Chi sono gli “Assassini” dei nuovi anni Dieci?

Giulio Gasperini
ROMA – C’è una fabbrica che inquina, nel romanzo di Philippe Djian; c’è un paese, Hénochville, che vive grazie a codest’industria; c’è un ispettore che sta per decidere di chiudere la fabbrica; ci sono alcuni operai che non vogliono che sia chiusa; ci sono delle mazzette che vengono versate e c’è una donna pagata per convincere l’ispettore. C’è anche un fiume – ovviamente inquinato – che sta per tracimare; c’è una donna, una ragazza, che ignara di tutto si trasferisce in città e prende in affitto un appartamento; c’è il protagonista, Patrick Sheahan che ha una relazione con una donna sposata; e c’è il marito che fa finta di ignorare. Il copione di “Assassini”, romanzo edito nel 2012 dalla romana Voland, è quello che anche alcuni recenti fatti, di questi primi anni Dieci, hanno portato alla ribalta delle cronache. Da una parte la produzione, la creazione di ricchezza; dall’altra il disastro ambientale e umano: quale dei due poli pesi di più e sia più importante è difficile a dirsi, perché l’assunzione di responsabilità della risposta tira in ballo situazioni imbarazzanti e un’accusa di omertà pesante da giustificare.
Il protagonista è perentorio, fin dall’inizio: “Lavoravo per un assassino. Lavoravo per un assassino come molti in città, ma nessuno diceva niente”. Tutti i personaggi corrono su un doppio binario: quello delle proprie vite personali e quello delle proprie vite “pubbliche”, legate indissolubilmente all’andamento della fabbrica e alla sua capacità produttiva. Gli amici si ritrovano tutti assieme, in un piccolo chalet di montagna, assediati dalla pioggia e da una frana che si fa sempre più incombente, fino a quando tutto è travolto e si offre la possibilità di voltare pagina, di affrancarsi dai dolori del passato e di cominciare una nuova vita da qualche altra parte: “La ricerca della felicità è faccenda piuttosto complessa e quasi sempre votata al fallimento, eppure tutti ci provano. Ci vuole tempo, poi, per imboccare un’altra strada”. Il ricatto sentimentale del protagonista, il suo volontario e sadico ostaggio della sua storia e della sua vicenda personale, lo allontanano dalla possibilità di redenzione, che appare preclusa in una città soffocata e oppressa, dall’industria e dalla natura; i suoi tentativi di evadere sono stanchi rimedi inutili, iniziative fallite ancora prima di approdare all’epilogo: su tutto grava un cielo scuro e un annuncio di giudizio universale. Su tutti incombe l’ombra di un fato arcigno e di una casualità ostile. Tutta l’umanità è pareggiata, sullo stesso palcoscenico d’eventi, e tutta l’umanità, al di là di ogni proprio impulso e patimento, si scopre sofferente e sanguinante.
Nello scorrere degli eventi, nell’avanzare impetuoso e inarrestabile della trama, di fronte alle esigenze intime e individuali, quelle della collettività passano in secondo piano, si opacizzano e assumono, sempre più, una dimensione inquietante e carnivora. Non c’è vita che possa essere sprecata, ma ci sono disastri che posson tramutarsi in risorse. Il finale è prevedibile e scontato, persino sdolcinato, ma lascia un’ombra inquieta e inquietante: in tutta questa trita umanità non si capisce bene chi siano i peggiori assassini.