò, scrisse. Seppe come dar senso alla vita, come far gemmare una passione, come trasformare il viaggio in una forma sorprendete e superiore di cultura. E, per concludere l’epica, visse fino a cent’anni.

Hans Adam von dzu Liechtenstein e i suoi privati tesori.

Michael Dialley
AOSTA – “I Tesori del Principe” si propone come un viaggio nella più grande collezione privata di opere d’arte presente al mondo, l’ultima appartenente ad una casata asburgica.
Le 80 opere sono una minima parte rispetto alle 1500 che compongono questo patrimonio artistico della casata dei Principi del Liechtenstein: la famiglia ha sempre avuto la passione per l’arte classica, tant’è che la collezione nasce nei primi anni del 1600 e prosegue ancora oggi, sempre seguendo lo stesso filone artistico, in quanto l’arte moderna è immagine di un secolo buio, come afferma Hans Adam von dzu Liechtenstein.
Edito da Forte di Bard e curato da Johann Kraftner e Gabriele Accornero, il catalogo, dell’omonima mostra, si propone come un importante strumento per chi ama e studia l’arte, corredato di immagini grandi, nonché di testi introduttivi, didascalie che raccontano i soggetti e danno le informazioni necessarie per un’infarinatura generale sull’autore. 7 sezioni che fanno scoprire i più grandi maestri olandesi, fiamminghi ed italiani che hanno profondamente segnato la storia dell’arte dal XV al XVIII secolo: da Lukas Cranach Il Vecchio ad artisti del calibro di Hayez.
Un viaggio tra opere a carattere religioso, come il “Compianto di Cristo” di Rubens, scene mitologiche, come il “Ratto di Europa” di Van Balen piuttosto che “Apollo e Diana uccidono Pitone” di Francheschini, ma anche ritratti, di artisti come Van Dyck e Hals, fino ad arrivare a pezzi molto particolari come il “Cabinet” di Baumgartner, un mobile con piccoli cassetti interamente decorato con pietre preziose e marmo toscano.
Un insieme di opere ricche di cromatismo, movimento, emotività tipiche dell’arte e dei dipinti di un secolo controverso, ma fortunatamente molto rivalutato negli ultimi anni: il Barocco.
Un viaggio suggestivo nelle sale che erano le cannoniere dell’opera Carlo Alberto del Forte di Bard, in Valle d’Aosta, e che adesso può essere intrapreso anche attraverso il catalogo di questa mostra.

“Storia delle Olimpiadi”: storie di uomini e donne.

Giulio Gasperini
ROMA – Significherà pur qualcosa se uno studioso di Dante, autore di un commento della Commedia diventato caposaldo della critica letteraria, si è imbarcato nell’avventura di raccontare imprese sportive. E non imprese sportive in generale, ma l’evento sportivo per eccellenza, già fondante dell’antichità classica per più di un secolo, che fu riesumato e riproposto alla fine del XIX secolo dal barone francese Pierre De Coubertin: i Giochi Olimpici. Stefano Jacomuzzi compilò questa “Storia delle Olimpiadi” per Einaudi nel 1976 dopo l’insanguinata edizione dei giochi di Monaco 1972 che parvero pietra tombale dello spirito olimpico. Questa storia è stata completata, fino alle olimpiadi di Pechino 2008, dalla coppia di fratelli giornalisti Giorgio e Paolo Viberti e pubblicata nel 2011 da SEI Frontiere.
Jacomuzzi principia a raccontare dai prodromi delle Olimpiadi, da quel primo desiderio concretato in un progetto mondiale: dalla lungimiranza del barone De Coubertin, dalla potenzialità del suo sguardo e del geniale intuito che ebbe nel rievocare e nel riportare in vita una competizione che, col passare degli anni, non fu soltanto sportiva ma divenne sociale e persino politica, dall’edizione di Berlino 1936, “irta di svastiche” in piena affermazione di Hitler, alle edizioni dei boicottaggi incrociati di Mosca 1980 e Los Angeles 1984, dalle Olimpiadi del centenario di Atlanta 1996, interamente sponsorizzate dalla Coca-Cola, fino all’Olimpiadi di Pechino 2008 che decretarono e sancirono la potenza mondiale della Cina. Jacomuzzi racconta con ironica leggerezza gli episodi più potenti che hanno definito le Olimpiadi e le hanno significate: dalla celeberrima maratona di Dorando Pietri a Londra 1908, alla triste vicenda del giovane Fabio Casartelli, oro nel ciclismo a Barcellona 1992, dal primo oro olimpico conquistato dall’Uganda con John Akii Bua a Monaco 1972 al dramma umano ed esistenziale di John Thorpe “Sentiero lucente”, atleta pellerossa che vinse pentathlon e decathlon a Stoccolma 1912 e si vide togliere le medaglie per una futile diatriba tra professionisti e dilettanti.
Stefano Jacomuzzi non trascura il suo essere letterato, non abdica al ruolo di scrittore forbito e consapevole della lingua, tanto da creare quello che i suoi figli, Ulisse e Vincenzo, definiscono nella presentazione “Al lettore” del volume come “il suo romanzo più bello”. E di romanzo effettivamente si tratta perché Jacomuzzi non presta tanto attenzione ai risultati ottenuti, ai tempi della corsa, ai record dei lanci, alla potenza delle falcate con cui si vince l’oro, ma porge la sua – e veicola la nostra – attenzione sulle storie, sui drammi, sulle felicità, sulle casualità e le tragedie di persone che vincono per un giorno, in un attimo, e diventano immortali per sempre. Ogni uomo e ogni donna sono infatti pura narratività e ogni loro racconto, ogni loro evento o impresa, può diventare letteratura. Di quella più genuina.

“L’arte? Un serissimo modo per giocare”: ChronicaLibri intervista Luigi Imperato.

Giulio Gasperini
ROMA – La sua definizione dell’arte mi ha folgorato (e spiazzato). Cerchiamo sempre di incoronarla, di darle obiettivi e meriti a volte persino fin troppo pretenziosi. Spero la rendiamo altera. Sicché diventa antipatica, ostile. Pare che voglia discriminare. E invece è soltanto colpa di chi, tale arte, l’ha costruita e se n’è servito. Luigi Imperato, drammaturgo attore poeta (“Voce rauca di mare”, Editrice Zona), in questa bellissima intervista ci spiega come l’unica e vera arte sia quella che riesce a scherzare e a dissacrare. E sia, ancor più, quella che ci fa giocare; e divertire.

I nostri appena inaugurati anni Dieci stanno accelerando ancora più vertiginosamente degli anni Zero. Ci sono rumore, parole che si sovrappongono, fiati inutili, assedi di sillabe. “L’udito è offeso / da suono indiscreto / che si fa presente, / non richiesto, / pretende ascolto / solo perché, / senza ragione, / emesso”. Dalle tue poesie si evince chiaramente come tu opponga al rumore i tuoi silenzi, che “non sono assenza” e che sono coraggiosi ché “non hanno paura”. Come potremmo, secondo te, rendere tutto questo rumore meno molesto? O, addirittura, potremmo riuscire a produrne meno?
Sì, per me il silenzio è un valore. Mi accorgo però che non è semplice trovare chi condivida questa mia idea. Il silenzio viene valutato spesso come un dis-valore, in qualche caso addirittura un problema. Una persona silenziosa non viene “interpretata” come una persona che ascolta o che pensa, ma, in alcuni casi, come una persona con difficoltà. Questo secondo me è legato ai tempi del mondo moderno. Quello che conta oggi è arrivare subito al risultato, è mostrare subito le proprie carte. Se possibile prima di subito. La prima impressione è quella che conta e solo una loquacità vivace, pimpante, performativa è in grado di ammaliare, di conquistare, di affascinare in modo immediato. Il pensiero lento, il silenzio, la meditazione sono molto meno in linea con i tempi a cui siamo abituati. Sia chiaro che poi io non ho soluzioni in tasca, come non sono immune da contraddizioni. Io stesso sono completamente immerso nel mio tempo e io stesso sono affascinato dal ritmo, dalla velocità, dalla performance, dal talento. Mi confronto con questi temi in maniera quotidiana occupandomi di teatro, ma allo stesso tempo, quando posso, cerco di fermarmi e meditare sull’importanza dell’attesa, del risultato da raggiungere senza fretta, della bellezza dell’ascolto senza l’ansia di dover subito entrare in ogni discorso con il diktat del “fare bella figura”. Ecco forse un modo, per quanto parziale, per rendere il rumore meno rumoroso sarebbe fare un passo verso la consapevolezza del rumore. Va bene il social network, va bene il web 2.0, va bene il tablet… ma ogni tanto staccare la spina e rendersi conto che non c’è bisogno di tutto quel “cinguettio” continuo è già un piccolo passo avanti.

Siamo stati costretti a “cinguettare” molto, in effetti. L’afflusso di notizie è pari, in velocità, soltanto alla necessità che le notizie hanno di essere consumate. E anche le persone sono diventate soggette alla medesima scala di valori. Ma tu sembri suggerire diversi modelli di umanità: un umanità che parla “parole nate notturne per non farsi notare”, persone che riescano a stare dietro alla fragilità. Ed è eccezionale quest’ultimo augurio che fai al mondo. Di quale fragilità parli? È davvero possibile, in un mondo come il nostro, poter continuare a sospettare noi stessi di essere fragili? E, ancor più grave, mostrarla al resto del mondo?
Se medito sulla fragilità e su quale fragilità io non veda tutelata, mi viene in mente proprio la poesia. Non intendo solo il genere letterario ma la poesia come sinonimo di bellezza. La bellezza, per me, è qualcosa di delicato perché si regge su un confine sottile. È una sorta di soglia al di là della quale si nasconde qualcosa di diverso, non sempre senza valore, ma di diverso. Come teatrante e come autore compio il tentativo di percorrere quel confine delicato, sottilissimo. Sono sicuro di non essere ancora riuscito a fermarmi, anche solo una volta, proprio in quello spazio ristretto, ma sento la necessità di avere quel luogo là come mia meta. La bellezza, la poesia sono sì fragili, ma a loro modo sono un’arma potentissima. L’altro giorno ho rivisto un mio maestro, Michele Monetta (mimo, attore, regista) e lui ha concluso una sua presentazione citando delle parole di Dostoevskij: “La bellezza salverà il mondo”. Ecco quelle parole sento che fanno parte del mio bagaglio insieme a quelle con cui Italo Calvino chiude il suo “Le città invisibili” parlando dell’Inferno che ci circonda: “Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo e’ rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare e dargli spazio”. Questa mi pare anche essere una risposta alla seconda parte della tua domanda. Non dobbiamo vergognarci di quella parte di noi non corrotta, che resiste all’inferno, che sa essere fragile, ma che ha dalla sua la forza della purezza. È un lavoro difficilissimo, che io, sia chiaro, non sono assolutamente in grado di fare fino in fondo. Eppure in qualche modo credo di esserne influenzato, credo che anche solo pochissime delle mie scelte siano state dettate da una sorta di resistenza ad un mondo mercato, ovvero quello che secondo me è realmente l’inferno. Là dove non conta l’uomo ma il sistema si sta sacrificando la complessità tipica dei sentimenti e si sta cedendo alla semplicità dei numeri. Ma forse mi sto allontanando troppo dalla tua domanda…

Non credo tu ti stia allontanando troppo, perché noi viviamo in un mondo che è più un sistema, come hai sottolineato anche tu. Un sistema dove noi siamo incastri, numeri, cifre e dove le facce, i volti, le storie, non sono tenuti in nessun conto. E tu hai trovato un bellissimo regalo, da fare agli uomini: ti auguri di, un giorno, “poter regalare agli uomini / la lentezza di uno sguardo”. E credo che la lentezza sia uno dei più bei regali si possano fare a sé stessi e agli altri. Ma dove va a finire, allora, la velocità? E dove va a finire, al contrario, quell’uomo che grida nel deserto, che “viaggia e tace / spaventato dalla sua voce rauca di mare”? È costretto al silenzio?
Mi piacerebbe che quella che chiami “velocità” fosse al servizio dell’uomo. Purtroppo qualche volta il congegno si inverte e l’uomo diventa uno strumento. Però notevoli sono le eccezioni. L’uso, per esempio, che alcuni artisti fanno della tecnologia ci fa rendere conto di come la “velocità” possa essere, qualora usata con intelligenza, un’arma a favore della ricerca di qualcosa di profondamente umano. E l’innovazione non aiuta l’uomo solo in campo culturale: qualche mese fa a San Giorgio a Cremano (Na) si è tenuta una sorta di giornata di confronto e progettazione sull’utilizzo di strumenti innovativi da porre al servizio delle pratiche del sociale. Si trattava di un Social Start Up, iniziativa interessante e che si ripete, che io sappia, in molte parti d’Italia. Questo è uno dei modi per far sì che la bellezza della velocità non entri in conflitto con quell’uomo che grida nel deserto e che anzi lo aiuti a non ridursi al silenzio. Un silenzio forzato ovviamente, perché oramai è palese che io amo un certo altro silenzio.

Sicché viriamo d’argomento e leggiamo questi tuoi versi: “La verità è che se avessi amato / con tutto l’amore che conosco, / mi avrebbero esiliato, / solitario abitatore del non concesso”. L’amore. Onnipresente forza, distruttiva e costruttiva. Cosa rappresenta l’amore? Qual è, secondo la poesia e l’idea di Luigi Imperato, la sua reale potenza? Il suo più profondo merito? Possiamo farci ancora affidamento, sull’amore?
Cambiamo domanda? Scherzo… L’amore… Davvero è uno degli argomenti più complessi di cui parlare. La poesia è un tentativo di parlarne appunto, ma è anche un tentativo di non scoprirsi. Pina Baush, la nota coreografa morta solo qualche anno fa, diceva che per lei era un continuo lottare tra la volontà di dire e quella di nascondere sé stessa. Questo era per lei la sua danza, questo è, a ben vedere, per me la mia poesia ma anche il mio teatro e i miei tentativi di narrazione in generale. Quando racconto una storia parlo di me, ma non facendo banalmente autobiografia, semplicemente portando nei personaggi parti del mio mondo, del mio modo di guardare a quel mondo. Tra gli oggetti emotivi che più mi tormentano, che più mi costringono a tenere lo sguardo fermo su di loro c’è l’amore. Ed è una danza… una lotta danzante tra quello che voglio e riesco a dire a proposito di questo sentimento e quello che invece non voglio dire, non so ammettere. Quel verso che citi è esattamente questo, un verso troppo esplicito per me, ma anche volutamente criptico. Non riuscirei mai ad aggiungervi una qualche spiegazione, proprio non ce la farei.
L’unica cosa che posso dire forse è che c’è un amore di cui si ha bisogno, ed è quello che fa battere il cuore, fa scorrere il sangue velocissimo come se avessi sempre dieci anni o poco più. C’è un amore bambino che non riesci mai a tradire fino in fondo… poi c’è un amore maturo, che cerca di fare i conti con la stabilità, con un certo modo di stare al mondo, ordinato, inquadrato… ma questo, lo ammetto, ancora non sono riuscito a capirlo fino in fondo. L’ordine e la stabilità mi sembrano in opposizione all’amore, ma ci sarà un modo e prometto che non appena lo scopro lo rendo pubblico.

Sapevo che l’argomento dell’amore sarebbe stato un po’ difficile, perché l’amore non è mai facile. Così come non è mai facile quadrare il dolore. Nella tua raccolta parli molto di dolore, lo declini in parecchie tipologie, dalla guerra (“Dormi, la guerra / è vicina”) a una sorta di esilio (“Sono pronto ad aspettarti. / Attendo l’esilio / per poter ricominciare”). Una “voce rauca” canta queste poesie, puntando a un luogo altrove, “Dove anche il dolore / diventa ricordo”. Come si fa maturare, dunque, il dolore? Dal dolore quali frutti si possono raccogliere?
Io penso che il dolore sia l’unico modo per maturare. La sofferenza è un percorso obbligatorio che ti permette di entrare in contatto con la realtà e di capirla fino in fondo. Tutto quello che c’è intorno a noi è problematico, difficile, forse proprio per questo affascinante e proprio per questo utile alla narrazione. Se non ci fosse il dolore, se tutto fosse perfetto non avremmo bisogno dell’arte. Quest’ultima per me è un modo meraviglioso per evadere dalla sofferenza ma ancor più per guardarla in faccia fino in fondo, per capirla, per essere pronti a reagire ad essa o solo a non soccombere. Anche la comicità, quella che io trovo interessante, ha a che fare sempre con un contrasto, un conflitto. I temi anche più grossolani come possono essere quelli del sesso e della merda creano un effetto comico immediato non a caso: parlano della parte animale dell’uomo e del suo pudore di essere bestia prima ancora che uomo, carne oltre che spirito. Vi è una ferita implicita alla base di tutto ciò che forse riguarda il sogno impossibile dell’immortalità e il suo contrasto con la finitezza del proprio corpo. Ed è quella ferita la vera cosa interessante per me. Cosa c’è di più tremendamente comico che scherzare sulla morte? E che cos’è l’arte se non un serissimo modo per scherzare, ancora meglio: giocare.

Sicché non rimane che capire che l’arte è un gioco. Il più tremendo, e serio, gioco umano.

“Il richiamo della strada” e le nostre distanze compresse.

Giulio Gasperini
ROMA –
“Il mondo offre una fonte inesauribile d’ispirazione”. La mistica del viaggiatore sta tutta in questa frase, in questo concetto semplice quanto disarmante, sorprendente. Come racconta Sébastien Jallande nella sua piccola guida “Il richiamo della strada” (edito in Italia da EdicicloEditore nel 2011) il viaggiatore comincia il suo viaggio ben prima di partire. L’attesa, la preparazione, l’edificazione stessa del viaggio rappresentano vere e proprie tappe fondanti, oltreché obbligate. Perché il viaggio è preparazione, è formazione, è crescita; il viaggio è “un atto filosofico”. “Partire impone una presa di coscienza”: il considerare, cioè, di dover mettere in discussione tutto, di noi. Ogni nostra singola scelta, la direzione che, di volta in volta, dobbiamo calibrare ed eventualmente cambiare, ci inducono a confrontarci prima di tutto con noi stessi, con le nostre attese e le nostre pretese, con le fragilità e i punti di forza. “La vita è altrove”, come scrisse Kundera, e come Jallande pone come epigrafe della sua mistica del viaggiatore.
Si parte per conquistare un qualche orizzonte, si parte per dare un nome ad altre terre (un nome che sia tutto nostro, intimo e privato), per nutrire la propria aspirazione all’ignoto. E prima di partire mettiamo in conto le distanze che dovremmo percorrere, quei sentieri che creeranno la nostra mappa personale. Le distanze però, nella nostra contemporaneità, sono da reinventare perché si sono compresse, in qualche caso annullate. Non ci sono effettivamente più nomi da inventare né terre da battezzare. Oramai il mondo è squadernato in cartine e planisferi, è sondato da radar e GPS, è monitorato da internet e motori di ricerca. Oggi, più che in passato, quando l’emozione del grido “Terra!” defibrillava i cuori e sbizzarriva le menti, il viaggio ha senso solo se ripiegato sulla personalità che lo compie. Sul soggetto che lo vive. Sicché la geografia più importante non è né quella fisica né, tantomeno quella economica o politica: la geografia più stimolante (e quella più valida su cui puntare) è quella intima perché “appropriarsi di un luogo sconosciuto è anche sviluppare una rete di legami”. Ecco allora che la geografia si accompagna alla sociabilità, è una “mistica dell’incontro”, e non se ne può separare, non si può scindere né prescindere. Noi siamo gli artefici del mondo, del suo sviluppo, delle sue derive e dei suoi approdi; noi, come scrive Jallande, partecipiamo alla “sedimentazione del mondo”. Ci sono particolari, dettagli, brividi sui quali gli atlanti non dicono niente, per i quali non informano.
Il “partire è anche confrontarsi con ciò che ci viene negato”: è un continuo mettersi in gioco e screditare le opinioni altrui, nell’unico tentativo di cercarsi le proprie. L’unico compimento del viaggio, l’unico modo per analizzarlo e farlo gemmare e fruttificare, è il suo racconto. Perché la narrazione aiuta noi stessi e gli altri: “Ogni racconto è un dono per la memoria degli uomini” scrive Jallande. “Raccontare il proprio viaggio è quindi una forma di terapia contemporanea”, risponde a “un desiderio imperioso di mettere ordine in sé”. E rimane l’unico modo affinché il viaggio continui oltre il rientro. E ne fiorisca il significato.

“Scene da una battaglia sotterranea”: l’arte della guerra e gli armadilli.

Giulio Gasperini
ROMA –
Forse, un tempo, la guerra ebbe un’arte: lo dimostrano le teorizzazioni, capolavori letterari più che strategici, da quella del generale Sunzi, nel VI secolo a.C., fino ad arrivare a Machiavelli, nel saggio “Dell’arte della guerra” (1520 ca.). Rodolfo Fogwill, nel suo straziante romanzo “Scene da una battaglia sotterranea”, pubblicato finalmente in Italia da SUR (2011), parrebbe raccontarci, all’opposto, una guerra che è tutto fuorché arte. Che è piuttosto bizzarra ironia dell’umano, sadica dimostrazione di ferocia, inaudita e immotivata violenza. Una guerra, insomma, che non rimane su carta, sulle mappe, sugli spostamenti delle pedine (una specie di Risiko istituzionale), ma che colpisce e affonda la carne, strazia e strania, abbatte e lascia incompiute le ore.
Scritto in soli tre giorni, durante l’assurda guerra delle Malvine (o, a preferenza, delle Falkland), il romanzo assume un punto di vista radicale, ma che mai diventa straniante; è un punto di vista che ci rende sempre protagonisti estremi della Storia. Siamo trascinati e trattenuti sottoterra, in gallerie e cunicoli dove vive, ridotta al buio e all’umidità, una società che si crea alternativa al mondo, che in cambio di sigarette e scatolette di cibo tradisce il suo ruolo e i suoi compatrioti, che avvantaggia il nemico ma sentendosi, così, paradossalmente, meno sola, meno sfruttata, meno dimenticata e illusa che difendere la patria sia il dovere di ogni cittadino, per la sopravvivenza dell’integrità della nazione offesa.
Sono gli armadilli, “Los pichiciegos”: soldati argentini costretti, come i totemici animali dell’America latina, a vivere nel sottosuolo, a percorrerlo e a sentirselo come una casa. Il titolo originale è proprio questo: “Los pichiciegos”, perché loro sono i catalizzatori della vicenda, loro sono i più evidenti risultati che la guerra, nella sua idiozia senza fine, nella sua più totale ed esclusiva mancanza d’arte, produce e alimenta. La guerra fa rumore alle loro spalle, sopra le loro teste, bombarda e soffoca, si sviluppa secondo le sue regole strane e stranianti. Ma, alla fine, la guerra diventa un pretesto, un accidente che autorizza a soffermarsi su quella società alternativa e straordinaria (perché fuori dal consueto); tanto che non sarà la guerra a ucciderli, ma un banale incidente causato da una loro trascuratezza. Fogwill vuole dirottare il nostro interesse verso questi uomini, verso la loro caratura umana, che si trovano ridotti ad animali, a bestie condannate e dimenticate da qualsiasi logica del mondo: ce li porge, ce li offre, ponendoli alla ribalta del testo, con uno sguardo che piega a benevola compartecipazione.
Grazie a SUR, una casa editrice indipendente e nata senza alcun capitale, attenta al rapporto coi librai indipendenti e alle nuove frontiere che la società impone di valutare, la letteratura latino-americana sta riscoprendo nuove voci, al di fuori dei soliti grandi blasonati (ma che poco osano e si innovano). Voci che nuove lo sono soltanto per noi, lettori italiani, ma che ci permettono di ammirare nuova letteratura e di leggere pagine d’inaudita bellezza, dove la febbre delle parole si allaccia alla passione politica e sociale.