Laureato in italianistica (e come potrebbe altrimenti), perdutamente amante dei libri, vive circondato da copertine e costole d’ogni forma, dimensione e colore (perché pensa, a ragione, che faccian anche arredamento!). Compratore compulsivo, raffinato segugio di remainders e bancarelle da ipersconti (per perenne carenza di fondi e per passione vintage), adora perdersi soprattutto nei romanzi e nei libri di viaggio: gli orizzonti e i limes gli son sempre andati stretti. Sorvola sui dati anagrafici, ma ci tiene a sottolinare come provenga dall’angolo di mondo più delizioso e straordiario: la Toscana, ovviamente. Per adesso vive tra i 2722 dello Zerbion, i 3486 del Ruitor e i vigneti più alti d’Europa.

“La ragazza scalza” che resisteva in montagna.

Giulio Gasperini
ROMA – Combattere sulle montagne è sempre stato difficoltoso. Un vero e proprio calvario. Uno sforzo aggiuntivo in un momento in cui tutto ero rischioso. Sulla coltre di neve, ogni orma era una traccia compromettente, ogni rumore era amplificato come diventasse un urlo, un grido che inficiava ogni nascondiglio e rovinava la vita. In montagna, però, ugualmente si combatté e si resisté. Saverio Tutino fu commissario politico della 76° Brigata Garibaldi nella zona di Ivrea; e poi fu scrittore e narratore. Conobbe i personaggi protagonisti della resistenza tra Valle d’Aosta, Canavese e Biellese, e li raccontò in una serie di racconti brevi, schegge di azione e di ricordi, dal titolo “La ragazza scalza” (Einaudi 1975).
Vengono raccontate le ore calme, quelle che seguono le azioni di guerriglia; vengono raccontati i riconoscimenti, le tangenze delle vite, le occasioni di incontro. Sono squadernate le ore nelle quali si mescolano “vino e sentimenti” e nelle quali i personaggi si palesano per quello che veramente sono, con le loro debolezze e i loro vizi, ma anche le virtù e i piccoli gesti che, dimessi e modesti, edificano un “uomo”. Sono narrate quelle “ore calme”, che rallentano dopo la troppa vita e le emozioni che infiammano e stordiscono, che scontornano e sconfinano nella Storia. Quella Storia che la Morante aveva così bene rappresentato: distante, distaccata, indifferente agli uomini. Ma in Tutino c’è una consapevolezza diversa, una visione cordiale: lo scrittore ha simpatia per l’uomo, per i suoi sforzi, e qualche volta gli regala persino la consolazione di un premio, di una vittoria. Non esiste soltanto la sconfitta, per il giornalista: c’è anche la possibilità che l’ideale (e l’illusione) si concretino e prendano forma e sapore.
Incantevole il ritratto della partigiana Aurora Vuillerminaz, conosciuta come Lola. Aveva soltanto 22 anni quel 15 ottobre 1944 quando, catturata dai militi del battaglione fascista IX Settembre, fu uccisa con un colpo di rivoltella alla tempia, presso il cimitero di Villeneuve. Era una staffetta; stava rientrando dalla Svizzera e conduceva con sé cinque fuoriusciti (“un poeta, un operaio, un dottore in medicina”). Tutino ce la presenta come “la moglie ideale di un vero partigiano: era bella e tutti se lo dicevano: ma dalla sua bellezza era escluso ogni gioco sottinteso o malizia. Non doveva essere semplice innamorarsi di lei; prima di tutto bisognava misurarsi col suo carattere”.
Tutti i personaggi, questi nomi che non sono semplici nomi, ma volti e storie anonime, non si domandano se saranno ricordati o amati, in futuro; se le loro azioni saranno prese a modello, se i loro colori esploderanno ancora e quali cieli coloreranno. Sanno per atavica legge di natura che il loro contributo aiuterà i loro discendenti, che siano figli, nipoti o perfetti sconosciuti, magari persino avversari: “Discussero un poco, e poi ognuno di quelli che avevano partecipato all’azione riprese il racconto delle cose viste da lui e così, come sempre, ci si rese conto che la storia è fatta da tutti: ognuno, muovendosi, ci mette qualcosa di suo”. È la scrittura, poi, che li eterna; e che non li fa scolorire.

I nostri “Ricordi di scuola” e i migliori anni della nostra vita

Giulio Gasperini
ROMA – Ciascuno di noi ha pochi ricordi indelebili, come quelli della scuola. A scuola cresciamo, diventiamo adulti, cominciamo a conoscere noi stessi e gli altri, ci confrontiamo con la vite e con la realtà, ci esageriamo le persone che vorremmo: e ci sorprendiamo a considerarli i migliori anni della nostra vita. Giovanni Mosca nella scuola trascorse pochi anni, come maestro. Di questo mestiere, a cui rinunciò per dedicarsi al giornalismo, i suoi “Ricordi di scuola”, editi nel 1968 da Rizzoli, sono una testimonianza preziosa e irrinunciabile: ci aiutano a capire come funzionasse la scuola, nel passato non troppo distante, ma, soprattutto, cosa “fosse” e dove avesse intenzione di andare.
Quel che di più importante, infatti, si evince dalla lettura di queste pagine, redatte dall’occhio d’un maestro giovane e con poca esperienza ma non per questo acerbo né ingenuo, edotto di teorie didattiche e formative ma anche consapevole del proprio entusiasmo e dell’opportunità della deroga, è il legame di profondo rispetto che si instaurava tra tutti i partecipanti all’azione: allievi, genitori, maestri, istituzione scolastica. Tutti contribuivano alla realizzazione del progetto educativo di cui la scuola era referente ultimo e, forse, più determinante. Tutti concordavano su quali fossero gli obiettivi principali, le possibilità di deroga, gli spazi per la flessibilità, i giusti ruoli e i giusti spazi, le giuste pretese e i corretti giudizi.
Non c’è, in “Ricordi di scuola”, nessun’atmosfera idilliaca né idealizzata, alla maniera di “Cuore”; nessuna deificazione di alunni professori o programmi scolastici. Semplicemente, uno sguardo tenero ma non indulgente, ironico e sagace dimostra quanto buono poteva esserci in un’istituzione che, di lì a poco tempo, sarebbe stata colpita in pieno dalla potenza dirompente e stravolgente delle proteste studentesche e del ’68. Parrebbe quasi dirci Mosca che la rivoluzione, se cieca e incontrollata, rischia di privarci anche dell’essenzialità e della positività del buono.
È un racconto lungo di tenerezza e di affetto, che si concreta in figure plastiche, reali, concrete, che maturano e che impartiscono preziosi insegnamenti. Sono personaggi magistralmente contornati, raccontati nel loro ambiente privilegiato ed esclusivo: personaggi che crescono e maturano, esattamente come fanno gli alunni, in uno scambio continuo di esperienze e di insegnamenti; mai univoci né unidirezionali. Personaggi come la signorina Cenci, che, amante del suo mestiere, persino d’estate, quando la scuola è vuota e abbandonata, percorre leggera i corridoi e va a dare l’acqua alle piante rimaste nella classe; o come il maestro Garbini, che al pari dei suoi studenti fantastica su un cavallo bianco; o ancora, come la maestra Marini che, con la prospettiva di un fiore e di un amore, saprà cambiare e diventare più buona e meno severa coi bambini del suo doposcuola.
Alunni e insegnanti sono protagonisti allo stesso tempo, sullo stesso palcoscenico: ma sono forse i maestri a ricevere la rivalutazione più importante, dalla pena intelligente dell’ex giovane maestro Mosca. Sono tutti insegnanti, cioè, che hanno a cuore il loro mestiere, che non difendono inutilmente gli alunni ma ne esaltano le peculiarità e i talenti, che, anche quando li sgridano, ne conservano in cuore e nelle intenzioni l’affetto più profondo: una scuola, tutto sommato, radicalmente giusta negli intenti.

Renbooks: quando il fumetto è letteratura

Giulio Gasperini
ROMA – In Italia il fumetto ha una tradizione nobile e mai esausta: da Tex Willer, di Gianluigi Bonelli, a Cocco Bill di Benito Jacovitti, da Diabolik delle Sorelle Giussani a Valentina di Guido Crepax passando per Sturmtruppen di Franco Bonvicini e le fortunatissime serie di Dylan Dog di Tiziano Sclavi e Corto Maltese di Hugo Pratt. La casa editrice bolognese Renbooks, di recente fondazione, ha deciso di puntare sul fumetto come concreta e non svilente forma letteraria, proponendo però un catalogo tutto speciale e unico: una serie di opere a tematica omosessuale. I primi esperimenti già offerti ai lettori italiani sono tutti esempi di come, soprattutto all’estero, il genere sia in pieno sviluppo e abbia già offerto interessanti esempi, sia come testualità che come espressione grafica.
Nel catalogo molti sono i manga giapponesi: si leggono al contrario e sorprendono per le tematiche lievi e dolci, così come sono i disegni, che spesso rappresentano situazioni casalinghe o comunque intime incursioni di vita. “Baciando il cielo”, di Kotaro Takemoto, è una raccolta di brevi storie, di vario tipo e con vari personaggi. Sono storie di teneri amori, di incontri furtivi, di tradimenti sofferti, di sguardi lanciati e non raccolti, di proposte timide, di ancor più timidi rifiuti, di ragazzi che tentano l’ultima carta per non veder fuggire il loro amore. Sono tutte situazioni che chiunque di noi, almeno una volta nella sua vita, si è (o si sarà, o si potrebbe) trovare costretto ad affrontare. E c’è della poesia, in queste storie: una quantità incessante di poesia, mai stucchevole ma sempre delicata e precisa, mai inutile. La poesia che c’è in ogni incontro, in ogni casualità, in ogni nuova decisione che si prende e in ogni nuova vita che, immancabilmente, ne deriva.
“Rica’tte Kanji?!” di Rica Takashima, invece, sorprende per l’ingenuità di questa “novellina a Tokyo”: abbandonata la campagna e armata soltanto del suo sorriso timido e ingenuo Rica Takashima si trasferisce a Tokyo per frequentare l’università e si troverà nel gorgo della vita di Ni-Chome, popolare quartiere gay di Tokyo, conquistandosi un futuro e piegando Miho, un’incallita mangiatrice-di-donne, a un tenero e casto amore. La sua dolcezza e la sua semplicità finiranno per ammaliare la ragazza più navigata, che si trova a fare i conti con un sentimento nuovo e mai provato prima, e con una gelosia che nasce dalla passione più vera e pura; e che, per questo, è anche più destabilizzante.
Diverso è “Shirtlifter”, del canadese Steve MacIsaac: le sue storie sono più oscure e complesse, pur trattandosi sempre di rapporti complicati e tradimenti seriali. I personaggi di MacIsaac si trovano spesso ad affrontare situazioni estreme, per le quali non sempre riescono a trovare soluzioni serene e pacifiche. Sono tutti racconti autobiografici, incentrati su sesso e politica, su diversità culturali e separazioni, su lontananze e strategie di accettazione. Si parla di malattie, di compromessi, di tradimenti per noia, di distanze caratteriali e comunicative: la vita è più dura, più difficile da masticare e più sofferto è anche lo scavo psicologico, intimo.
Tutte queste storie, però, hanno un punto in comune: si tratta di storie concrete, storie riproponibili nelle nostre quotidianità, nei nostri giorni personali e privati. E il fumetto non le sminuisce, per nulla; ma dona loro carne e fiato.

Quando la legge assolveva le coscienze per “Un delitto d’onore”.

Giulio Gasperini
ROMA – Non sono passati molti anni da quando la legge serviva per assolvere le coscienze nei casi di delitti d’onore. Un uomo si scopriva “tradito” e la legge gli permetteva di rivalersi sulla donna “peccatrice”. Che poi l’uomo fosse un “padre-padrone” nessuno se ne curava: nessuna legge tutelava la donna dai capricci di un machismo violento e cieco. Giovanni Arpino, in questo suo romanzo, intitolato con scarna evidenza proprio “Un delitto d’onore” (Mondadori, 1960) per non farci mai perdere d’occhio l’inderogabile oggetto di analisi, offre una testimonianza letteraria di quello che significava macchiarsi di un tale crimine.
Gaetano Castiglia, giovane medico ostile al progresso e che preferisce condurre una vita sonnacchiosa nella sua Avellino piuttosto che proseguire il suo brillante futuro negli States, si scopre tradito dalla donna alla quale aveva destinato attenzioni e premure, finalizzate a una sua rieducazione e a un suo innalzamento sociale e (nelle intenzioni dell’uomo) finanche morale: come se vestirsi bene e saper parlare fossero garanzie d’integrità d’anima. Poco importa che la donna sia stata oggetto di violenze altrui. Poco importa se si sia fidata di un altro maschio che le ha promesso l’amore e le ha lasciato solamente il disincanto della violenza. (Le vagine ancora non parlavano: lo faranno molto dopo, con Eve Ensler). Quel che interessa il maschio legittimo è il sangue dell’imene; a macchiare un lenzuolo bianco da esporre come prova di virilità (per lui) e di sottomissione (per lei). Castiglia consuma il primo atto carnale con l’ansia di guardarsi, subito dopo, e di scoprirsi addosso le tracce della verginità della femmina. Ma non le trova e rimane sbigottito, spaventato, incredulo di fronte alla presa in giro, al tradimento evidente. Il suo esame di coscienza è breve e indolore: sa già quel che è giusto fare e lo compie con una freddezza da chirurgo, sgozzando la donna nel letto: come fosse un altare di sacrificio, gesto estremo verso qualche improbabile divinità.
Poi Castiglia scompare; e compare la legge, l’avvocato che accetta di difenderlo e sa che, dimostrati i fatti e reso evidente il “tradimento” della donna (offertasi come vergine ma già defraudata d’innocenza e serenità), nessuno lo condannerà e, anzi, gli offrirà modo di emendarsi e auto-assolversi. L’unico pericolo è la coscienza dell’uomo stesso, dell’assassino (“Ma io ho ucciso. Io, io solo. Voi venite a farmi la parte. Avete ragione, dovete scusarmi. Ma io solo ho fatto quel che ho fatto”); ma la legge sa come agire, sa come confondere colpa e giustizia, sa come crearsi giustificazioni fittizie, perché peggiore della condanna è solamente il rimorso (“Niente commedie. Rimorsi no, va bene? L’amore oltre la morte, e così via, benissimo, ma non tra noi, va bene? Capisci? In aula io non voglio pazzie, lamenti, pianti…”).
La narrazione di Arpino è di un estremo lirismo, severo nella lingua e nelle immagini, così come severo vuol essere l’insegnamento. Non c’è nessun giudizio, nascosto tra le sillabe. Ci sono soltanto immagini e parole crude, dure, pesanti come pietre. E come pietre vengono scagliate, a dimostrare che tutti noi abbiamo peccati. E che alcuni peccati, indipendentemente da tutto e da chiunque, non posson esser autorizzati col beneplacito della legge.

“Parsifal e l’Incantatore”: Ludwig e Wagner.

Giulio Gasperini
ROMA –
Non ci sarebbe potuto essere titolo migliore per questa recensione: soltanto i loro due nomi, i protagonisti di questa storia, che Nicola Montenz, giovane studioso di musica e di filologia, ci narra in “Parsifal e l’Incantatore” edito da Archinto nel 2010. Ogni altro aggettivo, ogni altro termine sarebbe stato superfluo, inutile, eccessivo. Perché la storia, quella documentata, quella ricostruita dagli inchiostri e dalle grafie di corrispondenze e diari, sta tutta costì, tra quei due nomi, tra Ludwig e Wagner: tra, appunto, Parsifal e il suo Incantatore. Tra due personalità che potremmo definire, esagerando magari, borderline, al-di-sopra-delle-righe. Due uomini che esplosero di genialità, che finirono per asfissiare sé stessi per la grandezza delle loro prospettive, delle loro anime sempre assetate d’ignoto. In campi distinti, seguendo percorsi e tortuosità conoscitive e comportamentali diverse e stra-ordinarie (perché, appunto, al di fuori dell’ordinario), Ludwig e Wagner strinsero un rapporto convulso e complesso, in un reciproco tiranneggiare, dominare e subire; come in uno scontro combattuto su un fronte mobile, che di volta in volta vedeva l’uno nei panni della vittima e l’altro in quelli del carnefice.
Ludwig si entusiasmò all’ascolto di Wagner, e se ne volle nominare mecenate, protettore e finanziatore, in un ripristino di cortigianeria oramai lontana dalle mode del tempo e dal mondo stesso ma, nel caso del compositore tedesco, necessaria per farlo ardere di musica e farlo, soltanto su quella, concentrare. Wagner colse l’occasione, la indovinò in tutto il suo potenziale e non volle mai rinunciarvi, consapevole della volubilità della propria vocazione e ben più allettato dall’idea di aver un patrocinatore che, al pari suo, si infiammasse d’amore per l’arte fine a sé stessa – quella, ovvero, che già a quei tempi cominciava a far i conti con investimenti, entrate e ricavi.
Un teatro intero Ludwig innalzò al genio del musicista, quasi una sorta di tempio pagano. Tra incomprensioni e impulsi di feroce ammirazione, mentre ognuno parve cadere sotto l’assedio delle confuse vite private (per entrambi si trattò, forse, d’un puro orgoglio distorto il non voler arrendersi all’evidenza del loro essere), Ludwig alimentò il mito di sé stesso (nella sua furia architettonica da fiaba) e, tramite Wagner, il mito della sua opera. Wagner ne apprezzò l’intento, ne saturò sé stesso, si esagerò dispensatore ultimo di ogni saggezza. E approfittò della situazione, come soltanto i grandi geni sanno fare, perché consapevoli che le occasioni propizie sono poche; e che bisogna cogliere la messe seminata, anche se senza apparente né diretto merito.
Nicola Montenz conosce: merito pregevole. Conosce e sa farlo conoscere. Ha la sorprendente abilità di trasformare la storia – filologicamente ricercata e stanata nei documenti vivi e pulsanti – in una narrazione ammaliante e persino necessaria. Sa trasformare due figure polverose in persone (e non personaggi) corporee e palpitanti, assecondando un fluire narrativo sorprendente che riesce dissetante.

“Il gelo dentro” e la fatica di lottare col tempo per ricostruire sé stessi

Giulio Gasperini
ROMA – Lucide e spietate sono le lettere di Natalia Berla (“Il gelo dentro”, Archinto 1991), ragazza estranea alla letteratura ma che con la sua esperienza ci dimostra come le parole, quando potenti, trovano sempre la capacità di diventare arte. E la vita, per l’arte, è sempre la fonte più genuina, la più fresca e inesauribile, la più sorprendente e incalzante. Natalia non ebbe l’intenzione di scrivere per esser ricordata; lei cominciò a scrivere per salvarsi. O meglio, per accompagnare e sostenere il suo cammino di rinascita. Sicché la scrittura è rozza, spontanea, a tratti naif, addirittura in certi momenti troppo infantile per una ragazza della sua età. Ma è genuina, trasparente; non conosce orpelli né ricatti. È fresca perché Natalia stessa si presentò così, scrivendo con naturalezza ai suoi familiari e amici – lontano il sospetto di poter essere, un giorno, pubblicata e fatta conoscere al mondo intero. Natalia alimenta, nelle lettere, la propria interiorità più segreta e intima, e si comunica senza remore né limiti, non si vergogna né si limita, ma squaderna sé stessa con tutta la potenza di cui è capace e con tutta l’immediatezza che la sua lingua scarna e ispirata le concede. Come se stesse “pensando ad alta voce”, o “chiacchierando in un pomeriggio di luglio”.
Le lettere ci comunicano tutta la sua gioia dell’aver ritrovato una nuova rotta; riscopre la “quiete” alla quale così tanto, inconsciamente, anelava. Il soggiorno a San Patrignano le pare “una piacevole ‘infanzia’ come quando sei in vacanza con tutti gli amici”. La vive come un’opportunità per non stancarsi di sé, per darsi un’opportunità che gli altri le hanno già negato. Si scopre soddisfatta nell’ingrassare, nel lavorare in biblioteca, nell’insegnare ai bambini, nel poter mettere a frutto la sua conoscenza delle lingue, che una madre distratta e incostante nell’affetto le impose di imparare. Si sorprende, Natalia, a meravigliarsi delle piccole cose, dei delicati dettagli di una tiepida giornata, di una luce a sera indora il mondo, come solo in Italia può succedere. Si carica di ottimismo, di voglia di fare, di passione del lavoro: tutti atteggiamenti che, nella sua vita precedente, quella dominata dalla “piaga” dell’eroina, lei aveva ignorato di poter avere.
Ma allora perché non bastò? È questa la domanda estrema, alla quale non riusciamo a rispondere, alla fine dell’epistolario. Ci rimane l’ovvio sospetto che non fosse così celeste, il suo orizzonte; e che non fosse mai riuscita a dissipare definitivamente le nuvole che le adombravano il sole. Alla madre si firmava “tua figlia che spera”. Ma ben presto anche San Patrignano diventa una prova difficile, sofferta, per una donna che ha paura di non guarire mai, dal “carattere votato alla tristezza”, e che non ha più tempo “di guardare le colombe sui tetti”, come faceva mesi prima. Scrisse che San Patrignano le aveva dato “nuove ali”. Ma non le bastarono; e l’ultimo volo fu breve.

“Il lebbroso della città di Aosta”: la solitudine d’un uomo escluso

Giulio Gasperini
ROMA – “Torre dello Spavento”. Così era chiamata una delle torri che modellano il profilo contro il cielo della città di Aosta. Cambiò il suo nome in “Torre del Lebbroso” quando, comprata nel 1773 dall’Ordine Mauriziano, vi fu rinchiusa una famiglia ligure affetta da lebbra, affinché non entrasse in contatto con la cittadinanza aostana. L’ultimo a morire fu Pietro Bernardo Guasco: fu lui il modello per la figura de “Il lebbroso della città di Aosta” (“Le lépreux de la cité d’Aoste”), racconto edito nel 1817 da Michaud, a Parigi, e scritto da François-Xavier de Maistre, artista e personalità poliedrica, nato in Savoia. Lo scrittore conobbe personalmente il malato, ricreando codesta particolare situazione anche nella finzione narrativa: sicché “il lebbroso” dialoga con un soldato che, per caso, durante la Campagna delle Alpi (1797), si trovò a passare da Aosta e, per incauta curiosità, penetrò nel proibito giardino, sorprendendo un uomo respinto dal mondo.
Il malato viveva segregato tra le mura della sua torre, coltivando il suo giardino e cercando di rendere quella sua prigione il più bel angolo di mondo. Ma non si può essere felici in una prigione, con il peso dei propri dolori addosso, nel totale silenzio di voci e di confidenze; non ci si riesce quasi mai. L’unico affetto del lebbroso fu, per un periodo, la sorella, perché anche lei affetta dal medesimo virus. Il rapporto con lei era complesso e difficile: entrambi si amavano, ma riuscivano con estrema difficoltà a dimostrarselo. Era un sostegno fatto di piccoli gesti, di preghiere incessanti ma private, di dimessi sguardi e attenzioni premurose. Rimaneva, comunque, la difficoltà di superare il dolore, di vincere lo scoramento, di non lasciarsi sopraffare dall’assurda e inspiegabile domanda sul perché proprio a loro fosse toccato quel calvario.
È un racconto prezioso, quello di Xavier de Maistre. Perché ci fa riscoprire una scrittore brillante e dal suo tono tipico e particolare: è un racconto sulla solitudine e sulle sue complesse sfaccettature, perché dimostra come si possa essere violentemente soli anche in compagnia ma come, nel contempo, sia così difficile trovare una compagnia che colmi effettivamente la solitudine. Perché la solitudine non è soltanto quella fisica, quella della separazione, della segregazione, dell’allontanamento; la solitudine è anche quella più intima, quel senso di vuoto che difficilmente si colma, che lascia sempre voragini nella coscienza e che non permette, alla fine, di farsi conoscere come uomini completi. L’esclusione fa inasprire l’uomo e il grido di dolore del lebbroso è quello che provano tutti i reietti di una società ipocrita e superficiale: “Io non ho mai suscitato null’altro che la compassione!”; sicché l’esclusione diventa sconfitta, sia per chi la provoca che per chi la subisce.
De Maistre ci parla dell’isolamento, della fatica nel sopportarlo, della difficoltà dell’amore, della tristezza che si prova a sentirsi esclusi per una causa che non dipende dai noi stessi, ma per un accidente che nessuno vorrebbe attirare su di sé. Xavier ci parla di un’amicizia che dura il tempo di un dialogo; ci parla di un rapporto che si chiude con lo scatto di una serratura e che pare lasciare vuoti e soli più della solitudine furiosa.

A m’arcord…

ROMA – Io mi ricordo, in dialetto romagnolo. Chissà quante cose aveva scolpite nella memoria Tonino Guerra, il poeta dell’ottimismo; uno dei pochi che riuscì a esser poeta anche al cinema, componendo delle sceneggiature che non furono solo semplici film ma che finirono per comporsi in una lunga e duratura silloge. L’avventura, Matrimonio all’italiana, Blow-Up, Amarcord… Nomi immortali, più celebri delle sue poesie stesse, dei titoli delle sue raccolte. Il poeta Guerra, romagnolo puro e cristallino, forte e fiero come zolla, è stato forse un po’ troppo ignorato, dimenticato, rimasto impolverato sotto l’occhio indifferente di una critica (ma, soprattutto, di un pubblico), che legge con diffidenza la poesia; e, ancor di più, la poesia in dialetto.
Oggi Tonino è morto; per la Giornata Mondiale della Poesia. Prima di lui se n’era già ampiamente andato l’ottimismo. Adesso rimangono le sue poesie.

 

E’ pióv.

 

L’aqua ch’la bagna e ch’la fa léus i cópp
la casca te curtéil dreinta e’ tinazz;
Ciudei la porta e pu mitéi e’ cadnazz,
ché ‘d fura e’ dvénta una nòta da lóp.

 

E’ pióv sal chèsi, e’ pióv si èlbar chi è néud,
e sòta e’ vièl e’ passa la caròza;
mo tla cuntrèda i va mèni in bascòza
e in tèsta un fazulètt sa quatar néud.

 

Ò tróv un léibar vècc dréinta una cassa,
eun ad chi léibar che t’a i craid smaréid;
e’ zcòrr ch’u i é una béssa te su néid
ch’la sta a séntéi se pióv una gran massa.

 

 

Piove.

 

Un’acqua che bagna e fa luccicare i coppi
casca nel cortile dentro il tino
Chiudete la porta sprangate con la catena
fuori si prepara una notte da lupi.

 

Piove sulle case, piove sopra gli alberi nudi,
per il viale passa la carrozza
su nella contrada camminano con le mani in tasca
e un fazzoletto con quattro nodi in testa.

 

Io ho trovato un libro vecchio dentro una cassa,
uno di quei libri che tu credevi perduto,
racconta che c’è una biscia nel nido
che ascolta se comincia a diluviare.

“Voce rauca di mare”: quando il silenzio della parola graffia la gola

Giulio Gasperini
ROMA – La questione su cosa sia la poesia e a cosa serva ha segnato l’evoluzione della poesia stessa. La parola poetica è sempre stata costretta, dalle origini del canto lirico e monodico, a portare avanti una doppia ricerca: su sé stessa, prima di tutto, e sulle sue potenzialità sempre rinnovate (e rinnovabili), ma anche sulle ragioni che giustificavano sé stessa. Sicché, esistendo, la parola poetica ha sempre dovuto fornire anche le ragioni della sua esistenza: un compito gravoso, inesauribile, e che, numerose volte, l’ha persino lasciata inerte. È ancor più impressionante, allora, che sia un poeta dalla giovane età ed esperienza ad aver di nuovo raccolto (e sviluppato) tale aspetto poetico. Il titolo della silloge di Luigi Imperato, pubblicata da Editrice Zona, è profetica e violentemente significativa: “Voce rauca di mare”.
La voce è rauca, o del tutto assente. E la voce è quella che narra le poesie, che le recita, che conferisce loro il significante. Per questo, paradossalmente, graffia ancora di più, ferisce e tramortisce come se fosse reale, concreta, e avesse una forza devastante. È una voce che denuncia la tragedia, l’idiozia, la meschinità dell’uomo e che non ha paura di additare i responsabili, i cospiratori, i venditori di dolore (perché oramai anche la sofferenza è business). “Dove anche il dolore | diventa ricordo”: ecco il luogo dove la poesia trova un suo senso più puro, più cristallino. Ed ecco, allora, che la poesia si fa compagna della partenza, del tentativo di dare un nuovo senso al mondo che ha perso il suo: “Sono pronto ad aspettarti. | Attendo l’esilio | per poter ricominciare”.
Il silenzio è altrettanto pieno di significanti e di significati, esattamente come se fosse popolato di parole; è la loro assenza che detta la sua metrica, la sua potenza evocativa e significativa: “Talvolta parla chiaro la lingua del silenzio”. Il poeta non ha un ruolo messianico, non è un profeta. È colui che nella fiumana del mondo sta immerso ma che ha il coraggio di rifiutare il baccano senza senso, il rumore assordante che non comunica nulla, e che ancor a meno serve: “l’udito è offeso | da suono indiscreto | che si fa presente, | non richiesto, | pretende ascolto | solo perché, | senza ragione, | emesso”. Come a dire che la capacità di emettere fonemi non ci autorizza ad abusarne, se li usiamo tanto per usarli. In un mondo di comunicazione ininterrotte e mai esauste, il silenzio diventa l’arma più potente per combattere un sistema che zoppica; anzi, che sta per crollare.
La poesia pare dimessa e violenta, ma solo perché è quotidiana, terrena: e la realtà, nei nostri anni Zero, ha creato solo frustrazione e indignazione. Sicché è una poesia che pare di “parole nate notturne per non farsi notare”; ma che notare, invece, si fanno benissimo, proprio con le loro verità e rivendicazioni silenziose.

Editoria e letteratura alle nuove frontiere: ChronicaLibri intervista il “Progetto Letterario Alga”

Giulio Gasperini
ROMA – Abbiamo già presentato il “Progetto Letterario Alga” dalle pagine di questa rivista, settimane fa. Adesso, però, per spiegare meglio e dare un valore aggiunto alle nostre misere parole, a prendere voce è direttamente uno dei protagonisti di quest’esperienza, Massimo Moscaritolo, uno degli artefici e degli indefessi organizzatori di un progetto che, come abbiamo scritto, appare tanto coraggioso e innovativo da meritare di parlarne, in ogni dove.

Non posso rinunciare a una prima domanda scontata e prevedibile: dalla tua “viva voce” vorrei sentir spiegato in cosa consiste questo “Progetto Alga” che avete avviato, tre anni fa, a Torino. So che tra sito e social network è tutto ampiamente spiegato e descritto, ma sempre meglio sentirlo da chi fu uno dei protagonisti e degli artefici dell’ardita impresa, no?!?
Il “Progetto Letterario Alga” nasce circa tre anni fa con l’intenzione di essere un premio letterario diverso da quelli già esistenti. Tra gli aspetti caratteristici del progetto rientra senza dubbio l’attenzione che viene riservata al feedback dei lettori. Ogni libro, infatti, consente attraverso un codice di esprimere due commenti e due voti sul sito internet, www.premioalga.it. Il lettore può, scegliendo di votare, diventare così parte della giuria popolare che decreterà il vincitore a fine anno! Sul sito è possibile trovare la locandina e la quarta di copertina di ogni libro e nella sezione “vota” leggere i commenti di chi prima di voi ha letto il libro. Inoltre abbiamo anche pensato che leggere un libro non debba essere un peso, riferendoci al lato economico: tutti i nostri libri, infatti, sono venduti al prezzo di 3 euro.

Mi puoi parlare un po’ del vostro gruppo? Da dove venite, chi siete, dove andate, direbbe Paul Gauguin…
Le Alghe sono cinque amici torinesi che tre anni fa hanno deciso di unire la loro passione per la lettura con la volontà di fornire un’alternativa a un sistema per nulla dinamico e giovane. Seppur impegnati tra studi (master, dottorati, università) e lavoro, le energie e la passione iniziali sono ancora forti, soprattutto grazie alle risposte degli autori e dei lettori: è grazie a loro che continuiamo a impegnarci per far cresce il progetto, ma anche noi stessi: sappiamo da dove siamo partiti e sicuramente il Premio Alga è il nostro traghetto per il futuro.

Il vostro traghetto contempla anche una casa editrice, sebbene un po’ sui generis. Sul sito ho visto che avete, nella distribuzione del “prodotto libro”, battuto due diverse strade: da una parte avete preferito, fisicamente, una distribuzione che premiasse i libri indipendenti o, addirittura, luoghi dove di solito i libri non si trovano; dall’altra, avete tutti i libri disponibili per esser scaricati e letti sull’e-book reader. Com’è stato, come casa editrice, scegliere di aderire, in maniera preponderante, alla nuova forma tecnologica della editoria che evolve?
Crediamo che l’e-book sia il futuro, negli USA le copie digitali hanno raggiunto quelle cartacee e crediamo che pian pianino anche nel nostro paese, nel giro di qualche anno, avremo un gran numero di lettori “digitali”. La tecnologia è il futuro e noi vogliamo essere pronti!

E cosa ne pensate della figura e del ruolo del libraio? Ve lo domando perché, in effetti, sono un po’ sensibile all’argomento, considerando la professione del librario una delle più affascinanti e “utili” che possano esistere, soprattutto al giorno d’oggi. L’e-book porterà, infatti, a una progressiva scomparsa di questa figura che, innegabilmente, svolge un importantissimo ruolo anche culturale…
Come tu stesso dici è sicuramente una delle professioni più affascinanti che esistano! La loro è una situazione difficile, causata dalla grande distribuzione che con i suoi grandi quantitativi può fare prezzi troppo concorrenziali per loro, però il piacere di parlare e farsi consigliare dal “saggio libraio” vale sicuramente la differenza di prezzo!

Tornando al concorso, che novità credi che il “Progetto letterario Alga” possa portare al mondo editoriale italiano? Dove pensi che si possa spingere? Quali sono i buoni propositi del gruppo “Alga”?
Ovviamente di buoni propositi ne abbiamo molti, vogliamo crescere portano con noi le caratteristiche che ci contraddistinguono, ci piace essere molto vicini agli scrittori e al pubblico e che la giuria popolare sia uno dei punti di forza insieme al voler vendere i nostri libri ad un prezzo basso. Piccoli dettagli che sommati creano una realtà differente.

E infatti son proprio codesti “piccoli dettagli” che stupiscono: abituati, probabilmente, alle grandi “filiere editoriali” e a un’editoria “mercificata” la semplicità e la schiettezza (sul prodotto) paion orpelli inutili; anzi, addirittura limitanti. Complimenti ancora ragazzi! Anche se, come nota personale, speriamo che il futuro dell’editoria non arrivi tanto presto!