“Il maestro dentro”: la scuola anche in carcere, nonostante tutto.

Il maestro dentroGiulio Gasperini
AOSTA – Ci sono mestieri che sono piuttosto vocazioni. E ci sono mestieri che non si è mai pensato di poter fare, ma che poi diventano il migliore dei possibili orizzonti. Questo secondo caso è un po’ quello capitato a Mario Tagliani, ritrovatosi a fare l’insegnante un po’ per caso e finito, ancora più per caso, a fare il maestro nel Ferrante Aporti, il carcere minorile di Torino. Trent’anni di insegnamento in una situazione non convenzionale sono raccontati in “Il maestro dentro”, appena uscito per Add Editore. Un diario, ma ancora di più un lungo memoriale di incontri, scoperte, disagi, dolori, attese e sorprese che non sarebbero potuti accadere in nessun’altra parte se non là, all’interno di quel carcere.
Ma nelle pagine di Tagliani si ripercorre velocemente anche la storia degli ultimi trent’anni di Italia, in una prospettiva sociologica particolare e interessante: i cambiamenti della società italica visti attraverso i cambiamenti del carcere. Perché è innegabile che il rapporto sia stretto, e che si alimenti a vicenda. Si comincia coi primi anni, quelli nei quali le celle straripavano di ragazzini meridionali: napoletani, calabresi, siciliani. Finiti al Nord per colpa di una migrazione interna, mai adattatisi alle regole e al modo di vivere così distante dal loro. Ma poi l’Italia cambia: orizzonte di migrazioni internazionali. Prima gli albanesi, poi cittadini del Nord Africa che decidono di attraversare lo stretto braccio di mare per una terra che sembrava il paradiso ma che, in realtà, molto spesso fu gabbia e prigione. E così anche le classi del Ferrante cambiano: serve una nuova scuola, servono lezioni che insegnino spesso i rudimenti dell’italiano, servono confronti che aprano a una prospettiva interculturale, innalzando i livelli di difficoltà e incomprensioni ma anche potenziando le scoperte inattese. Ma cambiano anche i secondini, le guardie, i direttori. E cambia anche il Ferrante stesso: sparisce il campetto di erba vera e ne compare uno di erba sintetica, sparisce l’entrata maestosa del palazzo storico e ne compare una grande come la porta di uno sgabuzzino.
La scuola può essere declinata secondo modalità diversissime. Si può fare scuola esulando da libri e tabelline, da compiti e cartine mute. Si può fare scuola educando al confronto, nutrendo idee, proponendo impulsi e scatenando reazioni. Si può fare scuola anche solo organizzando partite di calcio, dipingendo, raccontando, smettendo di guardare fuori da una finestra sbarrata per posare gli occhi sui compagni e cominciare a interagire nelle tante spigolosità di carattere e pensieri. Non sempre la scuola riesce nel suo intento, ma non per questo si può rinunciare, si deve disertare un ruolo che, quando amato e portato avanti con passione, diventa un gioco. Ancora di più in un carcere, che dovrebbe essere un luogo di riabilitazione, “un luogo di sosta, di passaggio per chi ha sbagliato, luogo ideato per permettere di ripensare all’errore commesso: si deve allora superare la colpa per arrivare alla responsabilità”. La stessa responsabilità che dovrebbe aver lo Stato nel permettere che un carcere del genere possa effettivamente affermarsi.

Il coming out “Sulla mia pelle”.

Sulla mia pelleGiulio Gasperini
AOSTA – Jodie Foster, Tom Daley, Maria Bello, Michelle Rodriguez, Thomas Hitzlsperger: il coming out non sta diventando di moda. Sta semplicemente facendosi più facile. Oramai i cambiamenti – seppur lenti – della società permettono di non sviluppare feroci sensi di colpa per la propria vera natura. Il coming out rimane comunque spesso un faticoso percorso interiore, frutto di uno scavo profondo nella propria intimità, nella lenta ma inevitabile presa di coscienza di sé, del proprio io; percorso, questo, che rappresenta per ognuno la pietra angolare dalla quale partire per costruire la propria personalità e sulla quale costruire le capacità relazionali. La storia di Beldan Sezen potrebbe essere particolare per tanti aspetti: turca, cresciuta in Germania, trapiantata ad Amsterdam, artista, lesbica. Ma la sua narrazione, in “Sulla mia pelle”, edito dalle Edizioni BeccoGiallo nel 2014, ce la rende tutto sommato abbastanza comune. Non per questo banale, ovviamente; ma una sorta di exemplum di dantesca memoria: un percorso, cioè, nel quale chiunque si possa ritrovare, adattandolo alle proprie variabili e modellandolo sulle proprie varianti, ma pur sempre carico di valori universali.
Probabilmente questo non era neanche l’intento dell’autrice, ma la capacità della buona letteratura sta proprio in questo: nel diventare strumento comune, identità collettiva. Letteratura, sì; perché oramai la graphic novel è genere letterario, sufficientemente adulto per poter permettersi di affrontare temi e questioni anche complesse, con una facilità di fruizione data anche dalla sinergia di linguaggio iconico e testuale. E questo “Sulla mia pelle” ne è esempio lampante e significativo. Con una varietà sorprendete di tratti e di forme, la storia del suo coming out si sviluppa non semplicemente in ordine cronologico ma seguendo dei percorsi tematici, in particolare il rapporto (e il complesso svelamento) con la madre e soprattutto i primi amori etero, che non riescono a soddisfarla completamente, per vari aspetti. Ma compaiono anche gli altri membri della famiglia, le loro inattese reazioni, i Gay Games di Amsterdam, i rapporti con le amiche, gli amori che si trova a dover affrontare e che la conquistano con la pienezza dei gesti e delle sensazioni.
Il percorso personale è una progressiva scoperta, dalle prime forme che non tengono alla pienezza del comprendersi e nel capirsi indipendentemente da tutti. È una consapevolezza che nel caso di Beldan Sezen cresce in maniera direttamente proporzionale alla scoperta dell’arte e della manifestazione artistica, in particolare del fumetto. Sicché tutta l’ interiorità – femminile, in questo caso –viene messa in gioco, entra nel complesso meccanismo di porsi feroci domande, che spesso inchiodano a terra, e nel trovarsi inequivocabili – ma sofferte – risposte. Perché il coming out, spesso più che con gli altri, è una sofferta forma di riconoscimento di sé stessi per sé stessi.

“Lampedusa”, una guida per la terra vicina che non ti aspetti.

LampedusaGiulio Gasperini
AOSTA – Lampedusa e Linosa sono due isole vittime spesso della comunicazione televisiva e giornalistica. Ingiustamente condannate dalla loro posizione a urlati allarmismi di invasione, sono in realtà delle terre estremamente ricche di ambienti e paesaggi. “Lampedusa. Guida per un turismo umano e responsabile”, scritta da Ivanna Rossi e edita da Altreconomia Edizioni, è uno strumento pensato proprio per esplorare questi lembi di terra remota ma vicina al sentimento, di luoghi poetici e di orizzonti ampi. È una guida che ci fa conoscere le isole da ogni punto di vista, presentandoci anche le curiosità e offrendoci la prospettiva degli abitanti, di chi la vive ogni stagione, per ogni altro giorno dell’anno: perché Lampedusa e Linosa, per molti di noi, sono una meta turistica, ma per circa ottomila persona rappresentano la quotidianità.
Attraverso i capitoli, Ivanna Rossi ci accompagna per mano, in un percorso interessante ed emozionante, a scoprire tutte le declinazioni di quest’isola dall’identità risoluta e fiera, come il carattere dei suoi abitanti. E così si parte, dalla descrizione del paesaggio, dei porti, delle tante cale di cristallino mare che gemmano il profilo dell’isola; poi si passa per la casa di Claudio Baglioni, ci raccontano la storia del naufragio della Madonna, ci portano ad ammirare la splendida Isola dei Conigli con la sua spiaggia che piuttosto pare una culla. E ancora ci informano sui Timpuna, i misteriosi cerchi che esistono anche qua, fino a farci prendere una barca, spingendoci su quel mare che è nemico e alleato dell’isola stessa, in un rapporto di odio e di amore che diventa inevitabile. Ma c’è anche spazio, nella guida, per notazioni di carattere antropologico, proprio perché la realtà dell’isola non è riducibile soltanto alla dimensione vacanziera né turistica, da bagno e sole accanto all’ombrellone: il testo della canzone dello spugnaro, mestiere “durissimo ed epico”, ci porta in un mondo ignoto e inesplorato ma che ha segnato indelebilmente la collettività lampedusana. Un capitolo è interamente dedicato all’arte e alla cultura, che ha prodotto risultati eccellenti anche in così poca estensione di terra: dalla Porta d’Europa ai murales coloratissimi che recentemente hanno animato i muri assolati del paese. E poi c’è la cucina, nata dall’incontro tra oriente e occidente, tra i sapori arabi e le barocche ricette siciliane. Ma una guida per un turismo responsabile non può prescindere dalla parte sociale, ed ecco che il settimo capitolo, “Lampedusa Premio Nobel”, squarcia il velo dell’ovvio e del pubblicizzato, raccontandoci di Contrada Imbriacola, del CSPA, degli incontri straordinari che si fanno su questo lembo di terra, di Frontex, del Tre ottobre e del naufragio e della morte delle 300 persone, arrivando a raccontarci persino la recentissima “Carta di Lampedusa” e il collettivo Askavusa che ogni anno organizza il Lampedusa Film Festival.
Un percorso, quello della guida, che ci squaderna una terra che troppo pensiamo di conoscere ma che in realtà non conosciamo per nulla. Per farci capire, persino, che non c’è bisogno di prendere un aereo per scavalcare interi continenti alla ricerca di un paradiso e del mare più bello del mondo: basta spingere lo sguardo nelle terre più a sud dell’Italia.

Le “Gufilastrocche”: storie illustrate di simpatici gufi.

GufilastroccheGiulio Gasperini
AOSTA – I gufi rendono la notte meno buia. Sono sentinelle vigili, attente. Simpatici alla vista, perché ricordano signori anziani, saggi, pazienti. Un po’ mediati dai cartoni animati, un po’ nobilitati persino dalla mitologia greca, che voleva la civetta l’animale totemico di Atena, dea della sapienza e dell’intelligenza.
Marco Zanchi, avvocato di Venezia, ha raccolto tanti simpatici gufi in un libro che si intitola “Gufilastrocche”, edito dalla veneziana La Toletta Edizioni. Una serie di ritratti, tutti in rime divertite, di gufi che popolano le notti dei bambini: una galleria spassosa e allegra, dove si incontrano tanti animali particolari ma comunque teneri. Un magico viaggio in un paese delle fiabe che ci insegna ad amare la natura in ogni sua forma e declinazione. Ad affiancare i versi, i disegni di un piccolo gruppo di disegnatori, capitanati da Alessandro Coppola. Marco Gavagnin, Valentina Merzi, Carla Erizzo, Sabina Meschisi, Ramona Bruno, Claudia Lombardo e Gabriele Riva, oltre ad Alessandro Coppola, popolano con le immagini e i colori le pagine di questo campionario fantastico, di questo esercito pacifico e scanzonato: si comincia dagli “Strambigufi”, si continua con la “Gufamiglia”, poi ci si internazionalizza con “Gufincittà”, poi ci si diverte con i “Gufinmaschera”, poi si impara coi “Gufimestieri”, poi si sogna coi “Gufianatale”, poi ci si emoziona coi “Dolcigufi” per concludere con i “Gufisport”.
Tanti compagni per grandi e piccini, per popolare di bei sogni le loro notti, per far diventare i gufi i loro compagni di attesa, di sogno e di riposo. Alle parole, dolci suoni, si affiancano i disegni, l’arte di dipingere una realtà di ritmi e pause, di note e vocalità delicate. Illustrazioni che plasmano vita, che fanno sorgere dalle pagine questi animaletti spesso bistrattati ma che si rivelano compagni ideali per una lettura di spensierata serietà.

Le tante novità al Salone del Libro (evitando i muraglioni).

Salone del Libro di TorinoGiulio Gasperini
TORINO – Anche quest’anno ChronicaLibri ha esplorato per voi i padiglioni del Salone del Libro di Torino alla ricerca delle ultime novità editoriali. Passeggiando tra gli stand ci siamo meravigliati di alcuni aspetti e ci siamo stupiti di altri, notando come i grandi gruppi editoriali avessero negozi (e non stand) con alti muraglioni di vetro e luci diafane e commessi più che librai mentre i piccoli editori stringessero le mani ai visitatori e amassero parlare di ogni singola loro creazione come se fosse effettivamente un figlio. Passeggiando e guardando, passeggiando e annotando, siamo tornati a visitare amici di sempre, che ci hanno illustrato le loro ultime novità.
Add Editore presenta “Il maestro dentro” di Mario Tagliani, il diario della trentennale esperienza come maestro tra i banchi di un carcere minorile, e “Musica nel buio” di Cesare Picco, la storia di un pianista che suona nel buio più completo, per scelta, nella performance “Blind Date – Concert in the Dark”.
Gli amici toscani di Ouverture Edizioni, invece, presentavano al Salone del Libro due testi: il semplice ma gustosissimo ricettario “Vegano alla mano” coi i due autori, Arianna Mereu e Vieri Piccini, e “Alcune strade per Cuba” con l’autore Alessandro Zarlatti, una ricca collezione di racconti che raccontano i suoni, i colori, gli odori di una terra in profonda trasformazione.
Dopo il successo di “Oltre il vasto oceano” di Beatrice Monroy, in corsa al Premio Strega 2014, Avagliano Editore propone “Casa di carne” di Francesca Bonafini, la storia di una crescita che corre tra quattro città: Trieste, Brest, Rio de Janeiro, Lisbona.
Gli amici di Elèuthera ci hanno presentato il nuovo saggio di Marco Aime, “Etnografia del quotidiano”, uno sguardo antropologico sull’Italia che cambia, che ha ottenuto un grandissimo successo anche al Salone del Libro.
La Giuntina, invece, presentava due testi: il primo, “Idromania”, di Assaf Gavron, un’inaspettata sorta di thriller fantascientifico sulle guerre che la carenza d’acqua scatenerà nel mondo; il secondo, di un’autrice di punta come Lizzie Doron, “L’inizio di qualcosa di bello”. Spostandoci in oriente, invece, la ObarraO Edizioni aveva portato al Salone due testi della collana In-Asia: “Il mondo dei fiori e dei salici” di Masuda Sayo, l’autobiografia di una geisha, e “Fuga sulla luna” del cinese Lu Xun.
Anche quest’anno, un Salone ricco di sorprese e di buonissimi testi. Evitando i muraglioni e le vetrine troppo accese.

“Bianca e il Rubasogni”: storia di tutti noi.

Bianca e il RubasogniGiulio Gasperini
AOSTA – Cosa potrebbe accadere se un misterioso Grigio Signore cominciasse a fabbricare giocattoli che catturano e imprigionano la fantasia e i sogni dei bambini? La favola che Luca Nocella ci racconta, in armonia coi potenti e intensi disegni di Alessandro Coppola, potrebbe sembrare agghiacciante, quasi spettrale; come un po’ sono tutte le favole. Ma poi arriva Bianca, “una bambina dagli occhi color cielo”, che parrebbe non averne mai avuto, di sogni. E lei riuscirà a trovare il modo per spezzare la schiavitù dei giochi, la pericolosità dei piani del Grigio Signore, ricacciandolo da un mondo che esplode di nuovo di colori e luce. In “Bianca e il Rubasogni”, edito da Di Marsico Libri, Alessandro Coppola e Luca Nocella ci fanno respirare una storia emozionante nella sua semplicità e linearità.
Narratore e disegnatore ci fanno tornare ad apprezzare i colori, le forme aeree, le distese senza fine della nostra fantasia che non dovrebbe mai conoscere padroni tranne noi stessi. Ancora più drammatica, perché pare riferirsi alla perdita dei sogni dell’infanzia, che accade in tutti noi quando cresciamo e “diventiamo adulti”, la favola ci potrebbe persino in segnare che tutti noi siamo Bianca, e tutti noi abbiamo dei “giochi” stregati, che ci han fatto perdere la semplicità e l’innocenza dello sguardo, la capacità di far volare la fantasia, la cordialità nell’incontro con gli altri e nell’amore per il prossimo. Ma, coraggiosamente, ce ne mostra anche la cura, ci indica pazientemente come poter resistere, e resistendo vincere. Almeno per questo.

“La rinascita” parte da Aosta e da “Les Mots”.

Les Mots - Festival della Parola in Valle d'AostaAOSTA – “La rinascita”: questa è la parola che, quest’anno, per la quinta edizione, sarà al centro de “Les mots – Festival della Parola in Valle d’Aosta”. Abbandonato l’antico nome di “Babel”, col quale era stata conosciuta negli anni scorsi, la rassegna che ogni anno, tra aprile e maggio, trasforma il centro di Aosta in una grande libreria, prosegue con il suo obiettivo di approfondire una parola in tutte le sue declinazioni e i suoi aspetti.
La parola, “rinascita”, vuol forse essere un augurio, un suggerimento di buon auspicio, un incoraggiamento, in particolare per questa regione che sta vivendo drammaticamente la crisi degli ultimi anni. In più, il 2014 rappresenta per la Valle d’Aosta il 70° anniversario della Resistenza, della Liberazione e della sua Autonomia.
Dal 17 aprile al 4 maggio Piazza Chanoux si trasformerà in una vera e propria agorà, a modello degli antichi greci: uno spazio pubblico in cui poter dialogare, ascoltare, sfogliare, pensare. Il calendario, che ha subito impietoso le sforbiciate dei tagli rispetto a quelli degli anni passati, si mantiene comunque ancora abbastanza denso di appuntamenti.
Spazio agli autori valdostani, e al patois, il dialetto franco-provenzale che è parte integrante della cultura e dell’essenzialità valdostana; spazio al teatro, con il gruppo di Replicante Teatro che “dirà” (recitando) quattro libri da riscoprire: “Il Libro di Giobbe”, “La Fattoria degli animali”, “Il cavaliere inesistente” e “Cuore”. Spazio all’economia, in collaborazione con la Chambre Valdôtaine, e al cibo, due strumenti indispensabile per poter ripensare la “rinascita” sotto vari aspetti.
Spazio, ovviamente, ai libri e ai loro autori che quest’anno saranno, tra gli altri, Antonio Scurati, Giorgio Pressburger, Antonio Manzini, Giuseppe Catozzella con la storia di Samia Yusuf Omar, Andrea Vitali con “Premiata Ditta sorelle Ficcadenti”, Giuseppe Lupo, Sara Tessa, la super-tata Lucia Rizzi, Simona Sparaco con “Nessuno sa di noi”, Cinzia Leone, il fondatore delle guide Lonely Planet Tony Wheeler, Umberto Broccoli, Giusy Versace con “Con la testa e con il cuore si va ovunque”, Sandra Petrignani con la biografia della Duras “Marguerite”, Emanuele Trevi, Luca Scarlini con la storia di Rodolfo Siviero, Mario Giordano, Francesco Degl’Innocenti che racconterà l’italianizzazione dei toponimi valdostani, Cristina De Stefano con l’ennesima biografia su Oriana Fallaci e Pergiorgio Odifreddi.
Il programma è disponibile sul sito della Regione Valle d’Aosta e sull’applicazione gratuita VdACultura, ma voi seguiteci su ChronicaLibri, sul profilo twitter e facebook, per essere sempre aggiornati sugli eventi e sulle presentazioni!

“Sahara. Paesaggio dell’immaginario” in cui perdersi.

Sahara. Paesaggio dell'immaginarioGiulio Gasperini
AOSTA – Il libro di Eamonn Gearon, “Sahara. Paesaggio dell’immaginario”, edito dalla casa editrice Odoya (2014), squaderna e sviscera quella grande piega di mondo che è lo sterminato deserto del Sahara. Luogo magico, protagonista indistinto di tante fiabe e racconti da Mille e una notte, non è sempre stato quell’ammasso poetico di sabbia e dune sempre in movimento che ci appare adesso. Conosciuto alle cronache moderne più per essere terra di migrazioni forzose e di morti ignote, ignorate e dimenticate, e pregiudizievolmente per essere luogo di aridità estrema, in realtà il Sahara ha una lunga lunghissima storia di colonizzazioni e di attività umane, animali, vegetali. Come testimonia, ad esempio, il sito di Wadi al-Hitan, considerato Patrimonio mondiali dell’umanità dell’UNESCO, dove sono stati ritrovati centinaia di fossili della protobalena Basilosaurus (c’era allora il mare, in quel luogo?). Il Sahara fu anche terra verde, umida, ricca d’acqua e di vegetazione.
Ma il Sahara fu ricco anche di uomini, più di adesso, sopravvivendo soltanto alcune tribù di Tuareg. Le incisioni rupestri, scoperte da Heinrich Barth a Wadi Telisaghé, sono testimonianza straordinaria, sorprendente: rappresentano la presa di consapevolezza artistica e comunicativa di un’umanità ai suoi albori e ci testimoniano una forma di cultura dei primordi, ma non per questa meno importante né trascurabile. Tra questi graffiti troviamo anche sbalorditivi esempi di “nuotatori”, risalenti a 5000 anni fa, che aprono prospettive inedite e non ancora ben indagate. E, ancora ricco di uomini, il Sahara è anche un rete di città, di insediamenti che l’uomo continua ostinatamente ad abitare, piegandosi alle esigenza della natura e alle sue condizioni. E non sono solo città-oasi, nate grazie alla presenza di un acqua che emerge dalle sabbie, come Tindouf e Ghardaia.
La storia delle esplorazioni del Sahara è un racconto appassionante che affonda le sue origini nella storia dell’antico Egitto, nella lunga lista di faraoni che si susseguirono sul trono di uno dei più grandi imperi della storia antica. Tanti altri popoli, dai Fenici ai Persiani, dai Greci agli Arabi, dai Romani ai Vandali si confrontarono con questa terra devastante e assolata, con queste lunghe prospettive e intensi viaggi, assumendone il potenziale e trasformandola in terra di commerci e di racconti, di leggende e di indagini, di scambi e di narrazioni più o meno veritiere.
E poi ci furono i geografi e cartografi, a cominciare da al-Idrisi, che nel Sahara si divertirono a indagare e compilare; ci furono gli esploratori come Hugh Clapperton, le esploratrici; e poi gli scrittori, come Bruce Chatwin e Paul Bowles. E tanti altri personaggi, noti e meno noti, che hanno trasformato il Sahara in una terra dalle infinite possibilità, dalle prospettive potenti e inedite. Perché, nonostante gli anni passino e il mondo diventi sempre meno ignoto e inesplorato, come scrisse Plinio il Vecchio, “dall’Africa arriva sempre qualcosa di nuovo”.

“I dannati della metropoli”: migranti tra lecito e illecito.

I dannati della metropoliGiulio Gasperini
AOSTA – La legge sull’immigrazione italiana è una legge che, inevitabilmente, “costringe” i migranti a muoversi dai territori della legalità a quelli opposti dell’illegalità. E l’illegalità può portare con sé, inevitabilmente, l’esigenza di delinquere, anche solo per la semplice sopravvivenza. Sono molti i migranti che decidono di sottomettersi a contemporanee forme di schiavitù e sfruttamento, pur di non intraprendere percorsi criminali, ma ci sono anche coloro che si ribellano, cercando di affrancarsi a queste forme di razzismo istituzionalizzato. Andrea Staid, storico e antropologo, ha pubblicato per Milieu Edizioni, “I dannati della metropoli. Etnografie dei migranti ai confini della legalità” (2014), volume che in un certo senso fa da pendant al precedente “Le nostre braccia”.
In “I dannati della metropoli”, dopo aver ben descritto e motivato la sua metodologia di ricerca, che si basa sull’osservazione partecipante, teorizzata per la prima volta dall’antropologo Malinowski, Staid si pone come obiettivo quello di esaminare e analizzare “i nessi tra strutture generali di potere e forme di soggettività, capire come e perché si sceglie di delinquere e di ribellarsi ai soprusi quotidiani”. E per questo fine, decide di dare voce, direttamente, ai migranti (di ogni provenienza e di ogni destinazione) che si trovano a vivere, concretamente, sulla loro pelle, le difficoltà che comporta non avere o dover continuamente rinnovare un titolo di soggiorno, ma anche a chi cerca di districarsi nelle quotidiane problematicità di un lavoro, di un affitto da pagare, di una famiglia da mantenere. Le interviste non strutturate che Staid ci offre nel testo, come materiale primario da cui trarre poi considerazioni e valutazioni, sono potenti di vita, pulsanti di esigenze e bisogni reali, concreti, crudi. Non ci sono filtri, non ci sono mediazioni. C’è la vita; e basta. Quella alla quale non si pensa mai, perché comporterebbe un’indolente ammissione di colpa, la presa di consapevolezza di una soffocante omertà.
L’analisi della realtà italiana si scompone in cinque percorsi: si parte con la narrazione di storie relative ai viaggi, quelli famosi attraverso il Sahara, ma anche di meno noti e giornalisticamente gettonati; poi si prosegue con il capitolo dolorosissimo sui CIE, i Centri di Identificazione ed Espulsione, e sulle moderne forme di lager istituzionali, di cui la penisola è disseminata; ci si avventura, poi, nell’analisi della realtà carceraria italiana e i motivi dell’alta presenza di stranieri nei penitenziari italiani. L’ultimo capitolo, invece, rappresenta un curioso e stimolante racconto dell’esperienza di Staid all’interno di Bligny 42, un palazzo milanese a lungo ribattezzato “il fortino della droga” ma che è, invece, piuttosto un “condominio mondo”, traboccante di umanità e di storie “migranti”, di quotidianità partecipate. Un meticciato che è ricchezza, potenza, suono e colore. Che consente infinite possibilità di ricerca e offre altrettante potenzialità di risposte per un futuro che sia più conciliante e lungimirante.

Quando la Bellezza è resistenza civile e sociale.

architetture-resistenti-copertinaGiulio Gasperini
AOSTA – Il mantra è quello di Peppino Impastato, giornalista ucciso dalla mafia per il suo lavoro di denuncia e resistenza sociale: “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà”. L’assuefazione alla quale Potere (con la lettera maiuscola, come lo scriverebbe Oriana Fallaci) tenta in tutti i modi di sottomettere le persone, i cittadini, è un nemico inarrestabile, indomabile. Le Edizioni BeccoGiallo, casa editrice con un menu altamente resistente, che ha sdoganato il fumetto come suprema forma letteraria, ci offre la possibilità di rivalutare anche il settore dell’architettura come un modo di opporsi alla marea dell’assuefazione, dotandoci di un’arma in più per combattere il tentativo di farsi incasellare in numeri, statistiche e proiezioni di voto.
“Architetture resistenti. Per una bellezza civile e democratica”, di Tamassociati (ovvero dell’architetto e grafico Raul Pantaleo e della fumettista Marta Gerardi) e dello storico dell’architettura Luca Molinari, ci accompagna in una curiosa e appassionante escursione tra le strutture edificate in Italia con intenzione civili e sociali, con l’intento di dare un messaggio potente, che andasse al di là della semplice funzionalità. Perché la semplice funzionalità non è sufficiente all’uomo, come sosteneva Adriano Olivetti, massimo esempio di imprenditorialità umana (e utopica): “La fabbrica fu quindi concepita alla misura dell’uomo perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza”.
La giornalista Beni Ponti, sfidando la Direzione del giornale per cui scrive, trasforma una serie di articoli sull’architettura in una forma raffinata di protesta. Attraverso la forma più leggera del fumetto, ma dal fortissimo impatto visivo (e planimetrico), ci mostra un’Italia anche periferica (rigorosamente percorsa con auto elettriche, col treno e con la bicicletta portatile) e ci accompagna alla scoperta della Barriera a protezione del Parco archeologico di Selinunte, di Pietro Porcinai; il Museo della Risiera di San Sabba di Romano Boico; lo Stabilimento Olivetti di Pozzuoli progettato da Luigi Cosenza; l’Auditorium costruito da Renzo Piano a L’Aquila appena terremotata; il Museo dedicato all’aereo Itavia esploso a Ustica a Bologna di Christian Boltanski; ai Collegi del Colle, a Urbino, progettati da Giancarlo De Carlo; al Giardino degli incontri nel carcere di Sollicciano, a Firenze, di Giovanni Michelucci.
Queste, e tante altre in Italia, sono tutte opere che si trasformano in una diga, una barriera contro l’abusivismo che serve agli interessi economici di molti ma che contribuisce alla distruzione e al degrado culturale – e pertanto umano – della cittadinanza. E anche un monito, un tentativo di ricordare pezzi di Storia dolorosa e ancora sanguinante, per non far addormentare le nostre coscienze e per farle tornare a pretendere la definizione di “umane”.