“Chi manda le onde”, Fabio Genovesi corre per il Premio Strega 2015

chimandaleondeROMA – Fabio Genovesi, autore di Chi manda le onde (Mondadori), ama definirsi “un tentativo di persona” e così, con la spontaneità di chi riconosce e si lascia guidare dalla propria voglia di stupirsi di fronte alla vita,  affronta anche questo romanzo, scelto da Mondadori per concorrere al Premio Strega 2015. Il viaggio, il mare, quello tanto caro all’autore nato e cresciuto a Forte dei Marmi, fa da sfondo a  Chi manda le onde, un libro ricco di storie e personaggi: una ragazzina albina che ama guardare lo splendore del sole e per vedere ha bisogno di tanta immaginazione, sua madre, un supplente innamorato che si ferma sempre al primo passo, un orfano arrivato da Chernobyl che canta canzoni antiche e un astioso bagnino in pensione. Continua

Lisario o il piacere infinito delle donne: il Seicento, la donna e il piacere.

Lisario_cilentoGiulia Siena
ROMA
– È arrivato solamente quarto al Premio Strega 2014, ma Lisario o il piacere infinito delle donne è un libro che affascina e conquista, anche i più titubanti.

È  il 16 marzo 1640 quando Lisario comincia a scrivere lettere di devozione e dissenso, speranza, preghiere e vita quotidiana rivolte alla Madonna, nascondendole, poi, in una grotta vicino al mare partenopeo. Lisario, la fanciulla dalla voce cristallina divenuta muta dopo una brutta malattia, all’improvviso cade in un sonno profondo che la rende inerme al cospetto della vita. Il suo sonno è una fuga, un modo per ribellarsi alle decisioni di don Ilario Morales, suo padre, e per sottrarsi ai doveri che la sua condizione di femmina, “nata per obbedire, tacere e soffrire” le impone. Lisario è diversa, ma da questo sonno ribelle dovrà pure svegliarsi. Arriva, allora, Iguelmano Avicente, il giovane medico giunto a Napoli dalla Spagna con la volontà di far dimenticare le piccole, ma già chiacchierate, insolvenze professionali vissute in Patria, “per questo era a Napoli, perché qui nessuno ne conosceva i fallimenti”. A lui, al medico venuto da lontano, il compito di svegliare la bella Lisario dal suo sonno.
Comincia così Lisario o il piacere infinito delle donne, il romanzo di Antonella Cilento – giornalista e scrittrice napoletana – pubblicato da Mondadori. Da qui il libro prende una piega diversa: con un piglio quasi scanzonato, affascinante e particolareggiato, l’autrice ci accompagna nelle stanze di Lisario, ci fa guardare il suo sonno e i tentativi disperati di Avicente nel confutare la sua frustrazione di medico. Lo spagnolo osserva quel corpo inerme e affascinante, lo scruta, lo scopre e lo esplora; lo guida nel piacere – involontario e allo stesso tempo voluto. Ma cos’è questo piacere che avvolgeva Lisario e fa impazzire Avicente? È “Una potenza immane, scriveva l’anonimo pagano, capace di smontare palazzi e sradicare alberi. Così si sente la donna quando prova piacere”. Il piacere di Lisario diventa un segreto tra i due e diviene cagione di ossessiva attrazione e studio per il medico: come nasce e cosa nasconde il piacere delle donne? Lisario diventa cavia dei mille quesiti di Avicente, di quei fantasmi e paure che porteranno la “bella addormentata” nelle braccia di un nuovo amore, il pittore Jacques Colmar. La vicenda si arricchisce, così, di sfumature barocche e di passioni travolgenti, mentre sullo sfondo c’è una Napoli divisa fra i moti rivoluzionari, Masaniello e la peste. E il racconto non è ancora finito.

 

Iperbolica, densa e particolareggiata è la storia che Antonella Cilento ci racconta: la condizione della donna – e del piacere della donna – nel Seicento, l’amore, il tradimento e la scienza vengono  trattati con intelligenza e pathos, senza mai dimenticare che ogni buon romanzo storico deve fare i conti con la storia.

“Io non sono ipocondriaca”: la scoppiettante commedia di Giusella De Maria

3Dnn+9_2C_pic_9788804634607-io-non-sono-ipocondriaca_originalAlessia Sità
ROMA
  “Rido di me, tra me. Sono ancora viva e ho intenzione di esserlo ancora per molto.”

“Se nella vostra borsa c’è di tutto, dal gel igienizzante a un beauty che pare un kit di pronto soccorso…” non potete allora perdere il divertentissimo romanzo di Giusella De Maria: Io non sono ipocondriaca, edito da Mondadori. A fare da sfondo alle singolari vicende della simpatica protagonista, maniaca dell’igiene e della perfezione, è la bellissima Sorrento. Nina è una cuoca straordinaria, dirige un’eccellente attività di catering insieme al suo infallibile staff, composto da Lucy, Gigi e Kimmi, ma ha un grosso limite: non ammette la sua ipocondria acuta. Oltre al suo team di lavoro, la giovane donna condivide tutte le sue paturnie esistenziali con l’adorata coinquilina e amica americana Carol e con i due simpatici vicini di casa, il farmacista Lino e l’eclettico Brad. A scombinare la sua buffa routine – fatta di antinfiammatori, antistaminici, antiacidi e assiduo shopping in farmacia – è l’arrivo dell’affascinante chirurgo bolognese, Marcus, giunto nella splendida Sorrento per lavoro. Fra mille peripezie, il brillante dottore tenterà – a suo modo – di aiutare Nina a superare il suo male immaginario. Tra i due si instaurerà subito uno strano rapporto, fatto di equivoci, incontri casuali e bizzarre diagnosi. L’iniziale insofferenza di Nina nei confronti del solare medico, ben presto lascerà il posto alla fiducia, un sentimento talmente forte da rischiare di farla innamorare proprio dell’uomo che ha irriverentemente deriso il suo essenziale kit farmaceutico: ‘Mai senza’. Fra incontri, separazioni, drammatiche scoperte, Nina riuscirà lentamente a individuare la vera cura al suo disturbo psico-fisico e imparerà a esorcizzare le sue paure attraverso la via più difficile e dolorosa, ma allo stesso tempo necessaria per poter ritornare alla vita.
Con uno stile brillante e un’ironia disarmante, Giusella De Maria ci regala una commedia romantica che non fa bene solo al cuore, ma soprattutto all’umore. Fra presunti attacchi di TIA (ischemia transitoria) e improvvisi shock anafilattici, Nina e la sua inseparabile compagnia di amici vi farà ridere a crepapelle, ma anche commuovere, dalla prima all’ultima pagina.

“Il signore è servito”: storia di un ménage-à-cinq.

Il signore è servitoGiulio Gasperini
AOSTA – È la storia di un ménage-à-cinq, questo “Il signore è servito” di Barbara Alberti, edito nel 1983 da Arnoldo Mondadori Editore. Un ménage-à-cinq, in realtà, più complesso di quanto la definizione non faccia intendere. Perché oltre alla sfera sessuale, piuttosto sublimata, presunta, comunque descritta in sottrazione, ci sono masochismo e sadismo, violenza e sottomissione, sublimazione e affascinazione, malia e magia.
A raccontare la vicenda è il “servitore”, alla maniera di un Leporello contemporaneo che tiene aggiornato il catalogo delle conquiste del suo padrone. Un servo fedele, che solo in vecchiaia decide di dedicarsi alla stesura dei suoi ricordi, per non farli finire nell’oblio e rassegnarli alla dimenticanza. Il servo, in realtà, è da sempre innamorato del padrone, del grande attore Ruggeri; ma non ottiene nulla da lui, se non la possibilità di rimanergli vicino occupandosi dei suoi affari. Assistenza che ben presto diventa morbosa curiosità, quella un po’ tipica di tutti i maggiordomi. Grazie alle sue capacità di voyeur, il servo riesce a non farsi scappare (quasi) nulla di quello che accade nella villa. E (quasi) nulla della complessa storia di amore-persecuzione che tra quelle mura si squaderna prepotente.
Il signore è omosessuale, con una predilezione per i giovani ragazzi. Che arrivano in grande quantità, nelle sue stanze. Ruolo di primo piano lo avrà il ragazzino Tom, che tiranneggia il signore e lo piega a tutti i suoi progetti. Ma poi entra in scena “la russa”, che ha un marito tiranno e geloso. Lei si innamora di Tom, ma Tom si diverte a non amarla, soltanto per tenerla in ostaggio con l’idea di un amore che sia solo tensione attrattiva ma mai compimento dell’atto. E, sullo sfondo, si muove Enrico, il nuovo “passatempo” del signore, che tutti considerano una nullità ma che sarà il più potente tra tutti. Perché amerà tutti, dell’amore più crudele, che è quello che si utilizza per usare gli altri. E poi c’è il servitore, sempre di sottofondo, che si concede le sue scappatelle, le sue imboscate d’amore, ma che segretamente è attratto da tutti, e ne fa pensieri impuri. Ma non c’è nulla di impuro, in questa storia. È un percorso di nobilitazione e sublimazione degli impulsi più primitivi e primordiali, che nella maggior parte dei casi gli uomini reprimono e finiscono per ammalarsene.
Barbara Alberti è scrittrice che ama raccontare l’amore nelle sue sfaccettature più recondite, anche più spaventose. Non la fenomenologia più diretta ma quella più abissale, più ripida, più oscura. Converte le atmosfere più prevedibili in mosaici non disordinati ma inusuali, creando nel lettore uno straniamento che infierisce, crudelmente, sul buonismo della pianificazione preconcettuale. Un gioco semplice, che lei riesce a portare avanti con estrema perizia e abilità, e con uno sguardo divertito, con un sorriso ironico sulle labbra, come a dire al lettore “guarda un po’ cosa ti combino adesso!”. Ed è questo, senza dubbio, il motivo che ce la fa amare.

“Donna di piacere”, nel dare e nell’avere.

Giulio Gasperini
AOSTA – Non c’è mai luogo migliore al mondo di quello al quale si sente di appartenere. E Chiara, dal nome che splende, scovò in un sogno al limite del mistico la casa nella quale rifugiarsi e compiersi. “Ella era stata una signora, divenne una puttana, incontrò un angelo”: ecco il percorso che Barbara Alberti, nel suo romanzo “Donna di piacere” (Mondadori, 1980), tratteggia per questa donna che si concede, ogni tanto, il peccato del misticismo.
Il bordello di Madame Goullon è un luogo di piaceri, dati e avuti. È un santuario dell’amore, dove gli uomini sanno che possono sempre trovare qualche soddisfazione ai loro desideri. Ma è anche un luogo dove le ragazze, dalla Nichilina a Elvira alla Damina, praticano il mestiere più antico del mondo non perché costrette, obbligate, ma solamente perché pure amanti. Non si tratta di un lavoro, per loro, ma di una missione, di una vocazione: rendere felici gli uomini, alleviare un po’ le loro sofferenze. Ovvio, qualcheduna sogna ancora il vero amore, il principe che finalmente un giorno giunga e le sposi, le conceda il diritto di far parte della società, di poter finalmente, anche loro, avere una parte di socialità. Ma il desiderio rimane quasi sempre vano; sicché il bordello è anche asilo, luogo di ricovero e di salvezza per ragazze che fuggono situazioni familiari insostenibili o che si muovo spinte da un bisogno irresistibile di altro. Così come fa Chiara.
Chiara era una signora, sposa di un uomo di nome Ottiero. La promessa tra loro era perfetta: “Staremo insieme, solo finché sarà perfetto”. Nessun altro obbligo, nessun’altra regola. Solo quella. Andò tutto bene, fino al giorno della rottura, quando la famiglia, “l’antico strumento di tortura”, cominciò a soffocare, a opacizzare l’orizzonte. Sant’Amara, di notte, le apparve e le disse di fuggire nella casa della sua visione: quel luogo era proprio il bordello di Madame Guillon, e lì Chiara si rifugiò, cominciando a fare la puttana per gioco, un po’ per passione, ma anche per curiosità. Ed è lì che incontrò un angelo, l’omosessuale Emilio, che lei aiutò ad affrancarsi dal morboso maschilismo del padre ma che non seppe trattenere a sé quando lui rischiò di correre incontro a morte certa. Ben presto Chiara si sentirà poco adatta al mestiere: non tutte riescono a essere delle brave puttane e c’è bisogno di passione, oltre che di perizia e bravura. Sa, però, con la stessa chiarezza di prospettive, che oramai non potrà mai lasciare quel luogo: il suo castello, il rifugio dei suoi giorni, la difesa contro le meschinità del mondo. E troverà un altro scopo nella sua vita…
È una favola, quella di Chiara, quella di tutte le ragazze di Madame Goullon. E Barbara Alberti la racconta con la sua solita grazia, con l’attenzione alle sfumature della natura femminile, con un’ironia garbata e mai volgare, con un sorriso sempre fiorito sulle labbra. Il genio dell’Alberti è incontenibile. La sua perizia nel saper essere leggera inarrivabile.

Il tempo nemico che nulla restituisce.

Giulio Gasperini
AOSTA –
L’ultima edizione è del 2002, per Mondadori. Ma le “Poesie” di Dario Bellezza mancano da troppo tempo dagli scaffali delle librerie. Una delle voci più potenti e spregiudicate della poesia italiana del Novecento, Bellezza ha sempre vissuto straziato dal conflitto tra la “vita tempesta” (e la sua declinazione dell’amore) e la morte, complice anche una malattia a cui lui si è condannato (Dario, “vittima e carnefice” di sé stesso) e che l’ha lentamente consumato nel suo “vecchio corpo rotto da malattie”.
Dario appartenne al genere degli uomini che vivevano di notte e che nella notte trovavano la loro unica missione e il loro unico compimento: “Ogni alba è una resurrezione, ritorno / alla pluralità, ma noi abitatori della notte / non arriveremo mai all’amore / della nostra decadenza!”. La solitudine è la condizione sostanziale che si materializza a ogni livello: “Addio. Tradiscimi con chi / ti pare”; persino a quello artistico (“Morta è la poesia”). La solitudine è, inoltre, la condizione che tesse la “pigra quotidianità”. La vita è tiranna, il vivere è il “suicidio più lento”; ma la vita non è altro che azione quotidiana dopo azione quotidiana, in un ritmo soffocante e asfissiante: “Abbracciato all’enigma / del futuro chiudendo in povertà i giorni / tutti uguali con il cuore a registrare / su un misero giaciglio in una casa / presa in affitto i puerili battiti / d’amore che mai più proveremo, così / sentimentali, così audaci nello sperpero / della pubblica energia”. È un concetto, questo, che in Bellezza si concreta ripetitivo e quasi ipnotico, straziante nella sua ineluttabilità: “Ma il quotidiano insiste […] / […] / Insiste così / il quotidiano […] / Insiste dunque il quotidiano […]”.
Ineluttabile e inappellabile è principalmente la morte: “Ché solo morte / esiste e a lei m’affido”. I rapporti di Bellezza sono sempre stati di intenso amore, nonostante la consapevolezza di essere un peccatore, perché “il giusto non aspetta certo / a Sodoma”. La sua fine tragica fu presentita: “Ascoltavo la morte nel mio sogno / […] / Allora mi ricordai di te e mi svegliai. / La morte mi era a lato. La notte / riempiva la stanza di silenzio. / Alla finestra la luce della luna. E // nel mio cuore un presentimento”.
La vergogna più grande, pel poeta, è quella di non aver vissuto, di aver fatto trascorrere i giorni tra le dita, come sabbia di clessidra; adesso non rimane che stringere l’aria: “Una vita sprecata. La più pura di tutte / fu quella addormentata che non vissi / da vivo, ma ritornando a casa, già adulto / intravidi nello specchio di tutte le brame / […] / Fermati tempo, restituisci il passato!”. La confessione dell’uomo (prima ancora del poeta) è straziante, senza appello: “Ho paura. Paura di morire. […] / Devo prendere atto di questo: / che si è un corpo e si muore”. Ma è la morte che, segretamente, e paradossalmente, ha reso l’uomo un poeta: “Ora alla fine della tregua / tutto s’è adempiuto; […] / Così / senza speranza di sapere mai / cosa stato sarei più che poeta / se non m’avesse tanta morte / dentro occluso e divorato, da me / orrendo infernale commiato”.

“Tre racconti”: l’acqua fresca che si legge.

Giulio Gasperini
ROMA – In afose serate d’estate come quelle che stiamo vivendo non ci potrebbe essere lettura più adatta. Lo stile di Piero Chiara è esplosivo, divertito e divertente, quasi una risata tramutata in sillabe che si rincorrono e si legano. I “Tre racconti”, editi da Mondadori nel 1974, sono un trittico sorprendente di “disponibilità narrativa”: si spazi, infatti, da un racconto di astrusa indagine storica, a uno di analisi caratteriale a uno di pittoresco dipinto di costume e società. E nessuno dei tre fallisce, ma ognuno di loro ha il tocco decisivo e fondante dell’esperimento riuscito; e difficilmente migliorabile.
Sono tre racconti affilati di sottile ironia e additanti una grottesca valutazione del reale, perché non rinunciano – ma, anzi, proprio lì insistono – scherzare sugli elementi più assurdi e contraddittori delle vicende, quelli più ironici, quelli che sollevano la punta delle labbra ma non fanno esplodere in risate isteriche. Il sentimento, insomma, che anche per Pirandello era il più difficile da suscitare, ma parimenti il più utile. Sono tre racconti, tre favole limpide e fresche, come acqua di nevaio. Sono tre esperienze di narratività che meravigliano e stupiscono, che incitano a girare pagina e continuare a leggere, e a scoprire le parole.
Nel primo racconto, “Sotto la sua mano”, si parte da un’indagine epigrafica, che nasce dalla consultazione di polverosi volumi in altrettanto polverose biblioteche: cosa ha fatto di così straordinario il Procurator Augusti Tito Cornasidio? Nulla, tranne uno splendido ritrovamento: una parte del mitico e leggendario Colosso di Rodi, la statua considerata una delle Sette Meraviglie del mondo antico. Ma la parte rinvenuta è particolare, imbarazzante: è il gigantesco membro della statua, che Tito Cornasidio considererà sempre come la fonte della sua fortuna. Ma lui muore, e la statua scompare, dimenticata dall’umanità, fino al giorno in cui non sarà di nuovo scoperta e, nell’esigenza di avere ombra per costruire una imponente statua di San Carlo Borromeo, sarà fusa e utilizzata per completare le parti mancanti del santo. Ed è ovviamente divertente pensare come un membro possa diventare costituente della santità.
La storia di una banca – che tanto ha da insegnare anche nei nostri appena iniziati anni Dieci – è la trama del secondo racconto: la storia de “La Banca di Monate”, infatti, diventa paradigmatica della società italiano degli anni appena precedenti l’affermarsi del Fascismo nella pacifica cornice del Lago d’Orta, luogo periferico ma polmone pulsante di iniziativa privata e industriale. L’ultimo racconto, invece, è un’analisi di un carattere, quello de “Il giocatore Coduri”, che muove i suoi passi nel turbine della storia e finisce per esser sempre ammantato di mistero, fino al giorno in cui muore e, anche senza di lui, non cambia nulla per nessuno.

In viaggio con… Alessandro Aresu

ROMA – Bentrovati all’appuntamento di “In viaggio con…”: la nuova rubrica di audiointerviste, che anima il nostro Canale Youtube.

Antonio Carnevale e Massimiliano Augieri, due navigati e affascinanti speaker radiofonici, intervistano per noi gli autori delle più importanti novità editoriali.

Questa settimana è ospite Alessandro Aresu con il suo successo “Generazione Bim Bum Bam”

Per ascoltare l’intervista cliccate su questo link:

Intervista a Alessandro Aresu su CHRONICAtube

Oppure accedete direttamente al Canale Youtube, dal video a destra. BUON ASCOLTO!

 

Alessandro Aresu

Generazione Bim Bum Bam

Perché gli italiani passano il tempo a darsi degli imbecilli a vicenda? Per via di quello che è successo negli anni Ottanta.”
Alessandro Aresu è nato nel 1983, è cresciuto negli anni in cui la televisione commerciale è diventata un fenomeno di massa e i cartoni animati uno dei miti fondativi dei ragazzi di allora, oggi giovani adulti in una società gerontocratica che non solo offre poche possibilità di esprimere i loro talenti ma che, soprattutto, non riconosce o sottovaluta la “generazione Bim Bum Bam”. Nati tra il 1975 e il 1990, i suoi rappresentanti sono cresciuti con Uan e BatRoberto, mentre la vecchia Italia si dibatteva tra debito pubblico e stragi di Stato e la Cina cominciava il suo travolgente processo di trasformazione.
Per raccontare la storia di questa generazione ci sono due alternative: “Una è giocare e fare sul serio allo stesso tempo, e l’altra è pensare di essere un popolo di imbecilli e darci degli imbecilli a vicenda. La prima è divertente, la seconda inutile. Questo libro sceglie la prima strada per sbarazzarsi della seconda”. Domanda precisa: Cosa è successo nel 1981? Risposta precisa: Provano ad ammazzare Reagan ma anche (non secondario) Cristina D’avena e Alessandra Valeri Manera si incontrano a Bologna e nasce Bim Bum Bum.
Domanda precisa: Quanto duravano i discorsi di Aldo Moro?
Risposta precisa: Infinite sigle dei cartoni animati. Domanda precisa: Che cos’è la cei?
Risposta precisa: La Certezza di Essere Incapaci di risolvere qualunque problema.
Domanda precisa: Quanto duravano i discorsi di Deng Xiaoping nel 1992? Risposta precisa: Due sigle dei cartoni animati. Dopo, la gente doveva tornare al lavoro.
Domanda precisa: Se Bim Bum Bam è finito come facciamo a riprendere il suo spirito?
Risposta precisa: Internet.
Giocando attraverso 131 “domande e risposte precise “, Alessandro Aresu ci svela cos’è stato sul serio il “trentennio perduto”, dal 1981 a oggi, attraverso un racconto ricco di ironia pungente e leggerezza, ma anche capace di intuire acutamente le ragioni della nostra decadenza. Passando per Cristina D’Avena, Travaglio, la Prima Repubblica, la Cina, Lady Oscar, Berlusconi, Prodi, Max Pezzali, Scalfari, Mattei, Dagospia e tanti altri, scopriremo, giovani e meno giovani, che “molti dei nostri problemi derivano dal mancato riconoscimento dell’importanza della Generazione Bim Bum Bam. Immersi in questa sottovalutazione, dimentichiamo i sogni e, messi davanti alla realtà, non sappiamo che fare”.
Un libro che costruisce in maniera sorprendente l’immaginario, lo stile e l’universo culturale di una generazione mal rappresentata dalle analisi del censis: circa dieci milioni di giovani italiani, superficialmente bollati come “bamboccioni”, che rappresentano invece una collettività più viva che mai, oggi cruciale per il futuro del nostro paese. (Mondadori, 2012, € 17,00)

Quando la legge assolveva le coscienze per “Un delitto d’onore”.

Giulio Gasperini
ROMA – Non sono passati molti anni da quando la legge serviva per assolvere le coscienze nei casi di delitti d’onore. Un uomo si scopriva “tradito” e la legge gli permetteva di rivalersi sulla donna “peccatrice”. Che poi l’uomo fosse un “padre-padrone” nessuno se ne curava: nessuna legge tutelava la donna dai capricci di un machismo violento e cieco. Giovanni Arpino, in questo suo romanzo, intitolato con scarna evidenza proprio “Un delitto d’onore” (Mondadori, 1960) per non farci mai perdere d’occhio l’inderogabile oggetto di analisi, offre una testimonianza letteraria di quello che significava macchiarsi di un tale crimine.
Gaetano Castiglia, giovane medico ostile al progresso e che preferisce condurre una vita sonnacchiosa nella sua Avellino piuttosto che proseguire il suo brillante futuro negli States, si scopre tradito dalla donna alla quale aveva destinato attenzioni e premure, finalizzate a una sua rieducazione e a un suo innalzamento sociale e (nelle intenzioni dell’uomo) finanche morale: come se vestirsi bene e saper parlare fossero garanzie d’integrità d’anima. Poco importa che la donna sia stata oggetto di violenze altrui. Poco importa se si sia fidata di un altro maschio che le ha promesso l’amore e le ha lasciato solamente il disincanto della violenza. (Le vagine ancora non parlavano: lo faranno molto dopo, con Eve Ensler). Quel che interessa il maschio legittimo è il sangue dell’imene; a macchiare un lenzuolo bianco da esporre come prova di virilità (per lui) e di sottomissione (per lei). Castiglia consuma il primo atto carnale con l’ansia di guardarsi, subito dopo, e di scoprirsi addosso le tracce della verginità della femmina. Ma non le trova e rimane sbigottito, spaventato, incredulo di fronte alla presa in giro, al tradimento evidente. Il suo esame di coscienza è breve e indolore: sa già quel che è giusto fare e lo compie con una freddezza da chirurgo, sgozzando la donna nel letto: come fosse un altare di sacrificio, gesto estremo verso qualche improbabile divinità.
Poi Castiglia scompare; e compare la legge, l’avvocato che accetta di difenderlo e sa che, dimostrati i fatti e reso evidente il “tradimento” della donna (offertasi come vergine ma già defraudata d’innocenza e serenità), nessuno lo condannerà e, anzi, gli offrirà modo di emendarsi e auto-assolversi. L’unico pericolo è la coscienza dell’uomo stesso, dell’assassino (“Ma io ho ucciso. Io, io solo. Voi venite a farmi la parte. Avete ragione, dovete scusarmi. Ma io solo ho fatto quel che ho fatto”); ma la legge sa come agire, sa come confondere colpa e giustizia, sa come crearsi giustificazioni fittizie, perché peggiore della condanna è solamente il rimorso (“Niente commedie. Rimorsi no, va bene? L’amore oltre la morte, e così via, benissimo, ma non tra noi, va bene? Capisci? In aula io non voglio pazzie, lamenti, pianti…”).
La narrazione di Arpino è di un estremo lirismo, severo nella lingua e nelle immagini, così come severo vuol essere l’insegnamento. Non c’è nessun giudizio, nascosto tra le sillabe. Ci sono soltanto immagini e parole crude, dure, pesanti come pietre. E come pietre vengono scagliate, a dimostrare che tutti noi abbiamo peccati. E che alcuni peccati, indipendentemente da tutto e da chiunque, non posson esser autorizzati col beneplacito della legge.

“Eurodeliri” targati Giorgio Forattini

Stefano Billi

Roma – Ogni anno porta con se nuovi appuntamenti, nuovi eventi, ma anche belle tradizioni che si ripetono da tempo e che vale la pena possano ripetersi ancora per molto.

Ad esempio, i libri di Giorgio Forattini sono un piacevolissimo appuntamento letterario che gli amanti della satira, e non solo, non possono proprio perdere.

Perciò, “Eurodeliri” – uscito da poco in tutte le librerie per le edizioni Mondadori – firmato appunto da Giorgio Forattini, è un condensato di umorismo, simpatia e arte che non ci si può davvero lasciar scappare.

Tra le pagine del libro, infatti, spiccano numerosissime tavole che aiutano a far sorridere sugli eventi allegri e tristi della storia recentissima di questo stivale nostrano, sempre più avvolto dal gelo e dalla crisi.

La matita del mirabolante vignettista disegna così le facce di quei personaggi che caratterizzano l’attualità e proprio attraverso il tratto inconfondibile dell’artista romano prendono vita caricature capaci di raccontare più di ogni altro editoriale da carta stampata.

Insomma, Forattini è un narratore d’Italia, fotografo puntuale e raffinato di ciò che accade e del perché accade.

In fin dei conti, satira vuol dire ironizzare e polemizzare con astuzia sottile, perché forse è tra un sorriso a pieni denti che trovano spazio le verità più sincere.

Sicuramente “Eurodeliri”, col suo sguardo spiritoso sulla politica e sui fatti quotidiani, sarà una deliziosa lettura per tutte le età, da gustare ripetutamente per la sua freschezza e vivacità.

Lunga vita alle vignette!