Uri Orlev, avere 13 anni nel campo di concentramento

Marianna Abbate
ROMA – Avere tredici anni è di per sé abbastanza complicato. Viviamo le nostre tragedie personali: ai maschi cambia la voce e le femmine cambiano significato. Avere tredici anni è un po’ una maledizione: pensiamo di sapere già tutto, ma nessuno ci crede.

Avere tredici anni ed essere un poeta è terribile. Gli amici ci prendono in giro, i grandi ci guardano con quell’indulgenza che odiamo.

Trovarsi in un campo di concentramento è inspiegabile al profano. Il campo è un posto fuori dal tempo, fuori dallo spazio. Non è solo una prigione per il corpo: il campo è un ladro di anime. Il campo ci trasforma, ci rende mostri ai nostri stessi occhi.

Tredici anni e il campo di concentramento non sono due cose che vanno d’accordo. A tredici anni siamo troppo assorbiti dalla nostra tragedia interiore per comprendere appieno quello che accade intorno a noi, soprattutto se siamo dei poeti.

E se l’uomo adulto non riesce a cantare col piede straniero sopra il cuore, tra i morti abbandonati nelle piazze, nel poeta bambino vince la creatività. Non solo: si tratta di una creatività vivace.

I versi del tredicenne Uri Orlev non sono disperatamente tristi.  Lo spirito fanciullo desidera sfogare la propria creatività, nonostante tutto. Uri riempie il suo preziosissimo taccuino di versi, ricopiati con attenzione dall’asse di legno usata per la brutta copia. Oggi queste poesie sono pubblicate in italiano ed ebraico da Giuntina, nel piccolo tomo “Poesie scritte a tredici anni a Bergen- Belsen (1944)”. 

E’ evidente il contrasto tra le rime semplici e la scrittura infantile, in contrapposizione alle tematiche gravissime e ad una innaturale autocoscienza. Il bambino cresciuto troppo presto, non riesce a vedere con nitidezza tutti i significati della realtà che lo circonda, tuttavia ha sviluppato un ottimo senso dell’osservazione. La trasposizione poetica della realtà vista con gli occhi curiosi di Uri, assume un’ironia involontaria quasi grottesca. Lo sguardo invidioso del ragazzo che vede gli altri detenuti grattare il fondo della pentola, mentre lui stesso cerca di frenare i morsi della fame con le rimanenze di quell’educazione, che una volta aveva un significato totalmente diverso, ci colpisce al cuore. Perché quei volti scarni, quelle teste rapate, quei numeri sul braccio tornano ad avere un nome, una storia.

Queste poche poesie non hanno un gran valore letterario. Come vi ho accennato le rime sono semplici e la struttura basilare. Le metafore, poi, non sono proprio azzeccatissime.

Quello che è interessante è il significato socio-antropologico di questi testi. Se a scrivere una poesia sul lager fosse stato un adulto, la parola tragicommedia nel titolo della poesia ci avrebbe indignati. L’invidia stessa ci avrebbe indignati.

Nella poesia “E la vita va avanti” troviamo un punto di vista molto interessante. Il piccolo poeta contrappone la quotidiana banalità delle conversazioni, alternandola anche graficamente verso per verso, agli orrori della guerra. L’intenzione di Orlev era quella di mostrare quanto il desiderio di sopravvivenza, il bisogno di parlare di banalità, permettano all’uomo di estraniarsi dagli avvenimenti che lo circondano. Questa sagace e intelligente osservazione avvicina i suoi versi a quelli della poetessa premio Nobel Wislawa Szymborska. La stessa poesia è stata poi corretta e sistemata da un compagno di prigionia con più esperienza.

Effettivamente l’opera corretta, mostra appieno il potenziale del poeta.

 

Orlev da grande ha fatto lo scrittore per ragazzi, scrive prevalentemente in ebraico, ma queste prime poesie sono state scritte in polacco. Le sue opere sono state insignite, tra l’altro con il premio Andersen, il riconoscimento più alto per un autore di libri per l’infanzia.