Le strade del Morellino: quando il vino è appagamento sensoriale.

Strade del MorellinoGiulio Gasperini
AOSTA – Senza dubbio è un vino tra i più famosi al mondo. È uno dei più pregiati e dei più apprezzati. Ma anche, uno dei più “misteriosi”. Qual è il vero Morellino? È una questione ancora aperta e dibattuta, che non ha un epilogo sicuro. Il Morellino non ha ancora una definizione. Matteo Teodori ha percorso le colline maremmane incontrando e parlando chi col Morellino ci lavora e ha un legame speciale: produttori, agricoltori, imprenditori di uno dei vini più affascinanti che esistano. E ne ha scritto un libro esile e incalzante: “Strade del Morellino. Storie e avventure di un vino famoso nel mondo”, edito dalla casa editrice orbetellana Effequ (2014) nella collana “Ricettacoli”. La narrazione prosegue liscia e vellutata, proprio come un bicchiere di vino, che soprattutto in compagnia tiene accesa l’atmosfera e aiuta la conversazione. A intervallare il racconto, varie ricette tipicamente toscane che prevedono l’accompagnamento di questo vino rosso e robusto: dalla salsa di fegatini allo stracotto di cinghiale alla scottiglia cucinata già, pare!, dagli Etruschi. E sono proprio gli Etruschi il leggendario popolo che, secondo alcune teorie, ha introdotto la coltivazione della vite, anche se i dati più certi e sicuri sulla produzione risalgono all’epoca romana, quando i vini prodotti in queste terre venivano commerciati in tutti i porti del Mare Nostrum, come testimoniano le tante anfore che riportano il marchio SEST, ovvero della famiglia dei Sestii, nobili che operavano nelle zone rurali della Maremma. Teodori ripercorre tutta la storie e le alterne vicende di questo vino con ineccepibile maestria, mostrandoci come siano complessi i meccanismi dell’enogastronomia e del gusto. Estremamente curiosa e interessante anche l’“inchiesta” su quale sia la vera ricetta del Morellino, quali i vitigni, quale la composizione, quali le dosi e i rapporti. Perché, in realtà, pare che ancora nessuno abbia le idee molto chiare sulla formula magica che crea uno dei prodotti più deliziosi dell’enogastronomia italiana. A renderla ancora più concreta, sono le parole delle persone che con il Morellino vivono e lavorano direttamente, che hanno scelto la coltivazione della vite e la produzione di questo capolavoro che tutti conoscono e il cui nome rotola sulla lingua di ognuno con estrema soddisfazione. Gli stravolgimenti climatici che hanno colpito l’Italia in generale e la Toscana nel particolare senza dubbio non gioveranno alla sopravvivenza del Morellino. Però rimane sempre in testa la frase del grande Leonardo, che aveva capito l’importanza della vite per del suo prodotto: “Et però credo che molta felicità sia agli homini che nascono dove si trovano i vini buoni”.

Il mito di Pia da Dante a Gianna Nannini e Pia Pera.

Pia come la canto ioGiulio Gasperini
AOSTA – Sono solamente sette i versi, gli ultimi del canto V del Purgatorio, con i quali Dante ci consegna una delle figure più enigmatiche e solitarie della sua cantata umanità. Una donna aggiunge, quasi timida, la sua voce a due imponenti figure maschili, e ci affida un suggerimento, niente più d’un sospetto della sua esistenza. La scenografia è l’Antipurgatorio, le anime sono quelle di morti di morte violenta. Di fronte ai resoconti sanguinari e sanguinosi di due uomini, la Pia, come un puro giglio, ci parla di sé e del suo destino con un pudore e una reticenza da lasciarci quasi increduli, tristi, impotenti. È lei stessa a proiettarci un’agghiacciante ombra sulla sua fine: “Siena mi fé, disfecemi Maremma: / Salsi colui che ‘nnanellata pria / disposando m’avea con la sua gemma.”; Pia, dunque, sembra suggerirci che a ucciderla sia stato proprio il marito. E qui finisce la sua confessione. Con un’ulteriore richiesta, struggente nella sua umanità: che Dante la ricordi, una volta tornato sulla Terra dei vivi. Non vuole essere dimenticata, consegnata all’oblio, dopo che la sua vita è stata così precocemente strappata alla vita vissuta. Pia, anche da anima, compie il peccato più umano che possa esistere: richiede l’eternità, valicando lo spirito e il corpo, il pudore e il dolore: “Ricorditi di me, che son la Pia”. Dante rappresenta l’ultima sua sopravvivenza tra i vivi. E il poeta acconsente; la ricorda in maniera così fuggente e vaga da aver alimentato la leggenda.
E Gianna Nannini se n’è impossessata, a distanza di otto secoli, e ne ha fatto un’opera rock, uscita nel 2008, “Pia come la canto io”, dove si vive la sua leggenda. Pia de’ Tolomei, ricca nobildonna senese, era sposa di Nello de’ Pannocchieschi, ricco possidente della Maremma. Mentre egli è in guerra, il suo migliore amico, Ghino, tenta di corteggiare Pia, senza però ottenerne i favori; così Ghino, volendosi vendicare, racconta a Nello, tornato dalla guerra, che Pia, in sua assenza, lo tradiva. Nello allora, credendo all’amico, fa rinchiudere la moglie in un castello della Maremma: il Castel di Pietra, nel comune di Gavorrano. Pia qui si strugge per l’ingiustizia subita e contrae la malaria, morendo sola e abbandonata. Questa è la storia che, spogliata dei connotati più marcatamente storici, ci viene riproposta oggi da Gianna Nannini, dopo un lunghissimo lavoro durato sette anni, condotto insieme a Pia Pera, autrice di tutti i testi dell’opera: testi forti e dolci, aspri come la gelosia e terribili come la pandemia che incombe tra le anime della Maremma.
La forza musicale è quella tipica della rocker toscana, la leggenda le scorre nelle vene fin dall’infanzia, e deflagra, in queste musiche e melodie che scavano a fondo nell’anima, nel cuore, proponendoci un dramma, una sofferenza, un agitarsi di quei sentimenti e di quelle emozioni talmente umane da essere immutabili nonostante il trascorrere del tempo. Il sogno più grande dell’uomo è sempre concedersi l’eternità, Gianna ce ne racconta un frammento. Con quella solita poesia e genuinità che da sempre la contraddistinguono. I testi, invece, grazie al lavoro di Pia Pera, sono testi altamente poetici, che uniscono suggestioni antiche, medievali a valenze e sapori moderni, contemporanei. Un duro plurilinguismo, con accenni anche al triviale, che richiama la maniera di scriver dantesca, che mai, neanche nel Paradiso, fu timoroso nell’utilizzare parole piuttosto licenziose e furiose.

“Tutti dicono Maremma Maremma”, una terra che soffre e lavora.

Giulio Gasperini
AOSTA – La Maremma è terra contadina. Un luogo faticosamente e ostinatamente sottratto alle acque stagnanti e malariche, bonificato da una palude arida e sterile. La Maremma è terra che conosce il sudore del duro lavoro e sa la fatica della privazione e dell’importanza vera. Venti scrittori italiani, da Lidia Ravera a Nadia Fusini, da Daniela Marcheschi a Clara Sereni, da Giuseppe Pontiggia a Ugo Riccarelli ne raccontano gli abitanti e gli umori, le storie e le sofferenze in venti storie, raccolte nel volume “Tutti dicono Maremma Maremma”, edito dalla piccola Edizioni Effigi di Arcidosso (Grosseto), nel 2010.
I racconti sono tante angolazioni prismatiche che illuminano e colorano una terra da sempre ai margini dell’economia e della cultura italiana ma che alimenta potenzialità immense e dà vita a un’umanità contagiosa e contagiante. Non esiste la Maremma senza l’agricoltura, la coltivazione di viti e ulivi, di ombrosi boschi di castagni e immense distese di dorato grano, di sterminati campi di girasoli e bassa vegetazione che si specchia nel tosco mare. E tutte le storie hanno questi, come setting privilegiati. Giuseppe Pontiggia racconta la storia della scoperta del Morellino, bevuto quasi per caso in una dimessa osteria del grossetano; Guido Conti ci presenta la figura leggendaria di Tiburzi, il più famoso brigante che operava in queste distese alla fine dell’800; sulle leggendarie strade del tufo, con destinazione le splendide Pitigliano, Sorano e Sovana, ci guida Andrea Carraro, mentre Laura Bosio ci commuove con la storia di altre anonime persone, impiegate nell’altra attività che per anni caratterizzò l’economia della zona: l’estrazione di pirite e carbone, sui quali anche Luciano Bianciardi e Carlo Cassola scrissero un’indagine cruda e spietata all’indomani della tragedia di Ribolla che, nel 1954, costò la vita a 43 minatori. Bianca Garavelli ci presenta una delle meraviglie naturali della zona, il vecchissimo Olivo della strega, mentre Carlo D’Amicis dipinge la crudeltà dei rapporti, quando un fraintendimento può costare la vita. In tutti i racconti casolari e poderi, cavalli e butteri, olio e vino, raccontano storie di lotte e giorni da conquistarsi coraggiosamente, uno dopo l’altro, inanellati come grani di un rosario; giorni strappati alla furia del tempo e del lavoro, giorni da riempire e significare con la costanza di mestieri antichi, che si sottomettono al ciclo delle stagioni e che ne assecondano le pieghe, senza pretendere di deviarle o corromperle.
La Maremma è una terra di uomini ruvidi, di duro lavoro, di mani callose; ma anche di occhi chiari, puliti di vento; occhi che si addolciscono al profilo delle colline, che si indorano al sole della sera; occhi che conoscono l’orizzonte ma non lo bramano, contenti di contemplare il limitare del campo, lo scorrere del fosso, il frusciare delle foglie, il maturare di un frutto, l’esplodere di un colpo di fucile. La Maremma è una terra caparbia e ostinata; una terra che sa soffrire e rifiorire. Anche quando l’acqua sale, travolge e distrugge tutto.