“Love song” e la fenomenologia del nuovo matrimonio.

Love songGiulio Gasperini
AOSTA – La storia di Federico Novaro è nota, approdata persino sul più grande palcoscenico della televisione italiana, quello di SanRemo. In molti si ricordano quei due uomini che raccontavano in silenzio, con modestia e persino con timidezza, attraverso raffinati cartelli, la storia del loro incontro, del loro innamoramento, della decisione di sposarsi. “Love song”, edito da ISBN Edizioni (2014), proprio come recita il sottotitolo, è la “storia di un matrimonio”, quello di Federico e di Stefano, celebrato a New York perché qua, in Italia, non è possibile. Come non è possibile nessun’altra forma legale di unione per due persone che siano dello stesso sesso. Federico Novaro sceglie di raccontare la storia sua e di Stefano preoccupandosi anche di discutere e di esaminare il concetto di “matrimonio”: istituzione che, oramai, è cambiata, al cambiare della società, perché dalla società stessa è stata definita e non può esentarsi dal cambiare lei stessa.
L’analisi di questa particolare istituzione va di pari passo, nel percorso di Novaro, con l’analisi di altri aspetti che completano e caratterizzano la società italiana attuale: dall’omofobia alla necessità di avere dei figli (negata agli omosessuali), alla presunta “normalità” che non esiste, ma che è semplice costrutto sociale. Il ragionamento di Novaro procede per domande, provocatoriamente rivolte ai lettori; questioni aperte e significative, che spesso vengono intenzionalmente sabotate dalla maggioranza dei “pensanti” e degli “opinionisti”. Il racconto della sua storia privata, della sua personale esperienza di marito anomalo, è incastonata in un’ottica ben più vasta: Federico e Stefano si scoprono presto coppia pubblica, il loro un gesto che si guadagna l’importanza della ribalta e diventa prezioso per chi si trova in quella medesima situazione; ma non solo. È un gesto che spezza l’omertà e riporta il discorso all’interno di binari dolorosi per tutti, per varie ragioni: per chi viene scoperto nell’oggettivo errore di una strenua difesa anacronistica (potente perché “legale”) e per chi, invece, deve ancora lottare contro codesta difesa e non ha dalla sua armi legislative.
Quella di Federico è finanche la confessione di chi, in nome di un’ostilità anti-borghese (vista come maggiore impedimento e strutturazione sociale giudicante di certe alterità), rifiutava il matrimonio proprio come concetto e poi invece si arrende all’idea che, tutto sommato, la libertà sta proprio nell’aver a disposizione certi strumenti e nel decidere se utilizzarli o meno. Perché il punto centrale sta proprio qui: non si discute tanto se il matrimonio possa essere utile, necessario, una scelta intelligente o una boutade; si discute sulla mancata possibilità per certe persone, nel nostro paese, di accedere a dei diritti che invece appartengono soltanto ad altri (che spesso li trascurano o li maltrattano): “Non c’è alcun dubbio che il matrimonio mantenga dei caratteri sessisti ed eterosessisti, e che il sostenerlo sia una battaglia dai tratti conservativi, ma ecco: prima facciamo che possiamo fare tutt’e due la stessa cosa, poi, magari, cominciamo a demolirla”. E i diritti, secondo un criterio che potrebbe essere persino giuridico, o sono di tutti o non sono di nessuno.