Pro Armenia: le voci inascoltate di un massacro annunciato

Pro ArmeniaGiulio Gasperini
AOSTA – Sono 100 anni, quest’anno, dal genocidio armeno: circa un milione di persone trucidate sistematicamente sotto gli occhi omertosi e indifferenti di un occidente che pensava a come curarsi dai disastri (e a come approfittare, conquistando) di una Guerra mondiale. Nel volume Pro Armenia. Voci ebraiche sul genicidio armeno, edito da Giuntina nel 2015, con prefazione di Antonia Arslan, sono raccolte a cura di Fulvio Cortese e Francesco Berti quattro testimonianze di quattro spettatori di stirpe ebraica sullo sterminio armeno, primo evento della storia a meritarsi l’appellativo di “genocidio” (coniato da Raphael Lemkin, giurista polacco di origine ebraica, nella sua opera “Axis Rule In Occupied Europe” del 1944). Continua

Le tante novità al Salone del Libro (evitando i muraglioni).

Salone del Libro di TorinoGiulio Gasperini
TORINO – Anche quest’anno ChronicaLibri ha esplorato per voi i padiglioni del Salone del Libro di Torino alla ricerca delle ultime novità editoriali. Passeggiando tra gli stand ci siamo meravigliati di alcuni aspetti e ci siamo stupiti di altri, notando come i grandi gruppi editoriali avessero negozi (e non stand) con alti muraglioni di vetro e luci diafane e commessi più che librai mentre i piccoli editori stringessero le mani ai visitatori e amassero parlare di ogni singola loro creazione come se fosse effettivamente un figlio. Passeggiando e guardando, passeggiando e annotando, siamo tornati a visitare amici di sempre, che ci hanno illustrato le loro ultime novità.
Add Editore presenta “Il maestro dentro” di Mario Tagliani, il diario della trentennale esperienza come maestro tra i banchi di un carcere minorile, e “Musica nel buio” di Cesare Picco, la storia di un pianista che suona nel buio più completo, per scelta, nella performance “Blind Date – Concert in the Dark”.
Gli amici toscani di Ouverture Edizioni, invece, presentavano al Salone del Libro due testi: il semplice ma gustosissimo ricettario “Vegano alla mano” coi i due autori, Arianna Mereu e Vieri Piccini, e “Alcune strade per Cuba” con l’autore Alessandro Zarlatti, una ricca collezione di racconti che raccontano i suoni, i colori, gli odori di una terra in profonda trasformazione.
Dopo il successo di “Oltre il vasto oceano” di Beatrice Monroy, in corsa al Premio Strega 2014, Avagliano Editore propone “Casa di carne” di Francesca Bonafini, la storia di una crescita che corre tra quattro città: Trieste, Brest, Rio de Janeiro, Lisbona.
Gli amici di Elèuthera ci hanno presentato il nuovo saggio di Marco Aime, “Etnografia del quotidiano”, uno sguardo antropologico sull’Italia che cambia, che ha ottenuto un grandissimo successo anche al Salone del Libro.
La Giuntina, invece, presentava due testi: il primo, “Idromania”, di Assaf Gavron, un’inaspettata sorta di thriller fantascientifico sulle guerre che la carenza d’acqua scatenerà nel mondo; il secondo, di un’autrice di punta come Lizzie Doron, “L’inizio di qualcosa di bello”. Spostandoci in oriente, invece, la ObarraO Edizioni aveva portato al Salone due testi della collana In-Asia: “Il mondo dei fiori e dei salici” di Masuda Sayo, l’autobiografia di una geisha, e “Fuga sulla luna” del cinese Lu Xun.
Anche quest’anno, un Salone ricco di sorprese e di buonissimi testi. Evitando i muraglioni e le vetrine troppo accese.

Uri Orlev, avere 13 anni nel campo di concentramento

Marianna Abbate
ROMA – Avere tredici anni è di per sé abbastanza complicato. Viviamo le nostre tragedie personali: ai maschi cambia la voce e le femmine cambiano significato. Avere tredici anni è un po’ una maledizione: pensiamo di sapere già tutto, ma nessuno ci crede.

Avere tredici anni ed essere un poeta è terribile. Gli amici ci prendono in giro, i grandi ci guardano con quell’indulgenza che odiamo.

Trovarsi in un campo di concentramento è inspiegabile al profano. Il campo è un posto fuori dal tempo, fuori dallo spazio. Non è solo una prigione per il corpo: il campo è un ladro di anime. Il campo ci trasforma, ci rende mostri ai nostri stessi occhi.

Tredici anni e il campo di concentramento non sono due cose che vanno d’accordo. A tredici anni siamo troppo assorbiti dalla nostra tragedia interiore per comprendere appieno quello che accade intorno a noi, soprattutto se siamo dei poeti.

E se l’uomo adulto non riesce a cantare col piede straniero sopra il cuore, tra i morti abbandonati nelle piazze, nel poeta bambino vince la creatività. Non solo: si tratta di una creatività vivace.

I versi del tredicenne Uri Orlev non sono disperatamente tristi.  Lo spirito fanciullo desidera sfogare la propria creatività, nonostante tutto. Uri riempie il suo preziosissimo taccuino di versi, ricopiati con attenzione dall’asse di legno usata per la brutta copia. Oggi queste poesie sono pubblicate in italiano ed ebraico da Giuntina, nel piccolo tomo “Poesie scritte a tredici anni a Bergen- Belsen (1944)”. 

E’ evidente il contrasto tra le rime semplici e la scrittura infantile, in contrapposizione alle tematiche gravissime e ad una innaturale autocoscienza. Il bambino cresciuto troppo presto, non riesce a vedere con nitidezza tutti i significati della realtà che lo circonda, tuttavia ha sviluppato un ottimo senso dell’osservazione. La trasposizione poetica della realtà vista con gli occhi curiosi di Uri, assume un’ironia involontaria quasi grottesca. Lo sguardo invidioso del ragazzo che vede gli altri detenuti grattare il fondo della pentola, mentre lui stesso cerca di frenare i morsi della fame con le rimanenze di quell’educazione, che una volta aveva un significato totalmente diverso, ci colpisce al cuore. Perché quei volti scarni, quelle teste rapate, quei numeri sul braccio tornano ad avere un nome, una storia.

Queste poche poesie non hanno un gran valore letterario. Come vi ho accennato le rime sono semplici e la struttura basilare. Le metafore, poi, non sono proprio azzeccatissime.

Quello che è interessante è il significato socio-antropologico di questi testi. Se a scrivere una poesia sul lager fosse stato un adulto, la parola tragicommedia nel titolo della poesia ci avrebbe indignati. L’invidia stessa ci avrebbe indignati.

Nella poesia “E la vita va avanti” troviamo un punto di vista molto interessante. Il piccolo poeta contrappone la quotidiana banalità delle conversazioni, alternandola anche graficamente verso per verso, agli orrori della guerra. L’intenzione di Orlev era quella di mostrare quanto il desiderio di sopravvivenza, il bisogno di parlare di banalità, permettano all’uomo di estraniarsi dagli avvenimenti che lo circondano. Questa sagace e intelligente osservazione avvicina i suoi versi a quelli della poetessa premio Nobel Wislawa Szymborska. La stessa poesia è stata poi corretta e sistemata da un compagno di prigionia con più esperienza.

Effettivamente l’opera corretta, mostra appieno il potenziale del poeta.

 

Orlev da grande ha fatto lo scrittore per ragazzi, scrive prevalentemente in ebraico, ma queste prime poesie sono state scritte in polacco. Le sue opere sono state insignite, tra l’altro con il premio Andersen, il riconoscimento più alto per un autore di libri per l’infanzia.

 

 

 

“Le confessioni di Noa Weber”. Gerusalemme diventa Manhattan

Marianna Abbate
ROMA – Una carriera di successo, la fama e il benessere. Una vita passata tra l’elite culturale di Gerusalemme, mille amori e una figlia. Sembrerebbe quasi la trama di un telefilm americano.

E invece è un libro, “Le confessioni di Noa Weber” e tutto si svolge a Gerusalemme. Come è facile immaginare l’ambientazione stravolge completamente la visione del romanzo e con essa la vita della protagonista. A partire dal fatto che ha dovuto sposarsi giovanissima per evitare il servizio militare (questo non sarebbe mai potuto succedere a New York).

Eppure i sentimenti sono gli stessi in tutto il mondo e l’amore adora fare scherzi inopportuni. Così Noa, la donna amata e ammirata da tutti, è schiava di una storia antica- di un amore finito e forse mai iniziato.

Quello studente anarchico, quel giovane promettente che l’ha sposata per solidarietà sociale ed è subito sparito dalla sua vita, è entrato nei suoi sogni, nei suoi pensieri e nel suo ventre. Perché quella figlia, così bella, non fa che ricordarle ogni giorno l’uomo perduto.

E non servono a nulla gli uomini che passano per caso dal suo letto, se non riescono ad aprire il suo cuore. Tra flash back e quotidiano riviviamo passo dopo passo i fatti e le sensazioni che l’hanno portata ad un oggi nostalgico e agguerrito. Noa non si arrende: aspetta ogni istante il momento del ritorno di quel ragazzo, ormai adulto, che le ha rubato il sonno tanto tempo fa. Un amore che diventa ossessione, pensiero fisso- martellante.

Capitoli brevi, sussultori- un paio di pagine appena, molti dei quali portano il nome di Alek, quasi a scandire il tempo passato lontano e quello passato insieme- fosse anche solo nei pensieri.

Una narrazione emotiva e coinvolgente che ha fatto di Gail Hareven una scrittrice pluripremiata tra Israele e Stati Uniti. E ora grazie a Giuntina, possiamo leggerla anche in Italia.

 

Quando il mondo crolla “Salta, corri, canta!”

Marianna Abbate
ROMA Un campo di concentramento dal nome impronunciabile e maledetto. Capelli, scarpe, valigie e ricordi. Solitudine, terrore, fame. E poi, quando non sai più cosa fartene, la salvezza. La Libertà.

Il ritorno al tuo paese; e magari un figlio.

“Salta, corri e canta!”, il nuovo romanzo di Lizzie Doron per La Giuntina è anche questo. Ne ho letti veramente tanti, di libri sulla vita nei campi di concentramento. Ma veramente pochi sulla vita dopo i campi. Come se tutto quello che c’è da raccontare finisse lì, dietro il filo spinato. Come se quella auspicata libertà, non fosse valida nemmeno a occupare una riga delle memorie di una vita.

Eppure la vita è arrivata. I cancelli si sono aperti e ci sono stati quelli che sono tornati alle proprie tiepide case. Ma quelle case non erano più tiepide, non erano più sicure. Nella notte comparivano davanti agli occhi i capelli biondi delle SS. Ogni grido, ogni rumore improvviso, faceva balzare dal letto. E ogni tanto tornavano i ricordi delle persone amate. Polverizzate.

La vita dopo il campo, non ce la racconta un sopravvissuto. Ce la racconta sua figlia. Una bambina degli anni ’50 a Tel Aviv.

Una bambina col desiderio di giocare, di essere uguale agli altri- di avere un papà; o almeno di avere una storia da raccontare su di lui.

Ma quel papà è stato nel posto innominato, e poi se ne sono perdute le tracce per sempre.

 

L’autrice ci accompagna nel percorso della sua memoria, per rintracciare quei segni, quei segnali impercettibili, che la aiuteranno a comprendere e a scoprire il dolore degli adulti di ieri.

Un viaggio avvolto di mesto mistero, di triste allegria infantile e di rimpianti. Nel sottofondo aleggia ancora quell’aria di terrore che ricompare nelle maledizioni gettate al vento. Con quelle ferite putride nell’animo, che non guariranno mai.

Non ne ho letti molti di libri sulla vita dopo i campi.

Peccato.