Quelle società primitive così distanti da noi.

I senza StatoGiulio Gasperini
AOSTA – È un saggio breve, quello che l’antropologo Andrea Staid ha appena pubblicato con Bébert Edizioni, ma è ugualmente illuminante dei rapporti tra potere, economia e debito nelle società primitive, in un indiretto confronto con le nostre attuali. “I senza Stato” è uno scritto chiaro e lineare, che attraverso queste qualità permette a tutti di entrare in contatto con una realtà altrimenti sconosciuta, ma altamente originale ed essenziale per stabilire dei paragoni con la società attuale e per valutarla al meglio.
La contemporaneità si trova in un evidente periodo di profonda crisi del suo spazio politico-istituzionale ed economico; conseguentemente, nascono movimenti dal basso, che contestano le scelte istituzionali, anche attraverso rivolte, e che vogliono porsi e definirsi come valida alternativa. La questione essenziale è quella del “potere” che, come Staid sottolinea, è “il nodo centrale nella gestione dello spazio politico” perché il potere “si definisce in termini relazionali” (e pertanto non sradicabile); in particolare, Staid si sofferma su due tipi di potere, completamente diversi: quello coercitivo (ovvero dominio, in termini di comando-obbedienza, spesso basato sulla violenza) e quello non coercitivo, con una distribuzione aperta a tutta la comunità. Con la definizione di “società primitiva” Staid si riferisce a società di potere diffuso, senza dominio; sono società, come quella Inuit, dove ad esempio esiste un diverso concetto di dono (e, conseguentemente, di debito): nelle nostre società il debito “è divenuto asservimento” (basti pensare alla questione del debito nelle politiche post coloniali), per gli Inuit (ma non solo) il dare significa che un domani avrò diritti di ricevere, in una sorta di civica “cultura del dono”: “Nella vita del primitivo è prassi regolare, ‘dare via’, e questo vale per ogni bene”.
Con una bibliografia estremamente ricca, puntuale e aggiornata, Staid fa entrare nel complesso meccanismo antropologico ma anche economico dell’indebitamento ma anche del lavoro; compito che noi viviamo come “obbligo”, come “fatica”, come produzione smodata ma che altre società, come i Tikopia o gli abitanti Kapauku, vivono come un “piacere”, basando la loro cultura sul “produrre il minimo necessario a soddisfare tutti i bisogni: tipologia, insomma, ostile alla formazione di surplus”, e pertanto mai destinata alla stagnazione economica.
Il testo, accompagnato dalle illustrazioni, essenziali ma dense di sensi, di Giulia Pellegrini, è uno strumento agile e immediato per avvicinarsi ai temi proposti, con uno stile essenziale e genuino. In particolare, è un percorso utile a comprendere determinati meccanismi nei quali la società è immersa e che paiono effettivamente naturali ma che, in realtà, non lo sono per nulla: “Il dominio è una specifica costruzione culturale e che la natura umana come concetto è un grosso sbaglio”.