“Tutto deve accadere dentro di me”, viaggio nell’inquietudine di Nicolas De Staël

Giulia Siena
PARMA “Ma un anno, due, dieci anni non sono niente, perché essere artista non è contare, ma vivere come l’albero senza fare fretta alla sua linfa, attendere l’estate, perché l’estate arriva, perché occorre pazienza e pazienza, e se così non fosse, non condividerete mai il mio pensiero e avreste ragione. Avreste due volte ragione perché, pur dicendomi ogni giorno che devo crescere, pazientare, sviluppare la mia vita interiore con naturalezza, i miei disegni sono frettolosi, impazienti, spesso disperati. Forse ho due volte torto […]”. La figura di Nicolas De Staël non è semplice da descrivere e comprendere: artista nato tra l’aristocrazia di San Pietroburgo, si trasferisce in Polonia dove rimane orfano di genitori; verrà adottato da una famiglia russa e si trasferirà in Belgio. Ma Bruxelles non rimarrà per tanto tempo la sua casa perché comincerà presto a viaggiare ed esplorare luoghi: Olanda, Italia, Francia, Algeria e Marocco. Proprio da quest’ultima terra, il Marocco, tra il 1936 e il 1937 scriverà alcune lettere i cui frammenti sono contenuti nel volume Tutto deve accadere dentro di me, curato da Lucetta Frisa per le edizioni Via del VentoContinua

“Lettere da Sodoma”, dove l’amore è feroce.

Lettere da SodomaGiulio Gasperini
AOSTA – “Un reietto, un rifiuto della società costituita, un borghese che è sceso fino al rango fangoso dei pezzenti, dei falliti”. Fallito, soprattutto, nelle sue ispirazioni artistiche e poetiche. È questo il personaggio protagonista del romanzo epistolare “Lettere da Sodoma”, che Dario Bellezza pubblicò per Garzanti nel 1972. Attraverso missive inviate a scontornati destinatari, Marco narra la storia della sua condizione, di questo strazio di vivere che si tesse con un più profondo supplizio d’amore: “Ho orrore della mia condizione di maniacalmente depresso che desidera l’orrore dell’euforia: fra questi due poli oscilla la mia vita”. E la sua vita è una continua lamentazione, un inarrestabile cadere in spazi d’ombra interiori, dove tiranneggia “la tragicità fanatica del quotidiano”. È un continuo ripensare ai suoi fallimenti, affliggersi con legami sadici e furenti: “Vivere di progetti non mi basta più”, ma neanche il sogno ha più spazio nella sua vita, neanche un amore che sia sano e maturo, puro e coraggioso.
Il tiranno per eccellenza, che spadroneggia e infuria, è Luciano, un ragazzino che si prostituisce per capriccio e avidità, che si diverte in un gioco perverso a tormentare e torturare il fragilissimo amante. La soluzione, Marco, l’ha ben chiara: “Mi ripeto che per farlo stare con me lo devo fare mio prigioniero”. È un amore cannibale, un amore tormentoso, una continua violenta prevaricazione e . Le parole di Marco sono velenose frecce, affondi feroci e violenti, ma anche consapevole che l’altro abbia un’armatura resistente e tenace, possegga una capacità innata di difendersi semplicemente con il potere della sua esistenza svagata e indisciplinata: “Lo scandalo di questa solitudine in cui mi costringi mi ucciderà. Attenta al rimorso. Ma tu sei troppo superiore a tutto”.
Marco sceglie la lettera, una forma di lettera poetica, per indagare il proprio scontento e lanciare anatemi e violente requisitorie contro i suoi amici, i suoi amanti, i suoi nemici, i suoi amori tribolati; la lettera gli dà compagnia, gli concede la possibilità di fingere una sciarada, una ricostruzione aleatoria e fittizia di una vita che lui desidererebbe intensamente non fosse la sua: “Ecco perché almeno queste lettere mi fanno un po’ di compagnia: sorelle della mia futura morte. Sono la mia ultima occasione, dove, niente essendo autobiografico, tutto lo sembrerà, senza rimedio”. Ma la lettera è strumento di strenua difesa, l’unica possibilità – fallito il tentativo letterario – per significare il suo io più profondo e concedersi una giustificazione d’esistenza: “Sono attaccato a queste lettere come un naufrago alla sua zattera che forse lo porterà a salvazione. Soprattutto le scrivo per uccidere il tempo, la noia”. La sua è una confessione, un tentativo di espiazione (“Mi sto laicamente confessando”). Ma abita a Sodoma, e pare non esistere per lui nessuna promessa di redenzione.

“Il gelo dentro” e la fatica di lottare col tempo per ricostruire sé stessi

Giulio Gasperini
ROMA – Lucide e spietate sono le lettere di Natalia Berla (“Il gelo dentro”, Archinto 1991), ragazza estranea alla letteratura ma che con la sua esperienza ci dimostra come le parole, quando potenti, trovano sempre la capacità di diventare arte. E la vita, per l’arte, è sempre la fonte più genuina, la più fresca e inesauribile, la più sorprendente e incalzante. Natalia non ebbe l’intenzione di scrivere per esser ricordata; lei cominciò a scrivere per salvarsi. O meglio, per accompagnare e sostenere il suo cammino di rinascita. Sicché la scrittura è rozza, spontanea, a tratti naif, addirittura in certi momenti troppo infantile per una ragazza della sua età. Ma è genuina, trasparente; non conosce orpelli né ricatti. È fresca perché Natalia stessa si presentò così, scrivendo con naturalezza ai suoi familiari e amici – lontano il sospetto di poter essere, un giorno, pubblicata e fatta conoscere al mondo intero. Natalia alimenta, nelle lettere, la propria interiorità più segreta e intima, e si comunica senza remore né limiti, non si vergogna né si limita, ma squaderna sé stessa con tutta la potenza di cui è capace e con tutta l’immediatezza che la sua lingua scarna e ispirata le concede. Come se stesse “pensando ad alta voce”, o “chiacchierando in un pomeriggio di luglio”.
Le lettere ci comunicano tutta la sua gioia dell’aver ritrovato una nuova rotta; riscopre la “quiete” alla quale così tanto, inconsciamente, anelava. Il soggiorno a San Patrignano le pare “una piacevole ‘infanzia’ come quando sei in vacanza con tutti gli amici”. La vive come un’opportunità per non stancarsi di sé, per darsi un’opportunità che gli altri le hanno già negato. Si scopre soddisfatta nell’ingrassare, nel lavorare in biblioteca, nell’insegnare ai bambini, nel poter mettere a frutto la sua conoscenza delle lingue, che una madre distratta e incostante nell’affetto le impose di imparare. Si sorprende, Natalia, a meravigliarsi delle piccole cose, dei delicati dettagli di una tiepida giornata, di una luce a sera indora il mondo, come solo in Italia può succedere. Si carica di ottimismo, di voglia di fare, di passione del lavoro: tutti atteggiamenti che, nella sua vita precedente, quella dominata dalla “piaga” dell’eroina, lei aveva ignorato di poter avere.
Ma allora perché non bastò? È questa la domanda estrema, alla quale non riusciamo a rispondere, alla fine dell’epistolario. Ci rimane l’ovvio sospetto che non fosse così celeste, il suo orizzonte; e che non fosse mai riuscita a dissipare definitivamente le nuvole che le adombravano il sole. Alla madre si firmava “tua figlia che spera”. Ma ben presto anche San Patrignano diventa una prova difficile, sofferta, per una donna che ha paura di non guarire mai, dal “carattere votato alla tristezza”, e che non ha più tempo “di guardare le colombe sui tetti”, come faceva mesi prima. Scrisse che San Patrignano le aveva dato “nuove ali”. Ma non le bastarono; e l’ultimo volo fu breve.

“Lettere di Natale alla madre” e l’appuntamento delle sei.

Giulio Gasperini
ROMA –
Per venticinque anni, dal 1900 al 1925, “fedele di anno in anno”, Rainer Maria Rilke e la madre, Sophia “Phia” Rilke, ebbero un appuntamento: non importa dove fisicamente si trovassero, alle sei di sera della vigilia di Natale si incontravano nel pensiero. E il figlio, così peregrino ma sempre affettuoso, ogni anno rammentava alla madre il loro appuntamento, in lettere di straordinaria delicatezza e premura. Passigli Editori, storica casa editrice fiorentina, nel 1996 pubblicò queste “Lettere di Natale alla madre”, che testimoniano e documentano la visione profondamente cristiana che il poeta de “I sonetti a Orfeo” e delle “Elegie duinesi” nutriva e condivideva con la madre.
Indipendentemente da dove si trovasse, anche in luoghi nei quali sentiva “maturare la arance”, Rilke sa che il Natale non è il trionfo del consumismo, tanto che spesso si lamenta e si scusa con la madre di non poterle inviare bei regali, ricercati ed eleganti, ma costretto spesso a inviare soltanto i suoi pensieri e la sua grafia. Rilke sa che il Natale è una festa “carica di prodigio e carica di mistero”; in ogni Natale – lui stesso ammette – tutto si faceva “per un attimo indescrivibilmente chiaro e prodigiosamente animato”, in un’ansia e in un bisogno di raccoglimento che lo eleva al di sopra della contingenza e gli consente di stabilire con la madre stessa una “comunicazione interiore”, una vera e propria corrispondenza-d’amorosi-sensi per dare significanza e compimento alla festa stessa del Natale, che altrimenti festa non potrebbe definirsi.
Anche attraverso gli anni duri, sofferenti, della prima guerra mondiale, durante i quali il mondo si macchiò di “complicatissima colpevolezza”, il Natale rimane sempre “la festa dell’innocenza”. È soprattutto il giorno che, in tempi di delirio collettivo, di pazzia senza senso apparente né facile possibilità di redenzione, “merita di essere il giorno più fiducioso dell’anno”, il giorno nel quale l’uomo possa riappropriarsi della consapevolezza del proprio limite (e, dunque, della salvezza), accorgendosi che “per quanto avanti possa spingersi, non giungerà mai al confine di Dio ma alla sua stessa fine”. Sicché ecco che la necessità urgente diventa quella di tornare bambini, esattamente come il piccolo Gesù che, nascendo, ha portato lo stupore e la meraviglia nel mondo, quel rispetto per ogni forma del creato e per ogni essere umano. I migliori ricordi del Natale sono, infatti, quelli del Rilke bambino, del futuro poeta che scopre le luci, i doni, la festa e le decorazioni; e che ha al suo fianco gli affetti più forti, che non possono essere altri che quelli familiari. Sicché il Natale probabilmente è soltanto questo, a prescindere dall’altrove che abitiamo: è sapere che “non è triste essere soli quando sono aperte le strade per ogni amore”.