“Che storia, la Bari”: racconti popolari di calcio e società.

Che storia, La BariDalila Sansone
AREZZO – Se qualcuno mi avesse chiesto un’opinione sul calcio qualche mese fa, all’inizio di una primavera stentata e piena di incertezze, avrei risposto con la solita frase: ventidue tizi in mutandoni e antiestetici calzettoni che rincorrono una palla; inconcepibile seguirli per 90 minuti! Poi ti devi ricredere e in un bar di semiperiferia lontano, lontano dalla città di cui una squadra porta il nome, scoprire che dentro le scarpe, sotto quegli orribili calzettoni ci sta un sogno, ci stanno le cose in cui credi, che a volte ti ripeti e non avresti mai pensato possibile ritrovare proprio lì. “Che storia, la Bari” (GelsoRosso 2014, a cura di Mirko Cafaro e Cristiano Carriero) è un libricino piccino, rosso vivo che pulsa esattamente come un cuore che batte. 25 racconti di gente comune, tifosi e meno tifosi, gente che LA Bari la conosce da sempre o ci si è imbattuta per caso, o di cui si è accorta dentro le lacrime della persona che ama in un fredda sera d’inverno e di delusioni. Nasce da un’idea di baresi fino al midollo, perché la stagione 2013/2014 non potevi non raccontarla: dal rischio retrocessione all’autofallimento, dagli stadi vuoti ai 50800 nella trasferta ad un soffio dai playoff (si ho imparato persino cosa sono i playoff). La Bari (perché non basta iniziare ad ascoltare on air Radio Puglia ma devi imparare pure che gli aggettivi si usano con cognizione di appartenenza) quest’inverno era un’anonima squadra di serie B, pochissimi fedelissimi ancora sulle gradinate, gli altri, in polemica con la proprietà, invece lo stadio lo avevano abbandonato da tempo; in quelle asettiche giornate di campionato, dagli spalti degli stadi vuoti, sembrava solo una storia stagnante senza futuro. Fino alla resa del “nemico”: la proprietà dichiara fallimento, è il 9 Marzo. La squadra: poco più che ragazzi, soli senza stipendio e prospettive. Bari: una città che si riscopre popolo e si riappropria della sua squadra. E’ un’alchimia che riempie lo stadio e i ragazzi scelgono di mettere il cuore dentro le scarpe, si come Nino che stavolta non avrà nessuna paura di tirare un calcio di rigore…no, loro non hanno paura, loro hanno coraggio e hanno dignità e vincono, vincono, rimontano la classifica. Bari–Cittadella 40.000 spettatori al San Nicola, lo stadio progettato da Renzo Piano con l’erba a chiazze e le coperture fatiscenti, lì giù, si al sud, dove in mezzo al niente se un cuore batte tutto è possibile e se migliaia di cuori battono all’unisono i sogni spiazzano e travolgono la realtà. Mentre i palloni vanno in rete su e giù per l’Italia e gli stadi si colorano di bianco e rosso, due aste fallimentari vanno deserte, sul web impazza l’hastag #compralabari e la Bari rinasce, peccato le sfugga la sfida più importante, senza sconfitte sul campo e la beffa di un punto di penalità. Arriva il momento delle lacrime di tutti e sui volti puliti di giocatori così strani, senza agenti, che giocano passione e segnano per rispetto e gratitudine. Lì in mezzo trovi pure la storia di un bimbo arrivato a Bari, undici mesi, sulla nave dirottata in Albania, in quello che adesso sembra un lontano 1992. Lui adesso indossa un completo biancorosso e dentro quelle scarpe ci mette il cuore perché ai baresi glielo deve.
Ecco questo libro è un nocciolo puro di umanità visto attraverso gli occhi di gente diversa, ascoltato nelle parole di un commentatore radiofonico che ti lascia senza parole perché da tempo pensavi che giornalisti degni di questo nome ormai non ne esistessero più.
Io la mia Bari l’ho vissuta attraverso uno di quei figli del sud che si inventano una vita in giro per il mondo, con la valigia sempre pronta sotto un letto. Ho incrociato la sua strada e quella della sua squadra, io che ho sempre creduto che senza passione e entusiasmo nulla abbia davvero senso ma ho anche fatto l’errore di trascurarla questa verità. Seppure a volte il prezzo da pagare sia la delusione, nella vita come su un campo di calcio, aver vissuto amando, innamorandosi e credendo possibile sfiorare un sogno con impegno e determinazione, resta l’unica strada possibile per sentirsi vivi dentro favole imperfette come questa. Un piccolo regalo di pagine e ricordi ai tifosi e ai ragazzi della Bari e a tutte le persone che hanno un cuore un po’ bianco rosso pronto a giocarsi ancora, sempre, comunque la serie A. Di qualunque campionato.

L’unità di una trilogia spiazzante.

Trilogia della città di K.Dalila Sansone
AREZZO – Non potrei pensare di leggerli separatamente, distinti l’uno dall’altro. I tre titoli che compongono la trilogia di Agota Kristof si oppongono, si sovrappongono, si confondono e costituiscono un’unità piena, alla stregua del meccanismo che unisce due individui gemelli. “Il grande quaderno” (1987) è la storia di un abbandono in tempi di guerra, lontano dalla città di K.: due gemelli, una nonna che non li vuole, una madre che scompare. Il tessuto narrativo è asciutto, al limite dell’aridità, meccanico. La prosa riflette il controllo superiore, inumano delle emozioni, il gioco perfido della loro negazione. Che sia istinto di sopravvivenza, lucida follia o intelligenza superiore, la storia di questi due bambini e il racconto del loro quotidiano evocano tutte le sensazioni possibili, al limite della nausea fisica. Nei romanzi successivi la coppia non esiste più e l’autrice inizia a tessere un gioco sottile, prima resuscitando l’umanità negata dall’aridità di stile e contenuto del primo racconto, ne “La prova” (1988), poi vestendola di abiezione e viltà nella “Terza menzogna” (1998).
Nella seconda parte della trilogia al villaggio resta Lucas, dopo la fuga oltre confine del fratello e soffre, annienta la propria esistenza nell’incolmabilità dell’assenza fino a quando non scopre la capacità di amare e ama. Sostituisce all’esercizio di negazione delle emozioni dell’infanzia, il percorso difficile dell’apertura all’altro, costantemente puntellato di ombre e arretramenti. “La terza menzogna” è un intreccio semionirico, il delirio malato di Lucas il fratello fuggito oltre la frontiera, tornato alla ricerca di Klaus. Un momento. Non era Lucas quello rimasto? No Lucas non è mai esistito, lui non ha mai vissuto nella casa nel bosco da bambino insieme al fratello, i suoi ricordi non coincidono con niente. In quest’ultimo racconto i due fratelli si incontrano. Klaus è un poeta misantropo dedito alla cura di una madre che non si mai perdonata la perdita dell’altro figlio, e usa uno pseudonimo per scrivere: Lucas. La storia dei gemelli è completamente stravolta, chi è rimasto nega all’altro il recupero della propria identità, della metà perduta e non esiste più verità, dissolta per sempre dal potere della mente, dalla deformazione dei ricordi, dalla negazione del dolore, dall’assenza di sentimenti che sortisce lo stesso effetto del loro rifiuto, voluto o subito.
Tre romanzi, tre aggettivi: atroce il primo, umano il secondo, l’ultimo privo di senso. La trilogia: spiazzante.

Una promessa.

Un uomoDalila Sansone
AREZZO – Come si scrive una storia d’amore? Si può veramente scrivere? Si può distinguere dentro l’amore e capirlo, interpretarlo, tradurlo in carta stampata? La verità è che fuori dagli stereotipi il tema sfugge, si espande, dilania, perde i connotati mielosi e diventa realtà. Ecco, “Un Uomo” (Rizzoli, 1979) può essere anche questo! Nell’essere una lettura maledettamente stratificata di sensi, può parlare soprattutto o anche di questo. Di sicuro non può prescindergli. Ma bisogna fare attenzione perché Oriana Fallaci consegna al mondo un pezzo della sua vita privata, i tre anni di legame con Alekos Panagulis, e non lo fa per una sorta di narcisismo letterario autobiografico. Lo fa per amore dell’amore di lui, amore per la libertà, per la coerenza. La coerenza delle estreme conseguenze che distrugge l’esistenza, la propria e spesso di quelli che scelgono di camminarti affianco. Lo scriverai quando sarò morto, PROMETTIMELO. “Un uomo” ha la stessa valenza degli anelli scambiati festosamente e privatamente un giorno qualunque e riscambiati, in un freddo obitorio, nel retroscena di una giornata campale, quanto ipocrita. Era il 5 Maggio del 1976, ad Atene il popolo si stringe intorno alla bara di vetro del suo eroe dimenticato, urlando “la grande menzogna”: zi, zi, zi (vive, vive, vive). E’ l’incipit, potente e tetro, secco come la pressione sul tasto d’avvio di una telecamera che riprende tutto dall’alto e ti proietta lì in mezzo, lì dentro, col bisogno di capire, di sapere. Poi il racconto, chi era quell’uomo, le ragioni di raccontarne la storia, la consapevolezza di essere stata lo strumento di quel destino, fino all’amaro presentimento che in qualche modo l’amore, il legame, non siano stati altro che il compiersi di un disegno per arrivare a quelle righe, per strappare all’oblio la storia di uno, perché rimanga traccia di quella dei tanti, di cui nessuno ha scritto. I testi della storiografia ufficiale non avranno mai lo stesso potere e l’autrice, dall’alto del suo mestiere, del suo essersi mescolata alle troppe sfaccettature della realtà, lo sapeva fin troppo bene.
Di questo libro non è solo il valore di testimonianza a decretarne il peso, quanto la percezione di come, seppur nell’eccezionalità delle circostanze e dei personaggi, i sentimenti privati rappresentino un collante di schegge impazzite di vita, con le quali è impossibile identificarsi ma che si nutrono di quello stesso substrato, comune invece. E’ difficile descrivere una personalità storica/politica come un’ entità in carne ed ossa, ideali e apparenti contraddizioni, e farla stare dentro l’appellativo di Uomo proprio per questo. La retorica è vizio facile a contrarre, soprattutto quando non si è neutrali. A renderlo possibile è l’aver imparato a leggere la natura umana e poi scoperto di aver amato, seppur inconsapevolmente, nell’unico modo possibile: senza condizioni! La più potente delle armi di cui si dispone per essere assolutamente coerenti con sé stessi, con le proprie idee, i propri sentimenti, la propria scelta di vita e che rende Uomini in mezzo a tanta disumanità o umanità diluita e inconsistente.
Questo libro, tra le definizioni possibili, più che “romanzo” d’amore appare un atto d’amore per un solo uomo e in maniera indissolubile da lui, per una certa idea di essere uomini. Che esiste, può esistere, perché è sempre esistita, nell’ombra e troppo spesso vilipesa.

Oriana Fallaci intervista la storia.

Intervista con la storiaDalila Sansone
AREZZO – Lei, l’autrice Oriana Fallaci, lo definiva un testo al limite tra la storia e il giornalismo e nella prefazione (che vale la lettura) avvisa il lettore: non farsi sfuggire la realtà dei fatti, sottrarsi all’equivoco del conflitto ideologico tra potere e anti-potere. Lo scontro è tra uomini, che scelgono l’una o l’altra parte. Uomini, soltanto questo.
Quello che lei tace è quanto diversa possa essere l’accezione della parola UOMO, ne esclude la definizione e lascia che siano le parole degli intervistati a stratificarne il senso, tranne in chiusura quando a uno di loro lo domanda : Alekos, cosa significa essere un uomo?
Intervista con la storia (Rizzoli, 1974) è una raccolta di diciotto interviste a personaggi di potere (in prevalenza) e di ferma opposizione alle prevaricazioni, raccolte tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70. Interviste che sbalordiscono per efficacia, capacità di sintesi, spaziatura geografica e ideologico-culturale. La lettura dispiega il personaggio storico, privato, umano o inumano, condensandolo in una successione stringente di domande e risposte, mai superflue o retoriche le prime, maledettamente rivelatrici pur nella menzogna le seconde. La Fallaci fa precedere ogni intervista da un breve ritratto del personaggio, in cui descrive le circostanze dell’intervista, l’impatto della pubblicazione e in cui non rinuncia a fornire l’impressione sulla donna e non sulla giornalista. Nell’epoca di una comunicazione troppo immediata e poco filtrata, le pagine scorrono e gravano di un fardello etico e intellettuale, quasi sacro, il trittico intervistatrice – intervistato – lettore. Soprattutto il lettore. Egli non può esimersi dall’esercizio critico e dal formulare un proprio giudizio. Intervista con la storia, era un libro a cavallo tra storia e giornalismo, è invece adesso un testo la cui attualità sta nella testimonianza, intanto, di una “storia che si scrive nel suo divenire e di cui si è testimoni” e soprattutto di un’etica del giornalismo e della verità, finite sempre più diluite dagli slogan, dalle notizie ad effetto e dalle illusorie forme di accesso all’informazione. La chiave di volta nell’interpretare il destino degli uomini rimane, in qualunque circostanza, l’analisi chirurgica dei fatti e la loro lettura alla luce dell’indole umana, quella dei potenti e dei popoli, quella intrisa di rassegnazione o di riscatto. E’ necessario che per poterli leggere i fatti, qualcuno si assuma il compito di cercali e metterne insieme tutte le parti, evitando omissioni o facili soluzioni, ripudiando la retorica e odiose ipocrisie.
Per chi, come chi scrive, non era ancora nato quando Oriana Fallaci girava il mondo per ottenere qualche ora di tempo dai protagonisti delle sue interviste e finire sulle liste nere di molti , la lettura di questo libro è un riassunto di passaggi epocali della storia recente, restituiti con l’immediatezza di un’istantanea a due facce, quella di chi osserva e quella di chi determina.
Il continuum che procede dalla fredda figura di un Kissinger decisore delle sorti del mondo e dalla voce incapace di modificare la posizione dell’ago del magnetofono, alla passione libertaria e solitaria di Alekos Panagulis, è una successione di umanità che in comune ha solo una indeterminata complessità, un impasto di destino o occasione e di individualità, che si chiude con la citazione di una poesia. Con la definizione di UOMO sintetizzata in quella poesia. L’intero volume a questo punto è retrospettiva: alla scala di valori di ciascuno trovare la propria visione delle responsabilità dei singoli, individuali e collettive, giacché il confine è estremamente labile.

“Paula”, un modo per dirsi addio.

paulaDalila Sansone
AREZZO – Ci sono molti modi di dire addio. E molti modi per riuscire a pronunciare la parola addio, accettarla. “Paula” (1994) è il difficilissimo percorso del più complicato degli addii: quello di una madre alla figlia. E’ la prova più impegnativa di Isabel Allende, già scrittrice di successo e testimone di avvenimenti enormi, capaci di schiacciare la vita di uomo. Invece non è vero, a tutto si sopravvive, abbandoni, povertà, colpi di stato, atrocità ma solo di fronte alla perdita imminente tutto vacilla e perde di senso. Nasce come àncora nel corridoio dei passi perduti, l’anticamera della terapia intensiva di un ospedale di Madrid, questo libro. Una lettera per Paula perché al risveglio dal coma improvviso, causato da una malattia rarissima, recuperi spigoli, angoli e lunghe curve dei momenti di vita assente e trascorsa. Lentamente la lettera diventa racconto, secondo una tradizione consolidata delle donne di famiglia, quella di raccontarsi l’una all’altra da lontano, attraverso lettere da conservare gelosamente. Il bisogno di scrivere per non andare alla deriva, l’ansia di comunicare con la figlia vicina eppure distante, si intrecciano e si trasformano in una sorta di memorie della vita e dei romanzi di Isabel, intrecciate alle sorti di un Paese lontano, il Cile, e di un continente devastato dal passo imperante del lato truce della storia, quella dalla “S” maiuscola.
Paula non si risveglierà da quel lungo sonno. Sua madre riesce a maturare l’addio cercando nella scrittura la forza necessaria a separarsi da lei. Al bisogno fisico di combattere al posto di Paula per non cedere alla rassegnazione, subentra, col passo lento del dolore che matura, la consapevolezza della direzione di questo percorso. Dall’ospedale di Madrid, senza accenni di cambiamento del suo stato, Paula torna a casa, il luogo degli affetti privati, dall’altra parte dell’oceano. Resta sospesa nella stessa stanza dove con la stessa partecipazione e lo stesso amore con cui aveva preso parte alla nascita della nipote, Isabel lascerà andare via poi sua figlia.
Quando la tragedia, qualunque essa sia, assume la connotazione della dimensione personale e privata, induce sempre una misteriosa empatia, anche quando i particolari non trovano nessuna rispondenza nelle vite di chi osserva o chi legge. Quella parentesi di esistenza ha i tratti di una figura completamente nuda e fragile, in cui i difetti e debolezze dominano incontrastate e dove la linearità scompare fagocitata dal disordine interiore. Il mondo, umano e magico nelle stesso tempo, della narrativa della Allende rivive di nomi e accadimenti di vita vissuta e proprio questa commistione di umano e magico si scopre lo strumento, personalissimo, attraverso cui accettare l’addio. E’ una religione laica quella di Isabel, costruita sulla passione per la vita e il bisogno di lasciarsi travolgere dalle emozioni fino a vivere attraverso di esse, negando la possibilità che si possa, al contrario, vivere dominandole. Una religione ”umana” che riconosce il potere sovrannaturale dei legami, e di quelle circostanze inspiegabili, quasi magiche, che spesso accadono e che bisogna solo essere capaci di vedere. Non serve a nessuno dimostrare che si tratti di pura suggestione. Non ha alcuna importanza, in nome del diritto di ciascuno a trovare il proprio unico modo di scandire la più definitiva delle parole. L’accettazione interiore diventa liberazione dal volto angosciante del dolore: rimane il vuoto, col quale solo l’amore provato e ricambiato consente di convivere. Ed è proprio allora che anche Paula si arrende, lasciando questa verità in eredità a colei che, dandole la vita, per prima l’aveva iniziata al potere assoluto dell’amore.

L’alta letteratura del “Viaggio al termine della notte”

viaggio al termine della notteDalila Sansone
AREZZO – L’ossessione è il tema ricorrente, un’ombra pesante nascosta nelle pieghe del racconto. Louis-Ferdinand Céline è spietato. È lui in prima persona ad esserlo, lo sono i suoi personaggi, i luoghi, il clima, la storia. Perché l’ossessione? Perché non può esserci altra spiegazione al tormento di Bardamu, al suo incessante non fermarsi mai, non fermare mai la discesa negli inferi del cinismo, nella bassezza dell’umano. Non è facile Céline, non lo è affatto! Tralasciando gli aspetti propriamente letterari o linguistici, “Viaggio al termine della notte” (1932) è oggettivamente perfetto nell’essere quello che è e, allo stesso tempo, il suo contrario. Apparentemente non c’è un briciolo di sentimento eppure proprio la negazione dell’umano è prepotente nell’affermare il suo opposto, accennato nei lineamenti appena abbozzati di personaggi che hanno provato ad esserlo, umani, ma che sono finiti poi annegati nelle circostanze o sono stati abbandonati alle loro vite, vite che non potevano scivolare troppo a lungo accanto a quella di un giovane irrequieto, dapprima ingenuamente teso verso ideali sconosciuti (è il caso di dirlo) e poi alla continua deriva. Sarebbe riduttivo vivisezionare con intenti psicologici il lungo percorso dall’arruolamento impulsivo nell’imperversare della prima guerra mondiale, attraverso la diserzione/malattia, la fuga in Africa, lo sbarco in America, fino alla carriera di medico di periferia. Sta tutta lì dentro, in quel coacervo di (semi)vita, l’ossessione: ossessione per l’abiezione, la propria e di riflesso di tutto il resto. E’ vibrante il senso continuo di disagio per una condizione talmente naturale da apparire inevitabile quanto asfissiante. Se si sta annegando o perdendo completamente in qualcosa, l’unica necessità avvertibile è l’ossigeno che manca, la direzione che si è persa, eppure la volontà si scopre troppo debole per cercare sia l’uno che l’altra. Si sfinisce in una sorta di accidia latente, fisicamente ingombrante, quasi fosse un personaggio in carne ed ossa. In una spirale perversa ciò crea disgusto e spinge sempre indietro. Così l’alter ego di Céline non può che andare fino in fondo, al termine dell’oscurità e scoprire che non gli è rimasto niente del senso comune dell’essere uomo; scoprire di averlo sempre saputo che uomo non lo era mai veramente stato.
È una realtà tetra, gelata dal vuoto di umanità, offuscata dalla nebbia, dominata da scorci di vie notturne, quella che si materializza tra le righe. Lo sfondo perfetto, lo stesso con tratti diversi ma ovunque sistematicamente uguale. Nessuna distrazione, lo sguardo non si alza mai oltre il confine dei muri, lo scorrere delle strade e sulle strade e non c’è niente e nessuno in grado di salvarlo, semplicemente perché la salvezza non esiste. Solo la notte dell’anima esiste, da percorrere fino in fondo, ancora più in fondo di quanto si possa credere.
Che si ami o si disprezzi questo libro ha una classificazione inequivocabile: letteratura. Alta.

“Fai bei sogni”, un attimo prima di chiudere gli occhi

Fai bei sogniDalila Sansone
AREZZO – Leggiamo di tutto e in quello che leggiamo riflettiamo ciò che siamo, o ci proviamo. Può darsi che ci si costruisca nella lettura o che invece sia lei a costruire qualcosa si noi. Io credo che al di là dell’identità più o meno forte della pila di libri sul comodino o dei volumi sparsi in un qualche angolo di casa, esistano libri per tutti, meglio libri di tutti. “Fai bei sogni” di Massimo Gramellini (Longanesi, 2012) è uno di quei libri di tutti, perché tutti siamo andati a letto almeno una volta, sempre o quasi, da bambini muovendo i passi dietro la frase ”sogni doro” o “dolci sogni”, accompagnati dal gesto di qualcuno che ci ha amati. O avremmo voluto farlo.
Gramellini mantiene il suo stile, asciutto, ironico soprattutto dove è il cuore che fa male più che la logica a fare difetto. La storia è la sua, personale e privata, la perdita della madre della cui assenza è stata intrisa tutta una esistenza di alibi e fughe da sé stesso, per compensare un vuoto incolmabile e non accettare mai la responsabilità delle proprie paure. Il racconto di una mezza verità che alla fine dei fatti è stato l’atto di amore più grande, che come nella migliore tradizione dell’amore, quello vero, non ha bisogno di farsi conoscere ed è lì, sostiene nell’ombra e sopporta di non essere riconosciuto: non è questo quello che conta!
È dolce, molto dolce, la voce del bambino che compare tra le righe scritte dall’adulto, che tra una manciata di frasi e un inciso, lascia sia quell’altro che era lui a dettare il ritmo…quello delle emozioni e del senso, che non c’era pur essendoci sempre stato.
A questo libro, che si legge d’un fiato e assorbe poche ore dello scorrere della vita di un lettore qualunque, va riconosciuto il merito di parlare a una qualche emozione propria, che può essere stata simile o diametralmente opposta eppure ricordarla, perché nella semplicità e nella profonda complessità di un’esistenza c’è, esiste e dirompe qualcosa di assolutamente universale. Qualcuno la definirà empatia, io preferisco non darle nomi e identificarla con quanto riesce a sciogliersi dentro, quando gli occhi si fermano su una frase, ci ritornano e la sua eco in qualche modo rimane. E se un autore ci riesce, in fondo, è come ci avesse regalato tutto il carico di promesse che si apre nel cuore a sentirsi dire: “fai bei sogni”, un attimo prima di chiudere gli occhi e ritornare a noi stessi. Indefinibile.

“Grazie per il fuoco”: la distruzione e l’inizio

grazie per il fuocoDalila Sansone
AREZZO – Da qualche parte ho letto che la tensione di “Grazie per il fuoco” si muove tra il prologo e l’epilogo, qualcosa di simile all’andamento di una funzione tra due punti di massimo insomma. A me piace vederlo come un arco voltaico, una scarica tra due poli opposti. Mario Benedetti lo pubblica nel 1965 ma in Italia arriva solo nel 1972 (Il Saggiatore), poi scompare e torna nel 2011 con le edizioni laNuovafrontiera dietro quel fiammifero spento, ancora fumante, sulla copertina di cartoncino ruvido. Ruvido.
Il tatto… c’è qualcosa di assolutamente sensoriale in questo libro dove la narrazione in senso proprio manca e i fatti prendono corpo e si fanno spazio nel fluire continuo, incessante di pensieri sparsi.
Di temi ne affiorano tanti tra il convenzionale e il meno convenzionale ma non sono il potente conflitto generazionale, ideologico, o lo sfondo che attanagliano la mente e catturano ipnoticamente l’attenzione. No, è il flusso di pensieri incastonato in una informe decadenza allo stesso tempo sociale, morale, individuale.
Un padre e un figlio, distanti, allontanati da un disprezzo che ha smesso di avere cause. Il bisogno di liberarsi da entrambi le parti, anche esso senza ragioni precise, se non quella del raggiungimento di una condizione diversa dall’adesso. Una costruzione narrativa perfetta nel mettere davanti al lettore l’evidenza: l’unicità di interpretazione non esiste, i sensi ci limitano e la mente si chiude su una o poche idee rendendoci incapaci di cogliere sfumature che non sappiamo vedere, perché non pensiamo nemmeno di farlo. Per questo compaiono voci fuori campo ed il pensiero continuo del protagonista si intervalla a attimi della mente di altri personaggi, donne. Tutte donne quelle che ascoltano riflessioni e amarezze mai espresse fuori da una alcova diventata metafora di una auto reclusione inconsapevole dalla vita, o che costruiscono pensieri inconfessabili persino a sé stesse. Sono questi punti di vista alieni che piombano a interrompere il crescendo dell’azione, obbligando il lettore a osservarla neutralizzando ogni giudizio.
Poi la pelle. Compare nei ricordi, nell’adesso, la pelle. Quella membrana assente alla percezione mentale eppure filtro della percezione reale. I sensi assorbono la mente, la attraversano, la incanalano, la distraggono e poi è li che si risolve tutto: in qualche modo l’essere pensante annegato in sé stesso si allontana dall’essere vivente, fino al richiamo dei sensi. E’ un richiamo materiale (un rumore, un colore) o mentale (un ricordo), troppo a lungo intermittenti o deboli per essere un qualcosa di duraturo nella vita di un uomo… fino a che divampa il fuoco, perché qualcuno ha saputo accenderlo, perché qualcuno bruciando dello stesso combustibile ha permesso che la distruzione si trasformasse in un vero inizio. Tanti singoli inizi.

Le favole e poi l’ultimo viaggio di Antoine de Saint-Exupéry

Dalila Sansone
AREZZO – “Ma se mi va di dimenticare il suo dimenticare e di inventarmi un sogno?”. Già, se a volte volessimo dimenticare e immaginare una realtà diversa? Non per illusione, solo per smettere di non credere più e non correre il rischio di pensare che di qualcosa non sia valsa la pena? Vale sempre la pena, anche solo per inventarsi un sogno.
Non mi sono mai chiesta che fine avesse fatto il Piccolo Principe, se se ne fosse tornato dalla sua rosa o fosse invece rimasto, per sempre bambino, a stupirsi delle illogicità di presunti adulti. Faccio l’errore di molti e lascio i “personaggi” tra la lettera maiuscola della prima pagina e il punto dell’ultima, nel loro eterno presente senza trascorsi e destini con cui riempire pagine non scritte.
Antoine de Saint-Exupéry quel suo Piccolo Principe se lo portava dietro, ché in fondo era un po’ lui, era la parte invisibile di lui; così, quando prima di partire per l’ultima missione (Algeri 1943), la incontra in Algeria, su di un treno un giorno qualunque e agli schizzi di un piccolo principe biondo che lascia raccontare, parlare, chiedere, spesso non capire. Le “Lettere a una sconosciuta” (Bompiani, 2009) sono una bella raccolta degli ultimi fogli sparsi dell’autore del libro più venduto al mondo, acquerelli e righe scarabocchiate. Sulle pagine scorrono qualche frase o lettere per una donna, sposata, algerina che smette di rispondere al telefono e non avvisa se decide di non presentarsi ad un appuntamento. Non c’è nessun filo che collega il bambino che sulla carta parla per l’uomo al libro che li ha resi entrambi liberi dallo scorrere del tempo e dalla dimensione materiale dell’esistenza. Si, perché tra quei pochi pezzi di carta, invece, ci sono proprio il tempo e l’essere esistiti, lì in quel momento. Ci sono emozioni semplici che parlano delle illusioni, di quando le illusioni pretendono che si guardi alla realtà con la logica dei fatti e delle conseguenze.
“Le favole sono fatte così. Una mattina ti svegli e dici: ‘Era solo una favola…’. Sorridi di te. Ma nel profondo non sorridi affatto. Sai bene che le favole sono l’unica realtà della vita.” Sentire riesce quasi sempre a vivere la disillusione e a trovarci dentro la ragione profonda del sentimento, che è fatto di una natura diversa dalla logica; sopravvive a sé stesso come sensazione ed è quella la realtà: la sensazione che non si spiega, non si descrive, capace com’è solo di restare. A volte il piccolo principe continua a non capire, arriva persino a rinunciare, a farlo credendo che sia inutile, distraendosi di amarezza. Ma poi succede anche a lui di rendersi conto che l’essenziale non è invisibile agli occhi, l’essenziale è semplicemente parte di te. Esiste. È inutile credere che si possa restare per sempre bambini, illudersi che l’ingenuità di cui si nutre l’immediatezza delle emozioni sia duratura… però è così stupidamente adulto non custodirne gelosamente la tenerezza!

“Una vita sottile”: convivere con le ombre.

Dalila Sansone
AREZZO – Alcuni abissi sono insondabili, non possono essere presi e incasellati in una qualche categoria. Perché capita, in quei casi che non sono fatti ma vite incrociate, di accorgersi che le categorie siano insufficienti e comportino un prezzo troppo alto da pagare: dimenticarsi ciò che cercano di definire. L’anoressia è una nebulosa oscura senza astri che la trapuntano, nessuna fonte di luce, solo il’ripiegarsi su se stesse di infinite sfumature di nero, dove nero non è colore, nero è il condensarsi di tutto in niente. Chiara Gamberale scrive “La vita sottile” (Marsilio Editore, 1999) un passo oltre il bordo insidioso di quella nebulosa e l’incertezza del movimento si avverte tutta tra le righe.
La vita sottile è diario e racconto, una raccolta di pensieri e frammenti di vita vissuta a metà strada tra lo scritto privato e il testo da condividere. Non è un libro sulla malattia ma neppure il tentativo di ricostruire o definire cosa essa sia stata nel percorso personale dell’autrice. Anche il racconto si veste bene dentro quell’aggettivo “sottile”: tocca, arriva a dire e lasciare intravedere una dimensione che è stata singola e singolare. Chiara racconta un modo di sentire la vita, una percezione di sé in qualche misura fuori dalla propria storia: il corpo, la fisicità come una cassa di risonanza delle emozioni, capace di un’amplificazione assordante, talmente assordante da risultare insopportabile. È questa la ragione che spinge a scegliere una vita sottile che “scivola nei jeans e ti permette di non sentire addosso la loro tela ruvida […] scivola nel mondo e ti permette di non sentire addosso la sua imperfezione”. Il titolo cattura con l’immediatezza di un’istantanea questo dualismo tra la dimensione materiale e l’espressione reale di sé: ridurre alle estreme conseguenze la prima per rendere trasparente l’altra. È un libro che si muove su uno sfondo triste ma che non riesce ad esserlo, di una semplicità disarmante che rende il dolore ombra strappandolo alla malattia. Dalle ombre non è possibile distaccarsi completamente, perché se è vero che la proiezione sul muro cambia in base alle condizioni di illuminazione, ci si può anche giocare avvicinandosi o allontanandosi.
L’anoressia deforma e trasforma ma si riduce a una lotta impari tra il proprio senso di inadeguatezza e il bisogno disperato di vita e nel libro c’è soprattutto vita, nonostante lei, nonostante le sue ombra. L’ultima parola del libro è chiusa tra due punti: una soltanto, come una parentesi con i puntini di sospensione; se ne sta lì a separare un prima da un dopo che non importa conoscere ma che esiste. Le parole quando usate per “significare” bastano senza doverne usare altre per spiegare: Bentornata.