Annete Wieviorka: Auschwitz spiegato a mia figlia

9788806176846gMarianna Abbate
ROMA – È giusto spiegare ad un bambino l’orrore del lager? È giusto che un bambino sappia quali siano le infamie di cui l’uomo è capace? Mostrare ad un innocente che le guerre, gli stermini, non sono solo parole lontane legate a una cultura diversa dalla nostra, a un mondo dominato da leggi diverse dalle nostre, ma che le stesse cose succedono da noi che ci vantiamo di essere culla della democrazia?

Annete Wieviorka non ha dubbi. Lei, storico del ‘900, che convive ogni giorno con il tema dello sterminio degli ebrei si prende carico di questa responsabilità. Auschwitz spiegato a mia figlia è stato un caso editoriale, in Italia è pubblicato da Einaudi, a cui molti si sono interessati.

Molti adulti hanno letto per la prima volta di quello che succedeva nella cittadina polacca di Oswiecim, vicino alla vecchia capitale Cracovia e così vicino a Wadowice, dove nacque Giovanni Paolo II. Perché di Auschwitz molto sappiamo e non sappiamo niente.

È giusto chiamarlo campo di concentramento? Che differenza c’è tra Auschwitz e Birkenau? I tatuaggi facevano male? Perché volevano sterminare gli ebrei?

Domande naif alternate a domande concrete, come solo un bambino sa fare. Ma forse in quelle domande semplici si nasconde la verità.

Facevano male i tatuaggi? Sì, erano una ferita inguaribile. Non tanto per quella puntura inflitta con aghi di dubbia provenienza (ah i problemi dei nostri tempi, così igienici), ma per il loro significato. Per quello che quell’ago ti rubava: il tuo nome, la tua identità, il tuo posto nel mondo. Molte famiglie di sopravvissuti o morti ad Auschwitz usano tatuarsi il numero portato dal loro parente internato, per non dimenticare quel dolore.

Perché è sbagliato dire campo di concentramento, campo di lavoro? Questo termine è abbastanza corretto in riferimento ad Auschwitz I, ma non ad Auschwitz II- Birkenau. Il campo di Birkenau era un centro di sterminio. I convogli arrivavano e le persone scendevano in file ordinate. Si spogliavano seguendo l’ingannevole promessa di una doccia, e morivano sotto il venefico effetto del terribile gas Zyklon B. Arrivavano, scendevano e morivano. A volte qualcuno veniva scelto. Fortunato, viveva qualche giorno, qualche mese, prima di morire di fame, di freddo.

Se pensiamo ad Auschwitz, pensiamo ai sopravvissuti. È la cosa più sbagliata che possiamo fare. I sopravvissuti sono un errore, sono uno scherzo del sistema. Non dovevano esserci sopravvissuti ad Auschwitz. Quando le truppe entrarono a liberare il campo, videro ombre di persone, videro quello che gli internati chiamavano musulmani: persone in fin di vita, ridotte a pelle e ossa che vagavano nel campo. Quanti di quelli ancora vivi alla liberazione sono sopravvissuti al loro stato? E quanti sono riusciti a sopportare il peso di quello che hanno vissuto.

 

Si potrebbe pensare che Primo Levi sia un sopravvissuto. Abbiamo tutti letto il suo libro, abbiamo visto le sue foto in tarda età. Eppure Primo Levi è morto in quel campo. E come lui molti di quelli che abbiamo chiamato salvati. Persone che non hanno saputo liberarsi dall’orrore di ciò che hanno vissuto, e che hanno vissuto la vita dopo il campo come fantasmi. Strappati alle proprie case, unici rimasti di famiglie numerose.

 

Spiegate Auschwitz alle vostre figlie, spiegatelo ai vostri figli.

 

“La notte”, il fumo, il freddo e Auschwitz

wiesel2Marianna Abbate

ROMA – “Questo è Auschwitz. Come fate a non sapere cosa succede qui, è il 1944!” Sono queste le parole che accolgono gli uomini frastornati, scesi appena da un vagone per bestiame, dopo un viaggio durato diversi giorni. Dopo un viaggio terrificante, stipati in ottanta, senza acqua e senza aria.

Cosa può esserci di peggio di questo?

Ce lo racconta Elie Wiesel, celebre sopravvissuto del campo di Auschwitz, nel libro forse più conosciuto sulla Shoah: “La notte”, edito da Giuntina.

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Auschwitz, ti racconto da dove vengono quelle foto.

Marianna Abbate
ROMA – 3444, il numero che ha portato impresso nella pelle fino alla morte è stato il suo nome. È sopravvissuto molto più a lungo dei tre mesi previsti per gli internati di Auschwitz, è sopravvissuto ad Auschwitz. Con un numero così basso ne sono rimasti davvero pochi, da contare sulle dita di una mano. Quel numero maledetto che ha raggiunto le centinaia di migliaia.
Li ha visti quasi tutti in faccia quei numeri, Wilhelm Brasse, quel polacco che di tedesco aveva solo il nome. Li ha guardati negli occhi, dapprima nascosto al sicuro del blocco 26, dove si era creato un microcosmo, al sicuro dagli orrori esterni. Ma i muri di Auschwitz sono di vetro, e non importa quanto ti nascondi, non importa quanto forte stringi gli occhi per non guardare: il lager ti entra dentro.

Così il lager è venuto a cercarlo nel suo nascondiglio sicuro, ma non per ucciderlo. Il lager ha chiesto il suo aiuto, la sua anima.

La sua storia la raccontano Luca Crippa e Maurizio Onnis, nel libro edito da Piemme nella collana Voci con il titolo “Il fotografo di Auschwitz”, con un sottotitolo estremamente chiaro: il mondo deve sapere.

È stato fortunato, Brasse, a diventare il fotografo del lager. Fortunato a veder sfilare davanti al suo obbiettivo Zeiss migliaia di facce malconce e centinaia di terribili assassini in divisa.

È stato fortunato anche quando il dottor Clauberg aveva tirato fuori con un forcipe l’utero vivo di decine di giovani ebree addormentate. Quando aveva fotografato quegli uteri sterilizzati in fredde bacinelle metalliche.

Quando Mengele gli ha chiesto di fotografare coppie di gemelli destinati a morire, bambine nude, denutrite e spaventate. Quando ha visto il bellissimo tatuaggio della schiena di un uomo che aveva fotografato, scuoiato e conciato per diventare la copertina di un libro.

Quando dopo la guerra, la donna di cui si era innamorato nel campo non poteva sopportare la sua vista, quando lui stesso non riusciva a tenere il peso della macchina fotografica in mano e nei volti degli avventori del suo nuovo negozio rivedeva quegli occhi, unica parte ancora viva, degli avventori del blocco 26. E se chiudeva gli occhi sentiva di nuovo l’odore nauseabondo delle donne, che nel campo non avevano acqua per lavarsi. Quelle stesse donne che per le botte e per la fame non avevano più il ciclo, sterili già prima che il dottor Clauberg mettesse le sue scientifiche mani su di loro.

Se leggendo queste parole provate disgusto, se vi ho scandalizzato, non mi scusate. Era mia intenzione. Perché so’ che molti di voi non compreranno mai questo libro, e probabilmente questo articolo sarà una delle poche cose che conoscerete di Auschwitz.

Alcuni negheranno persino l’esistenza di un posto così. Ma non basta dire la parola orrore per capire cosa significa: l’orrore ha bisogno di essere esplicitato, per essere capito.

Perché è necessario comprendere che a guidare il tutto era la casualità: non era necessario essere ebrei per morire ad Auschwitz. Poteva accadere a chiunque.

Quindi, caro lettore, non sentirti esentato dal dolore. È un dolore che deve appartenerti, che devi conoscere, fa parte della tua stessa umanità.

“A cuore aperto”: la confessione di un uomo tradito da sé stesso.

Giulio Gasperini
AOSTA – Ci sono delle volte in cui è il tuo stesso corpo a tradirti; come se si ribellasse al tuo volere; come se non avesse nessuna remora, nessun pudore di colpirti a tradimento, quando di situazioni ne hai affrontate di ben più gravi e pericolose. E ti senti forse anche più indifeso, in pericolo. Perché oltre alla vita rimetti in gioco la fedeltà a te stesso. Questo “A cuore aperto”, edito da Bompiani nella collana Grandi PasSaggi, è la storia di un uomo che scopre la paura di morire. E si sorprende. La storia di Elie Wiesel è nota: deportato ad Auschwitz e a Buchenwald, autore dello straordinario “La notte”, premiato con il Nobel per la pace nel 1986. Dopo una vita così, si potrebbe anche pretendere di sentirsi al sicuro, oramai, dai colpi della sorte e dalle coincidenze del caso. E invece no, perché a compromettere la sicurezza e la pace questa volta è una parte del proprio corpo: il cuore cede. Quasi d’improvviso; o comunque in maniera sorprendente. I guai si cercano altrove, in altri organi, e invece è la pompa che non funziona bene e che danneggia tutto il resto.
Sicché il ricovero in ospedale, un’operazione che tutti prospettano con una sicurezza chirurgica ma che si sa quanti rischi comporta (e dalla quale qualcheduno non si è mai più risvegliato), la dolorosa convalescenza sono i pretesti per rimettere tutto in discussione, come se i bilanci non fossero mai definitivi e ci fosse sempre qualcosa su cui riformulare il giudizio e ricalibrare il significato. Elie Wiesel passa così in rassegna tutti gli aspetti della sua vita, tutte le declinazioni del suo impegno, della sua ostilità all’indolenza e all’accidia, con la consapevolezza che “se Auschwitz non ha saputo guarire l’uomo dal razzismo, che cosa potrebbe riuscirci?”: l’insegnamento, che tanto ama e che deve lasciare interrotto; il suo impegno “contro la banalizzazione di Auschwitz”; la rassegna delle sue opere, da “L’oblio” a “Ani Maamin”; il tema della Bufera, chiamata così in montaliana memoria; il rapporto con Dio (“Troverò l’audacia di rimproverarGli il suo incomprensibile silenzio?”); il legame di profondo amore con la moglie e con il figlio che lo assistono indefessi al capezzale.
Elie Wiesel depone l’orgoglio, il pudore virile e affronta quest’ennesima avventura svelando tutte le sue debolezze, i suoi tremori, le sue angosce di avere a che fare con un nemico che lo spaventa, perché non dà certezze; ma soprattutto che disarma proprio perché nemico che proviene dall’interno del sé: “Ritenevo che la morte non mi spaventasse. Non ero vissuto con essa, e anche in essa? Perché temerla adesso?”. Non teme neppure di scadere nel patetico e nello sdolcinato, di virare verso una presunta saggezza strappalacrime. Perché Elie Wiesel è solo un uomo e questa volta deve combattere contro il suo stesso corpo.

“La neve nell’armadio”: spiegare “la vergogna del mondo”

 

Marianna Abbate

ROMA – “La storia/ quella vera/ che nessuno studia/ che oggi ai più da soltanto fastidio”: Sono questi i primi tristi versi della poesia di Nelo Risi che Mottinelli ha scelto per intitolare il suo saggio “La neve nell’armadio” Auschwitz e la “vergogna del mondo” edito da Giuntina.

Vi riporto questi versi perché io stessa ho sperimentato il fastidio delle persone al mio ennesimo ritorno sulla questione dei campi di concentramento: è un’ossessione, mi dicono, sei depressa e ti crogioli nella tragedia. Ci ho riflettuto a lungo su queste parole. Perché sì, è vero che parlo di Auschwitz spesso. Lo riporto alla memoria di chi porta la croce celtica al collo, di chi osa dire che Mussolini era un grand’uomo, di chi difende il fascismo o accusa gli ebrei. Lo ricordo a chi tranquillamente non cambia canale quando in televisione torturano qualcuno, a chi non mostra pietà per le vittime delle tragedie quotidiane.

Questa tragedia abita il mio cuore, è vero. Ma non è un’ossessione: è un obbligo morale.

Mottinelli ci avvicina ad Auschwitz in una direzione nuova: l’analisi della vergogna. Una vergogna innominata che aleggia su tutti gli eventi che riguardano la Shoah. E una vergogna che inspiegabilmente non appartiene ai carnefici ma alle vittime, che ferisce ulteriormente chi già ha subito le peggiori torture del mondo.

L’autore ci spiega come questa vergogna cambi volto nelle diverse rappresentazioni del campo di concentramento. La vergogna quasi completamente assente come parola nel documentario, lungo oltre 9 ore, di Lanzmann Shoah, pronunciata una volta sola: eppure pienamente presente in ogni immagine, nei silenzi e negli occhi di chi racconta la sua testimonianza, incalzato dal meticoloso regista.

La stessa vergogna si può ritrovare nei racconti di testimoni, nei loro scritti. “Provavo vergogna per loro, per come ci avevano ridotte” dice Goti Bauer. Con un semplice transfer la colpa passa dal carnefice alla vittima, secondo lo stesso meccanismo che segna di peccato l’oggetto di una violenza carnale. E’ il torturato stesso a cercare in sé improbabili colpe, per giustificare la terribile pena che ha subito.

La vergogna ha mille volti: quello del Sonderkommando che non ha saputo ribellarsi al terribile compito, quello di chi non ha saputo guardare in faccia l’assassino, di chi non ha alzato la voce quando davanti ai suoi occhi uccidevano un bambino. La vergogna ha il volto di chi è tornato e non lo meritava, insultato in faccia da chi aspettava che tornasse l’altro. Ha il volto di quello che non riesce a guardarsi allo specchio, ripensando agli atroci martiri che ha subito, alle umiliazioni che ha sopportato.

Ha il volto di Primo Levi, che si guardava disgustato della propria bassezza quando supplicava per un tozzo di pane. Quella stessa vergogna che lo portava a chiudere con attenzione i polsini delle camicie per non mostrare quell’orribile tatuaggio. Quel numero che era impresso nelle sue viscere, e che ormai era il suo vero nome.

La vergogna ha un peso. Forse il più insopportabile.

Come spiegare altrimenti i lunghi silenzi dei salvati? La fatica a trovare le parole che potessero spiegare quello che si è vissuto? Come far capire Auschwitz?

Quel campo per molti è diventata l’unica casa possibile, l’unico posto da abitare. Il luogo dove si sentivano compresi.

Fuori da queste mura non c’è un posto da vivere per chi ha “vergogna del mondo”.

 

 

“I bordelli di Himmler”, i segreti del lager.

Marianna Abbate
ROMA – La parola lager è ospite frequente delle mie letture. Campo di lavoro, campo di sterminio, campo di concentramento, sinonimi di un orrore inconcepibile, incomprensibile, inspiegabile e altrettanto reale.

Voglio evitare in ogni modo il falso buonismo delle trasmissioni televisive, la finta compassione dei presentatori. Quello che voglio è seguire il monito di Primo Levi:

Vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa andando per via,

Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli.

Ne sento l’obbligo morale.

Il testo che vi propongo è un saggio di tre giovani storici, che approcciano un argomento alquanto scabroso e per molto tempo occultato: la prostituzione nei campi di concentramento.

I bordelli di Himmler” edito da Mimesis nella collana dal titolo parlante: Passato Prossimo.

Per quale motivo i nazisti hanno nascosto l’esistenza della schiavitù sessuale nei campi? Gli studiosi sostengono che si trattasse di una incongruenza nella teoria di purezza genetica, di un dilemma che riguardava l’incorruttibilità spirituale dei nazisti stessi.

Da una parte, infatti, la prostituzione era vietata in quanto perversione: le prostitute venivano perseguitate e spesso mandate nei campi di concentramento, soprattutto se ree di omosessualità. Dall’altra parte, molti teorici del nazismo sostenevano che la prostituzione fosse un ottimo sfogo per gli uomini, e che dunque fosse un ottimo metodo per prevenire la diffusione della piaga dell’omosessualità maschile- considerata molto più grave dell’omosessualità femminile.

L’istituzione dei bordelli dava al governo una sorta di potere sulle persone che ne usufruivano, creando un sistema di premi che permetteva di ottenere risultati soddisfacenti. L’esistenza dei bordelli per ufficiali nazisti era affiancata dall’esistenza di bordelli per prigionieri, concettualmente molto simili.

Gli studiosi sostengono che parlare di prostituzione sia un errore: la prostituzione prevede un contraccambio in denaro o comunque un guadagno da parte di chi offre la prestazione sessuale. Le prostitute dei bordelli di Himmler non avevano guadagni, non erano libere di scegliere.

Mi è difficile ora illustrarvi le condizioni in cui versavano le donne costrette alle prestazioni sessuali. Mi è impossibile anche solo spiegarvi quali potevano essere le motivazioni che portavano le donne ad accettare passivamente questo ruolo di schiavitù.

I campi di concentramento erano luoghi di morte. Anche le persone sopravvissute alla selezione erano destinate a morire, lentamente, in esperimenti di sfinimento corporale.

Documenti come questo saggio sono necessari per poter formare la nostra opinione politica, la nostra opinione sociale, la nostra persona. Leggere, informarsi, conoscere e ricordare sono nostro obbligo morale. Altrimenti potrà compiersi la maledizione che Primo Levi scrive con mano ferma:

O vi si sfaccia la casa

La malattia vi impedisca,

I vostri nati torcano il viso da voi.

 

 

 


Quando il mondo crolla “Salta, corri, canta!”

Marianna Abbate
ROMA Un campo di concentramento dal nome impronunciabile e maledetto. Capelli, scarpe, valigie e ricordi. Solitudine, terrore, fame. E poi, quando non sai più cosa fartene, la salvezza. La Libertà.

Il ritorno al tuo paese; e magari un figlio.

“Salta, corri e canta!”, il nuovo romanzo di Lizzie Doron per La Giuntina è anche questo. Ne ho letti veramente tanti, di libri sulla vita nei campi di concentramento. Ma veramente pochi sulla vita dopo i campi. Come se tutto quello che c’è da raccontare finisse lì, dietro il filo spinato. Come se quella auspicata libertà, non fosse valida nemmeno a occupare una riga delle memorie di una vita.

Eppure la vita è arrivata. I cancelli si sono aperti e ci sono stati quelli che sono tornati alle proprie tiepide case. Ma quelle case non erano più tiepide, non erano più sicure. Nella notte comparivano davanti agli occhi i capelli biondi delle SS. Ogni grido, ogni rumore improvviso, faceva balzare dal letto. E ogni tanto tornavano i ricordi delle persone amate. Polverizzate.

La vita dopo il campo, non ce la racconta un sopravvissuto. Ce la racconta sua figlia. Una bambina degli anni ’50 a Tel Aviv.

Una bambina col desiderio di giocare, di essere uguale agli altri- di avere un papà; o almeno di avere una storia da raccontare su di lui.

Ma quel papà è stato nel posto innominato, e poi se ne sono perdute le tracce per sempre.

 

L’autrice ci accompagna nel percorso della sua memoria, per rintracciare quei segni, quei segnali impercettibili, che la aiuteranno a comprendere e a scoprire il dolore degli adulti di ieri.

Un viaggio avvolto di mesto mistero, di triste allegria infantile e di rimpianti. Nel sottofondo aleggia ancora quell’aria di terrore che ricompare nelle maledizioni gettate al vento. Con quelle ferite putride nell’animo, che non guariranno mai.

Non ne ho letti molti di libri sulla vita dopo i campi.

Peccato.