“Che cosa ti aspettavi?”

Dalila Sansone
GRAZ – È la domanda che Stoner scandisce ripetutamente alla fine del romanzo, la domanda che sa non appartenergli per sé stesso o per la sua storia bensì perché arrivato al momento di confrontarsi con la vera consapevolezza. “Stoner” di John Williams è un libro pubblicato negli Stati Uniti nel 1965 e edito in lingua italiana da Fazi editore solo quest’anno. È un crescendo eccellente che annaspa nella parte iniziale, languendo in una grigia monotonia, quasi che la vita riflettesse il colore degli occhi di Stoner, dove l’emozione è relegata a un balenare improvviso quanto effimero, un fulmine la cui rapidità fa dubitare persino della sua esistenza. Ma poi accade qualcosa, accadono tanti qualcosa, e il sentore di fallimento, mai pronunciato, mai paventato, si dilegua e dalle scale di grigio emergono i colori, emerge la luce che accompagna espressioni piene dell’esistenza di uno zelante professore della Columbia University.
Ma non esistono i lieto fine, non esistono le morali da favole riduttive perché la realtà è molto più complessa e anche la felicità sa che prima o poi la sua consacrazione passa per l’abdicazione. E così la luce torna a scivolare in quei toni di grigio che non sono metaforici ma vere descrizioni di ambienti e colori; compare il senso di vuoto nello spegnersi della passione, di qualunque passione, che ha la conseguenza devastante di vanificare tutto anche ciò a cui non è apparentemente collegata. Poi ritorna il quotidiano, ritornano i ruoli e accade anche che l’amarezza scuota e sia la spinta a opporsi a un certo fluire della vita che appare inutile ma i risultati “sono solo vittorie ottenute con la noia e l’indifferenza” e non cambiano niente.
Forse nessun dettaglio è davvero rilevante e a quelli che abbiamo ritenuto tali, e ai quali si è stati costretti a rinunciare, la attribuiamo noi l’irrilevanza nel tentativo di farne la radice del distacco prima dall’emozione, poi dalla memoria. È un modo di inscenare l’esistenza, portare avanti il teatro della propria vicenda personale, guardando avanti e evitando di voltarsi indietro nella convinzione imposta che non ci sia niente da ritrovarci. Tutto questo fino a quando proprio dall’osservazione di un dettaglio, al termine di una vita trascorsa dagli anni venti al secondo dopoguerra inoltrato, è l’analisi di una presunzione di fallimento (questa volta evocato) che spinge a farsi quella domanda – Cosa ti aspettavi? –. La risposta sta nella consapevolezza del peso dell’accumularsi di quei dettagli. “La coscienza della sua identità lo colse con una forza improvvisa, e ne avvertì la potenza. Era se stesso e sapeva cosa era stato.”
Il merito di Williams e di aver descritto un’esistenza anonima (potentissima la frase breve, concisa, che segnando un passaggio della storia di Stoner finisce col descriverne profondamente l’animo: “Imparò il silenzio e mise da parte il suo amore”) lasciandola sempre tale con una prosa assolutamente lontana dall’esistenzialismo fine a sé stesso. La lingua racconta in maniera semplice, un semplice che sa di naturale, a volte quasi di inevitabile, divagando solo nello spazio lasciato all’erudizione a sottolineare la distanza tra l’esistere, la vita vissuta di un uomo, e i tentativi di volerla forzatamente ricondurre a delle categorie. Tentativi che non ne esauriranno mai comunque la comprensione e che troppo spesso finiscono per distogliere l’attenzione dall’aspetto più dirompente di quelle vite vissute: l’unicità.

Informazioni su Giulio Gasperini

Laureato in italianistica (e come potrebbe altrimenti), perdutamente amante dei libri, vive circondato da copertine e costole d’ogni forma, dimensione e colore (perché pensa, a ragione, che faccian anche arredamento!). Compratore compulsivo, raffinato segugio di remainders e bancarelle da ipersconti (per perenne carenza di fondi e per passione vintage), adora perdersi soprattutto nei romanzi e nei libri di viaggio: gli orizzonti e i limes gli son sempre andati stretti. Sorvola sui dati anagrafici, ma ci tiene a sottolinare come provenga dall’angolo di mondo più delizioso e straordiario: la Toscana, ovviamente. Per adesso vive tra i 2722 dello Zerbion, i 3486 del Ruitor e i vigneti più alti d’Europa.
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