La “Spedizione notturna nella mia stanza” e le possibilità del viaggio.

Giulio Gasperini
ROMA –
Difficile è credere che i migliori viaggi si facciano soltanto con la fantasia, senza spostarsi dalla propria stanza e senza mettersi in viaggio, senza sporcarsi di polvere i sandali. Difficile è concepire il cammino senza la prospettiva di un fisico sentiero, di uno spostamento da qui a lì, da qua a là. François-Xavier de Maistre, scrittore sabaudo dall’avventurosa vita, pare contraddire codesta affermazione, con due viaggi compiuti nella sua stanza, delimitata da quattro pareti, un soffitto e un pavimento ma che, di fronte ai suoi occhi e alla sua mente fantasiosa, si espande e si scontorna, abbattendo gli a-priori di ogni uomini e plasmandosi non-luogo fisico. La “Spedizione notturna nella mia stanza”, di cui esiste un’edizione del 1832, pubblicata da Annesio Nobili, stampatore di Pesaro, tradotta dal francese da Paolina Leopardi, è la cronaca di un’avventura un po’ anomala ma non assurda. Quella di un ragazzo che, pur di non soccombere alla noia della solitudine, riesce a squadernarsi il limitato spazio che possiede e a farlo diventare una terra di conquista senza fine, dove gli unici limiti son quelli che lui si impone: “Il tempo mi sembra una cosa talmente inconcepibile da farmi credere che non esista realmente e che quanto chiamiamo tempo sia soltanto una condanna del pensiero”. Tutto il giovane trova il coraggio di superare, tutti i rischi si assume pur di sollevarsi e trovare nuovi spazi da battezzare, pur nel limite dei confini: “Ogni attimo della nostra vita è una creazione nuova, un atto dell’onnipotente volontà”.
La grande lezione di de Maistre è che non c’è mai fine al pensiero umano, non c’è mai un limite alla fantasia dell’uomo, non c’è mai potere più inesauribile del suo desiderio di spingersi oltre. La curiosità è il motore umano, il desiderio incessante di arricchire l’orizzonte, la visione prospettica, il contenuto empirico: “Gli avvenimenti della nostra vita non possono avere un’origine diversa, e sarebbe il massimo della follia attribuirli al caso”. Tutto questo accompagnato da un’ironia, da una sagacia, da un amore pel grottesco che rendono più lieve anche la più profonda e pesante delle verità, la più ingombrante delle ricerche. “Ricorda che l’ironia ti salverà la vita” canta Fiorella Mannoia e François-Xavier pare averlo saputo già molti lustri prima, quando la penna poteva farsi spada, e la spada ferire senza scorrimento di sangue ma ugualmente pungente e dolorosa.
C’è anche spazio per l’amore, in questa breve fuga dal mondo; un amore declinato nella condizione, per lo scrittore, la più possibile pura e perfetta, quella del silenzio, quando non c’è bisogno di nessuna conferma, di nessuna sillaba fuori posto né luogo, di nessun assenso per essere autorizzata: “La giornata è sempre troppo breve quando la si passa accanto alla persona amata; e il silenzio è interessante quanto la conversazione”. C’è posto per ogni scheggi dell’uomo, in questa breve spedizione. Breve di lunghezza ma non di respiro, perché de Maistre riesce a condensarci tutto l’uomo, a mantenerlo integro nella costruzione della sua memoria, scandito dai suoi tempi e dagli innegabili suoi momenti: “il ricordo del passato, il sentimento del presente e la previsione dell’avvenire s’annullarono in me”, squadernando un uomo che fosse umanità e un’umanità che potesse identificarsi in un singolo uomo.
François-Xavier de Maistre monta in sella alla finestra, la cavalca come fosse cavallo bianco di principe, e parte alla conquista del mondo che non scorge, di quello che dorme nell’oscurità della notte. Ma che, per questo, è ancor più nostro; perché là possiamo essere quel che più vogliamo.

“Il lebbroso della città di Aosta”: la solitudine d’un uomo escluso

Giulio Gasperini
ROMA – “Torre dello Spavento”. Così era chiamata una delle torri che modellano il profilo contro il cielo della città di Aosta. Cambiò il suo nome in “Torre del Lebbroso” quando, comprata nel 1773 dall’Ordine Mauriziano, vi fu rinchiusa una famiglia ligure affetta da lebbra, affinché non entrasse in contatto con la cittadinanza aostana. L’ultimo a morire fu Pietro Bernardo Guasco: fu lui il modello per la figura de “Il lebbroso della città di Aosta” (“Le lépreux de la cité d’Aoste”), racconto edito nel 1817 da Michaud, a Parigi, e scritto da François-Xavier de Maistre, artista e personalità poliedrica, nato in Savoia. Lo scrittore conobbe personalmente il malato, ricreando codesta particolare situazione anche nella finzione narrativa: sicché “il lebbroso” dialoga con un soldato che, per caso, durante la Campagna delle Alpi (1797), si trovò a passare da Aosta e, per incauta curiosità, penetrò nel proibito giardino, sorprendendo un uomo respinto dal mondo.
Il malato viveva segregato tra le mura della sua torre, coltivando il suo giardino e cercando di rendere quella sua prigione il più bel angolo di mondo. Ma non si può essere felici in una prigione, con il peso dei propri dolori addosso, nel totale silenzio di voci e di confidenze; non ci si riesce quasi mai. L’unico affetto del lebbroso fu, per un periodo, la sorella, perché anche lei affetta dal medesimo virus. Il rapporto con lei era complesso e difficile: entrambi si amavano, ma riuscivano con estrema difficoltà a dimostrarselo. Era un sostegno fatto di piccoli gesti, di preghiere incessanti ma private, di dimessi sguardi e attenzioni premurose. Rimaneva, comunque, la difficoltà di superare il dolore, di vincere lo scoramento, di non lasciarsi sopraffare dall’assurda e inspiegabile domanda sul perché proprio a loro fosse toccato quel calvario.
È un racconto prezioso, quello di Xavier de Maistre. Perché ci fa riscoprire una scrittore brillante e dal suo tono tipico e particolare: è un racconto sulla solitudine e sulle sue complesse sfaccettature, perché dimostra come si possa essere violentemente soli anche in compagnia ma come, nel contempo, sia così difficile trovare una compagnia che colmi effettivamente la solitudine. Perché la solitudine non è soltanto quella fisica, quella della separazione, della segregazione, dell’allontanamento; la solitudine è anche quella più intima, quel senso di vuoto che difficilmente si colma, che lascia sempre voragini nella coscienza e che non permette, alla fine, di farsi conoscere come uomini completi. L’esclusione fa inasprire l’uomo e il grido di dolore del lebbroso è quello che provano tutti i reietti di una società ipocrita e superficiale: “Io non ho mai suscitato null’altro che la compassione!”; sicché l’esclusione diventa sconfitta, sia per chi la provoca che per chi la subisce.
De Maistre ci parla dell’isolamento, della fatica nel sopportarlo, della difficoltà dell’amore, della tristezza che si prova a sentirsi esclusi per una causa che non dipende dai noi stessi, ma per un accidente che nessuno vorrebbe attirare su di sé. Xavier ci parla di un’amicizia che dura il tempo di un dialogo; ci parla di un rapporto che si chiude con lo scatto di una serratura e che pare lasciare vuoti e soli più della solitudine furiosa.