“Le più belle pagine della letteratura sulla montagna”, là dove il pensiero si fa più leggero.

Giulio Gasperini
ROMA – La montagna è stata, nella letteratura italiana, una presenza costante ma silenziosa, dimessa, rispetto al più chiassoso, ipertrofico e tiranno mare. Più umile la montagna, più apparentemente remissiva. Come lo è nella realtà. In superficie calma, mai rumorosa, piuttosto refrattaria alle mode e agli eccessi. Sicché ecco la sorpresa nello scovare raffinate pagine della letteratura che hanno lei come protagonista, o come privilegiato scenario di vicende che spaziano dalla scalata sportiva all’indagine delle prospettive intime del sé. Le edizioni e/o raccolsero, nel 1992, un florilegio de “Le più belle pagine della letteratura sulla montagna”, perché la montagna, più del mare e di altri paesaggi antropici e naturali, è mutevole, vivace, briosa; e spinge al pensiero e alla meditazione.

La devozione alla montagna si palesò già con Dante, per arrivare a Petrarca, nella cui esperienza umana e religiosa il “Monte Ventoso” rappresentò una partenza e un approdo. Bastò un’escursione sulla vetta per farlo scendere dal suo delirio di vanità e farlo approdare a più miti considerazioni del sé. E questo episodio, tratto dalle Familiares (le lettere scritte, ma in realtà artificiose, ai familiari), è forse il fiore all’occhiello del volume antologico, che conta anche altri importanti frammenti letterari, da Foscolo a Campana, da Hikmet a Slataper. La descrizione più commovente del monte è forse proprio quella dello scrittore triestino, Scipio Slataper, che raggiunse con la sua opera “Il mio Carso” le più illustri vette della prosa poetica del ‘900 italiano. Il poeta e la roccia, infatti, diventano un’unica entità, una creatura che perde le sue definizione e rinasce nuova, pura, in un panteismo naturale che poco ha da invidiare alle piogge del d’Annunzio: “Il mio cappotto aderisce sui sassi come carne su bragia; e se premo, egli non cede: sì le mie mani si incavano contro i suoi spigoli che vogliono congiungersi con le mie ossa. Io sono come te freddo e nudo, fratello. Sono solo e infecondo”.
Ecco che tra uomo e montagna si stabilisce un legame saldo e indistruttibile. La montagna ha le sue furie, l’uomo ne può anche soccombere, ma sempre perché ha tentato di sfidare i propri limiti. La montagna sa che è più forte, e quando colpisce non si preoccupa di chi travolge. Ma può essere anche docile, materna, premurosa. Sicché capiamo Marlen Hausofer che scrisse: “Le notti sull’Alpe erano sempre troppo brevi. Non sognavo. L’aria fredda mi accarezzava la faccia, tutto pareva leggero e svincolato, e l’oscurità non era mai completa”.
Forse la sua vicinanza al cielo, forse la fatica che comporta il salire i suoi fianchi, forse l’aria che si affina e fa sentire più leggeri, forse la maestosità del suo corpo, forse la potenza che sviluppiamo quando, da lassù, vediamo il mondo srotolarsi lontano lontano, ai nostri piedi: la montagna invoglia il pensiero, stimola la riflessione, condiziona la logica. Ci indica i nostri confini di uomini e lì dentro ci fa ritornare; ma più di tutto ci ammonisce a non esagerarci onnipotenti.

Informazioni su Giulio Gasperini

Laureato in italianistica (e come potrebbe altrimenti), perdutamente amante dei libri, vive circondato da copertine e costole d’ogni forma, dimensione e colore (perché pensa, a ragione, che faccian anche arredamento!). Compratore compulsivo, raffinato segugio di remainders e bancarelle da ipersconti (per perenne carenza di fondi e per passione vintage), adora perdersi soprattutto nei romanzi e nei libri di viaggio: gli orizzonti e i limes gli son sempre andati stretti. Sorvola sui dati anagrafici, ma ci tiene a sottolinare come provenga dall’angolo di mondo più delizioso e straordiario: la Toscana, ovviamente. Per adesso vive tra i 2722 dello Zerbion, i 3486 del Ruitor e i vigneti più alti d’Europa.
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