“Un uomo finito”- si è un po’ vecchi a trent’anni

Marianna Abbate
ROMA – E’ qualche settimana che mi porto dietro Un uomo finito di Giovanni Papini, tanto da stimolare la curiosità di mia sorella che mi ha chiesto candidamente se trattasse di Berlusconi. No, non tratta di Berlusconi, anche se potrebbe tranquillamente farlo, dal momento che l’argomento principale sono le manie di grandezza. L’edizione Vallecchi in mio possesso rientra pienamente nei canoni della consueta rubrica vintage della domenica di Chronicalibri, in quanto risale al 1958 e l’ho acquistata su una bancarella di Portaportese.

Veniamo dunque a noi. Giovanni Papini fu tra i fondatori della rivista Leonardo nel 1903, con Prezzolini e Vailati. Si distinse per la sua saggistica filosofica e per le polemiche con Croce.

La sua mancata fama letteraria ai nostri tempi, è probabilmente legata alla sua adesione al fascismo- probabilmente più formale che ideale.

Un uomo finito risale al 1913 ed è uno scritto autobiografico. Papini cerca disperatamente di raggiungere le vette artistiche di Shakespeare e Alighieri, per poi rimanere deluso di non essere riuscito a raggiungerle.

Il libro è composto da una miriade di capitoli, che si dipanano in parti, come in una partitura, andante, appassionato, solenne, tempestoso… Una struttura interessante anche dal punto di vista stilistico. Eppure la lettura non è facile, e mi trovo d’accordo con alcune recensioni che lo vedono più vecchio di qualche decennio rispetto agli scritti di Pirandello.

Rimane tuttavia un libro molto interessante, che ci regala un ritratto dell’Italia del primo Novecento, un po’ polemico e deludente, dandy e annoiato.