“Il gelo dentro” e la fatica di lottare col tempo per ricostruire sé stessi

Giulio Gasperini
ROMA – Lucide e spietate sono le lettere di Natalia Berla (“Il gelo dentro”, Archinto 1991), ragazza estranea alla letteratura ma che con la sua esperienza ci dimostra come le parole, quando potenti, trovano sempre la capacità di diventare arte. E la vita, per l’arte, è sempre la fonte più genuina, la più fresca e inesauribile, la più sorprendente e incalzante. Natalia non ebbe l’intenzione di scrivere per esser ricordata; lei cominciò a scrivere per salvarsi. O meglio, per accompagnare e sostenere il suo cammino di rinascita. Sicché la scrittura è rozza, spontanea, a tratti naif, addirittura in certi momenti troppo infantile per una ragazza della sua età. Ma è genuina, trasparente; non conosce orpelli né ricatti. È fresca perché Natalia stessa si presentò così, scrivendo con naturalezza ai suoi familiari e amici – lontano il sospetto di poter essere, un giorno, pubblicata e fatta conoscere al mondo intero. Natalia alimenta, nelle lettere, la propria interiorità più segreta e intima, e si comunica senza remore né limiti, non si vergogna né si limita, ma squaderna sé stessa con tutta la potenza di cui è capace e con tutta l’immediatezza che la sua lingua scarna e ispirata le concede. Come se stesse “pensando ad alta voce”, o “chiacchierando in un pomeriggio di luglio”.
Le lettere ci comunicano tutta la sua gioia dell’aver ritrovato una nuova rotta; riscopre la “quiete” alla quale così tanto, inconsciamente, anelava. Il soggiorno a San Patrignano le pare “una piacevole ‘infanzia’ come quando sei in vacanza con tutti gli amici”. La vive come un’opportunità per non stancarsi di sé, per darsi un’opportunità che gli altri le hanno già negato. Si scopre soddisfatta nell’ingrassare, nel lavorare in biblioteca, nell’insegnare ai bambini, nel poter mettere a frutto la sua conoscenza delle lingue, che una madre distratta e incostante nell’affetto le impose di imparare. Si sorprende, Natalia, a meravigliarsi delle piccole cose, dei delicati dettagli di una tiepida giornata, di una luce a sera indora il mondo, come solo in Italia può succedere. Si carica di ottimismo, di voglia di fare, di passione del lavoro: tutti atteggiamenti che, nella sua vita precedente, quella dominata dalla “piaga” dell’eroina, lei aveva ignorato di poter avere.
Ma allora perché non bastò? È questa la domanda estrema, alla quale non riusciamo a rispondere, alla fine dell’epistolario. Ci rimane l’ovvio sospetto che non fosse così celeste, il suo orizzonte; e che non fosse mai riuscita a dissipare definitivamente le nuvole che le adombravano il sole. Alla madre si firmava “tua figlia che spera”. Ma ben presto anche San Patrignano diventa una prova difficile, sofferta, per una donna che ha paura di non guarire mai, dal “carattere votato alla tristezza”, e che non ha più tempo “di guardare le colombe sui tetti”, come faceva mesi prima. Scrisse che San Patrignano le aveva dato “nuove ali”. Ma non le bastarono; e l’ultimo volo fu breve.