“Opendoor” aprire le porte non significa essere liberi

Marianna Abbate
ROMA  “Opendoor” è la prima opera di Josi Havilio tradotta in italiano, pubblicata da Caravan Edizioni. Prima di presentare il testo volevo soffermarmi sulla scelta grafica e di formato, della casa editrice, che non ha nulla da invidiare alle grandi edizioni tascabili (se non il prezzo…). I libri si presentano compatti, gradevoli alla vista e al tatto, con un testo ben leggibile, elementi imprescindibili per una buona lettura. Devo quindi riconoscere che già in partenza ero favorevolmente influenzata dall’involucro.

Il libro è originale, vago, pieno d’emozione.

Josi Havilio è un giovane autore argentino, che si è guadagnato la fama proprio grazie a questo suo primo romanzo, pubblicato in origine da una piccola casa editrice.

La storia si svolge ad Opendoor, un paese sperduto nella campagna argentina. Un posto dove dall’inizio del ‘900 vivevano in esilio tutti i matti del paese. Il nome del villaggio è simbolico, le porte delle case, dell’ospedale, sono aperte, perché è inutile cercare di scappare.

E qui arriva la protagonista, anonima e sola. Sospesa tra sanità e follia, stringe amicizie passeggere, vive rapporti d’emergenza. Non è la sola a soffrire, tutti soffrono. L’aria e la noia danno l’illusione di una pace che non esiste.

Un romanzo quasi mistico, indolente ma allo stesso tempo malinconico e quasi nostalgico. Letteratura.