“La ragazza scalza” che resisteva in montagna.

Giulio Gasperini
ROMA – Combattere sulle montagne è sempre stato difficoltoso. Un vero e proprio calvario. Uno sforzo aggiuntivo in un momento in cui tutto ero rischioso. Sulla coltre di neve, ogni orma era una traccia compromettente, ogni rumore era amplificato come diventasse un urlo, un grido che inficiava ogni nascondiglio e rovinava la vita. In montagna, però, ugualmente si combatté e si resisté. Saverio Tutino fu commissario politico della 76° Brigata Garibaldi nella zona di Ivrea; e poi fu scrittore e narratore. Conobbe i personaggi protagonisti della resistenza tra Valle d’Aosta, Canavese e Biellese, e li raccontò in una serie di racconti brevi, schegge di azione e di ricordi, dal titolo “La ragazza scalza” (Einaudi 1975).
Vengono raccontate le ore calme, quelle che seguono le azioni di guerriglia; vengono raccontati i riconoscimenti, le tangenze delle vite, le occasioni di incontro. Sono squadernate le ore nelle quali si mescolano “vino e sentimenti” e nelle quali i personaggi si palesano per quello che veramente sono, con le loro debolezze e i loro vizi, ma anche le virtù e i piccoli gesti che, dimessi e modesti, edificano un “uomo”. Sono narrate quelle “ore calme”, che rallentano dopo la troppa vita e le emozioni che infiammano e stordiscono, che scontornano e sconfinano nella Storia. Quella Storia che la Morante aveva così bene rappresentato: distante, distaccata, indifferente agli uomini. Ma in Tutino c’è una consapevolezza diversa, una visione cordiale: lo scrittore ha simpatia per l’uomo, per i suoi sforzi, e qualche volta gli regala persino la consolazione di un premio, di una vittoria. Non esiste soltanto la sconfitta, per il giornalista: c’è anche la possibilità che l’ideale (e l’illusione) si concretino e prendano forma e sapore.
Incantevole il ritratto della partigiana Aurora Vuillerminaz, conosciuta come Lola. Aveva soltanto 22 anni quel 15 ottobre 1944 quando, catturata dai militi del battaglione fascista IX Settembre, fu uccisa con un colpo di rivoltella alla tempia, presso il cimitero di Villeneuve. Era una staffetta; stava rientrando dalla Svizzera e conduceva con sé cinque fuoriusciti (“un poeta, un operaio, un dottore in medicina”). Tutino ce la presenta come “la moglie ideale di un vero partigiano: era bella e tutti se lo dicevano: ma dalla sua bellezza era escluso ogni gioco sottinteso o malizia. Non doveva essere semplice innamorarsi di lei; prima di tutto bisognava misurarsi col suo carattere”.
Tutti i personaggi, questi nomi che non sono semplici nomi, ma volti e storie anonime, non si domandano se saranno ricordati o amati, in futuro; se le loro azioni saranno prese a modello, se i loro colori esploderanno ancora e quali cieli coloreranno. Sanno per atavica legge di natura che il loro contributo aiuterà i loro discendenti, che siano figli, nipoti o perfetti sconosciuti, magari persino avversari: “Discussero un poco, e poi ognuno di quelli che avevano partecipato all’azione riprese il racconto delle cose viste da lui e così, come sempre, ci si rese conto che la storia è fatta da tutti: ognuno, muovendosi, ci mette qualcosa di suo”. È la scrittura, poi, che li eterna; e che non li fa scolorire.