“La notte”, il fumo, il freddo e Auschwitz

wiesel2Marianna Abbate

ROMA – “Questo è Auschwitz. Come fate a non sapere cosa succede qui, è il 1944!” Sono queste le parole che accolgono gli uomini frastornati, scesi appena da un vagone per bestiame, dopo un viaggio durato diversi giorni. Dopo un viaggio terrificante, stipati in ottanta, senza acqua e senza aria.

Cosa può esserci di peggio di questo?

Ce lo racconta Elie Wiesel, celebre sopravvissuto del campo di Auschwitz, nel libro forse più conosciuto sulla Shoah: “La notte”, edito da Giuntina.

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“A cuore aperto”: la confessione di un uomo tradito da sé stesso.

Giulio Gasperini
AOSTA – Ci sono delle volte in cui è il tuo stesso corpo a tradirti; come se si ribellasse al tuo volere; come se non avesse nessuna remora, nessun pudore di colpirti a tradimento, quando di situazioni ne hai affrontate di ben più gravi e pericolose. E ti senti forse anche più indifeso, in pericolo. Perché oltre alla vita rimetti in gioco la fedeltà a te stesso. Questo “A cuore aperto”, edito da Bompiani nella collana Grandi PasSaggi, è la storia di un uomo che scopre la paura di morire. E si sorprende. La storia di Elie Wiesel è nota: deportato ad Auschwitz e a Buchenwald, autore dello straordinario “La notte”, premiato con il Nobel per la pace nel 1986. Dopo una vita così, si potrebbe anche pretendere di sentirsi al sicuro, oramai, dai colpi della sorte e dalle coincidenze del caso. E invece no, perché a compromettere la sicurezza e la pace questa volta è una parte del proprio corpo: il cuore cede. Quasi d’improvviso; o comunque in maniera sorprendente. I guai si cercano altrove, in altri organi, e invece è la pompa che non funziona bene e che danneggia tutto il resto.
Sicché il ricovero in ospedale, un’operazione che tutti prospettano con una sicurezza chirurgica ma che si sa quanti rischi comporta (e dalla quale qualcheduno non si è mai più risvegliato), la dolorosa convalescenza sono i pretesti per rimettere tutto in discussione, come se i bilanci non fossero mai definitivi e ci fosse sempre qualcosa su cui riformulare il giudizio e ricalibrare il significato. Elie Wiesel passa così in rassegna tutti gli aspetti della sua vita, tutte le declinazioni del suo impegno, della sua ostilità all’indolenza e all’accidia, con la consapevolezza che “se Auschwitz non ha saputo guarire l’uomo dal razzismo, che cosa potrebbe riuscirci?”: l’insegnamento, che tanto ama e che deve lasciare interrotto; il suo impegno “contro la banalizzazione di Auschwitz”; la rassegna delle sue opere, da “L’oblio” a “Ani Maamin”; il tema della Bufera, chiamata così in montaliana memoria; il rapporto con Dio (“Troverò l’audacia di rimproverarGli il suo incomprensibile silenzio?”); il legame di profondo amore con la moglie e con il figlio che lo assistono indefessi al capezzale.
Elie Wiesel depone l’orgoglio, il pudore virile e affronta quest’ennesima avventura svelando tutte le sue debolezze, i suoi tremori, le sue angosce di avere a che fare con un nemico che lo spaventa, perché non dà certezze; ma soprattutto che disarma proprio perché nemico che proviene dall’interno del sé: “Ritenevo che la morte non mi spaventasse. Non ero vissuto con essa, e anche in essa? Perché temerla adesso?”. Non teme neppure di scadere nel patetico e nello sdolcinato, di virare verso una presunta saggezza strappalacrime. Perché Elie Wiesel è solo un uomo e questa volta deve combattere contro il suo stesso corpo.