I nostri “Ricordi di scuola” e i migliori anni della nostra vita

Giulio Gasperini
ROMA – Ciascuno di noi ha pochi ricordi indelebili, come quelli della scuola. A scuola cresciamo, diventiamo adulti, cominciamo a conoscere noi stessi e gli altri, ci confrontiamo con la vite e con la realtà, ci esageriamo le persone che vorremmo: e ci sorprendiamo a considerarli i migliori anni della nostra vita. Giovanni Mosca nella scuola trascorse pochi anni, come maestro. Di questo mestiere, a cui rinunciò per dedicarsi al giornalismo, i suoi “Ricordi di scuola”, editi nel 1968 da Rizzoli, sono una testimonianza preziosa e irrinunciabile: ci aiutano a capire come funzionasse la scuola, nel passato non troppo distante, ma, soprattutto, cosa “fosse” e dove avesse intenzione di andare.
Quel che di più importante, infatti, si evince dalla lettura di queste pagine, redatte dall’occhio d’un maestro giovane e con poca esperienza ma non per questo acerbo né ingenuo, edotto di teorie didattiche e formative ma anche consapevole del proprio entusiasmo e dell’opportunità della deroga, è il legame di profondo rispetto che si instaurava tra tutti i partecipanti all’azione: allievi, genitori, maestri, istituzione scolastica. Tutti contribuivano alla realizzazione del progetto educativo di cui la scuola era referente ultimo e, forse, più determinante. Tutti concordavano su quali fossero gli obiettivi principali, le possibilità di deroga, gli spazi per la flessibilità, i giusti ruoli e i giusti spazi, le giuste pretese e i corretti giudizi.
Non c’è, in “Ricordi di scuola”, nessun’atmosfera idilliaca né idealizzata, alla maniera di “Cuore”; nessuna deificazione di alunni professori o programmi scolastici. Semplicemente, uno sguardo tenero ma non indulgente, ironico e sagace dimostra quanto buono poteva esserci in un’istituzione che, di lì a poco tempo, sarebbe stata colpita in pieno dalla potenza dirompente e stravolgente delle proteste studentesche e del ’68. Parrebbe quasi dirci Mosca che la rivoluzione, se cieca e incontrollata, rischia di privarci anche dell’essenzialità e della positività del buono.
È un racconto lungo di tenerezza e di affetto, che si concreta in figure plastiche, reali, concrete, che maturano e che impartiscono preziosi insegnamenti. Sono personaggi magistralmente contornati, raccontati nel loro ambiente privilegiato ed esclusivo: personaggi che crescono e maturano, esattamente come fanno gli alunni, in uno scambio continuo di esperienze e di insegnamenti; mai univoci né unidirezionali. Personaggi come la signorina Cenci, che, amante del suo mestiere, persino d’estate, quando la scuola è vuota e abbandonata, percorre leggera i corridoi e va a dare l’acqua alle piante rimaste nella classe; o come il maestro Garbini, che al pari dei suoi studenti fantastica su un cavallo bianco; o ancora, come la maestra Marini che, con la prospettiva di un fiore e di un amore, saprà cambiare e diventare più buona e meno severa coi bambini del suo doposcuola.
Alunni e insegnanti sono protagonisti allo stesso tempo, sullo stesso palcoscenico: ma sono forse i maestri a ricevere la rivalutazione più importante, dalla pena intelligente dell’ex giovane maestro Mosca. Sono tutti insegnanti, cioè, che hanno a cuore il loro mestiere, che non difendono inutilmente gli alunni ma ne esaltano le peculiarità e i talenti, che, anche quando li sgridano, ne conservano in cuore e nelle intenzioni l’affetto più profondo: una scuola, tutto sommato, radicalmente giusta negli intenti.