Laureato in italianistica (e come potrebbe altrimenti), perdutamente amante dei libri, vive circondato da copertine e costole d’ogni forma, dimensione e colore (perché pensa, a ragione, che faccian anche arredamento!). Compratore compulsivo, raffinato segugio di remainders e bancarelle da ipersconti (per perenne carenza di fondi e per passione vintage), adora perdersi soprattutto nei romanzi e nei libri di viaggio: gli orizzonti e i limes gli son sempre andati stretti. Sorvola sui dati anagrafici, ma ci tiene a sottolinare come provenga dall’angolo di mondo più delizioso e straordiario: la Toscana, ovviamente. Per adesso vive tra i 2722 dello Zerbion, i 3486 del Ruitor e i vigneti più alti d’Europa.

Il “Cantico dei Cantici”: il giorno che non valse l’universo intero

Giulio Gasperini
ROMA – Nei nostri appena archiviati anni Zero, in epoca di feisbuc-addicted e di nuove socialità sul web, in cui i messaggi durano il tempo di un errore e la fiducia è costantemente sotto pressione, nessuno avrebbe mai potuto rinvenire la giusta ispirazione per comporre il “Cantico dei Cantici”, il canto-per-eccellenza (unica forma di superlativo che la lingua ebraica conosca). Ad oggi, dopo millenni di poeti e di pennivendoli, codesto poema rimane il più alto e inarrivabile canto d’amore che l’umanità abbia partorito. O che abbia mai potuto godere, leggendo e rileggendolo senza mai stancarsi della perfezione del ritmo e dell’armonia delle sillabe.
Invocazioni ed esortazioni d’amore di uno sposo e una sposa che si scambiano perfette parole d’amore, plasmando immagini d’inaudita sensualità e sentimento che prende fiato e carne, che si appropria di un corpo e si costruisce un’anima per rimanere immortale come l’autore presunto di questo testo, il re Salomone. “Bàciami con i baci della tua bocca”, “Attirami a te, corriamo!”, “Corri, mio Diletto, / sii simile alla gazzella / o al cucciolo dei cervi, / sui monti dei balsami!”.
Nella nuova traduzione della Bibbia, edita nel 2008, le parole poetiche si son scrollate di dosso la polvere del tempo e dell’usura e son tornare a risplendere di tutta la loro potenza, di significante e di significato. Alcuni passi, addirittura, hanno così leggermente, ma consistentemente, modificato il loro significato da apparire quasi nuovi, come se il cantico fosse stato composto adesso, fresco di mente e di ispirazione. Il passo, ad esempio, che recita: “Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, / se trovate l’amato mio / che cosa gli racconterete? / Che sono malata d’amore!” corregge l’antica traduzione “che sono morta d’amore!”, reintroducendo un rapporto più paritario tra sposa e sposo che giova alla perfezione del Cantico stesso.
Il Cantico dei Cantici è erotismo allo stato puro, scevro di ogni volgarità e bassezza umana, perché l’amore stesso è considerata la perfezione più pura di erotismo: sicché “eros” – “amor” per Origene – è sia l’amore mentale che il trasporto fisico, in una perfetta sovrapposizione di significati da non esser mai stata più così raggiunta, in nessun’altra opera umana. Il Cantico è un libro della Bibba, ma mai si nomina Dio. Per questa sua anomalia (e scomodità) fu sottoposto alle interpretazioni più ardite, nell’ansia di giustificarne l’esistenza; fu salvato dai Padri della Chiesa soltanto attraverso una violenta interpretazione allegorica. Ma il Cantico dei Cantici non conosce soltanto spiragli per un’ipotetica giustificazione religiosa. È un canto che condivide immagini e suoni con altre culture, che attinge a un medesimo sostrato antropologico e figurativo: l’amante arriva rapido come gazzella, in una potente e sconvolgente immagine che già compariva in alcune, rare, poesie d’amore egiziane.
Al di là di chi l’abbia scritto, con quali intenti, quale vero e reale significato scorra sotto le immagini e le parole e le potenzi tangibilmente, l’opera non conosce rivali, né potrà mai temere confronti. Come ebbe a dire un rabbino nel II secolo d.C.: “L’universo intero non vale il giorno in cui Israele ebbe il Cantico dei Cantici”.

“Alture di Macchu Picchu”: là dove potremmo evitare la nostra “breve morte giornaliera”

Giulio Gasperini
ROMA – Tutti noi attendiamo la nostra “breve morte giornaliera”. Ogni ora, ogni battito che trascorriamo (in)consapevoli di noi, noi moriamo. Il concetto è antico, le disquisizioni sono state infinite. E tanti furon coloro che, a codesta ineluttabile condizione umana, cercarono di non sottomettersi troppo debolmente e offrirono vie di fuga, occasioni di rivalsa e di possibile vittoria. Pablo Neruda lo fece utilizzando il suo codice preferito e prediletto: la poesia. E lo fece scovando un esclusivo (e incredibile) angolo di mondo: le “Alture di Macchu Picchu” (Passigli, 2004) divennero, per lui, teatro unico e irrinunciabile della conservazione umana; un tentativo, insomma, per non tornar polvere e disperdersi nel vento, senza che rimanga alcuna traccia del sé stesso.
Lassù, su quelle alture gelose di sé stesse e straniere a qualsiasi sguardo, al riparo da ogni incombente assedio, lontane dalle notizie, dal pubblico, dalla frenesia del keep-in-touch, tutti vi potremmo ri-nascere, trasformati in fratelli. Lassù, dove le stagioni declinano il tempo, dove il sole e la luna comandano l’uomo, dove l’orologio si dimentica di ruotare, l’uomo curioso può persino esagerarsi essere perfetto, senza incertezze né dubbi, senza peccati da farsi perdonare né costanti crimini da dover scontare: “Io t’interrogo, sale delle strade, / mostrami il cucchiaio, lasciami, architettura, / rosicchiare con un bastoncino gli stami di pietra, / salire tutti i gradini dell’aria fino al vuoto, / grattare le viscere fino a toccare l’uomo”.
L’architettura di Macchu Picchu non è reale architettura, ma un’“architettura di aquile perdute”: è un “libro di pietra”, perché la pietra diventa natura, diventa il tutto che edifica l’uomo, che lo rende perfetto, che lo assiste in ogni sua azione e in ogni suo compito: “Attraverso la terra riunite tutte / le silenziose labbra disperse” e ritrovano la voce, riescono a raccontare di nuovo tutta la loro sapienza, tutte le loro esperienze così necessarie all’uomo per poterlo far giungere completo, uomo nel più profondo di ogni cellula: “Lasciatemi piangere ore, giorni, anni, / età cieche, secoli stellari”.
Macchu Picchu è “l’alto luogo dell’aurora umana: / il vaso più alto che contenne il silenzio: / una vita di pietre dopo tante vite”. E la pietra è la sola traccia che, dopo il suo trapasso, dell’uomo perdura. È la pietra il supporto su cui meglio si scrive e si deposita la memoria; è la pietra il pane; è la sorgente, la luce, è la “patria pura”, è “direzione del tempo”, in una litania che non conosce fine né distinzione tra sacralità e laicità, tra reale e immaginario, tra carne e fiato, in uno scontornamento evocativo di vocaboli, quasi formule alchemiche, che travasano la realtà nota e sovrappongono la pietra all’immagine e all’essenza stessa di Macchu Picchu.
“Datemi il silenzio, l’acqua, la speranza. // Datemi la lotta, il ferro, i vulcani. // Unite a me i vostri corpi come calamite. // Venite alle mie vene e alla mia bocca. // Parlate attraverso le mie parole e il mio sangue”: Macchu Picchu è la mèta ultima; oltre, non c’è che il non-sense del nulla.

“Scene da una battaglia sotterranea”: l’arte della guerra e gli armadilli.

Giulio Gasperini
ROMA –
Forse, un tempo, la guerra ebbe un’arte: lo dimostrano le teorizzazioni, capolavori letterari più che strategici, da quella del generale Sunzi, nel VI secolo a.C., fino ad arrivare a Machiavelli, nel saggio “Dell’arte della guerra” (1520 ca.). Rodolfo Fogwill, nel suo straziante romanzo “Scene da una battaglia sotterranea”, pubblicato finalmente in Italia da SUR (2011), parrebbe raccontarci, all’opposto, una guerra che è tutto fuorché arte. Che è piuttosto bizzarra ironia dell’umano, sadica dimostrazione di ferocia, inaudita e immotivata violenza. Una guerra, insomma, che non rimane su carta, sulle mappe, sugli spostamenti delle pedine (una specie di Risiko istituzionale), ma che colpisce e affonda la carne, strazia e strania, abbatte e lascia incompiute le ore.
Scritto in soli tre giorni, durante l’assurda guerra delle Malvine (o, a preferenza, delle Falkland), il romanzo assume un punto di vista radicale, ma che mai diventa straniante; è un punto di vista che ci rende sempre protagonisti estremi della Storia. Siamo trascinati e trattenuti sottoterra, in gallerie e cunicoli dove vive, ridotta al buio e all’umidità, una società che si crea alternativa al mondo, che in cambio di sigarette e scatolette di cibo tradisce il suo ruolo e i suoi compatrioti, che avvantaggia il nemico ma sentendosi, così, paradossalmente, meno sola, meno sfruttata, meno dimenticata e illusa che difendere la patria sia il dovere di ogni cittadino, per la sopravvivenza dell’integrità della nazione offesa.
Sono gli armadilli, “Los pichiciegos”: soldati argentini costretti, come i totemici animali dell’America latina, a vivere nel sottosuolo, a percorrerlo e a sentirselo come una casa. Il titolo originale è proprio questo: “Los pichiciegos”, perché loro sono i catalizzatori della vicenda, loro sono i più evidenti risultati che la guerra, nella sua idiozia senza fine, nella sua più totale ed esclusiva mancanza d’arte, produce e alimenta. La guerra fa rumore alle loro spalle, sopra le loro teste, bombarda e soffoca, si sviluppa secondo le sue regole strane e stranianti. Ma, alla fine, la guerra diventa un pretesto, un accidente che autorizza a soffermarsi su quella società alternativa e straordinaria (perché fuori dal consueto); tanto che non sarà la guerra a ucciderli, ma un banale incidente causato da una loro trascuratezza. Fogwill vuole dirottare il nostro interesse verso questi uomini, verso la loro caratura umana, che si trovano ridotti ad animali, a bestie condannate e dimenticate da qualsiasi logica del mondo: ce li porge, ce li offre, ponendoli alla ribalta del testo, con uno sguardo che piega a benevola compartecipazione.
Grazie a SUR, una casa editrice indipendente e nata senza alcun capitale, attenta al rapporto coi librai indipendenti e alle nuove frontiere che la società impone di valutare, la letteratura latino-americana sta riscoprendo nuove voci, al di fuori dei soliti grandi blasonati (ma che poco osano e si innovano). Voci che nuove lo sono soltanto per noi, lettori italiani, ma che ci permettono di ammirare nuova letteratura e di leggere pagine d’inaudita bellezza, dove la febbre delle parole si allaccia alla passione politica e sociale.

“Sa che la maggior parte delle lingue africane non ha il modo condizionale né il periodo ipotetico?”. ChronicaLibri intervista Leo Finzi.

Giulio Gasperini
ROMA –
L’Africa. Ogni aggettivo, al cospetto di codesto nome, è superfluo, gravoso, impacciante. “Mama Africa” (come canta Chico Cesar) è la terra dell’origine, del primigenio, della lenta separazione dell’homo dagli ominidi. Ed è, oggi, anche la terra più in fermento, più vivace, più contraddittoria ma più potenzialmente sorprendente. ChronicaLibri ha intervistato Leo Finzi, l’autore del romanzo “L’Alhaji” (Gaffi editore): lui l’Africa la conosce bene, conosce soprattutto la Nigeria, una delle nazioni che si esagerano come dominanti e guide della riscossa africana. La conversazione che ne è venuta fuori pone degli accenti interessanti sia sul romanzo che sulla situazione geo-politica, accendendo in noi stimolanti curiosità per comprendere questo nostro mondo che dovrà assumersi la responsabilità di scelte importanti.

 

Devo subito confidare una mia simile passione per l’Africa: io son stato in Kenya, nella baraccopoli di Huruma, per una manciata di settimane, ma nonostante la breve permanenza ho sviluppato fin da subito quello che, poeticamente, gli antichi battezzarono il “mal d’Africa”. Io so cos’è, me lo sento sottopelle un po’ tutti i giorni della mia quotidianità: vorrei però che lei lo spiegasse, considerando che, in Africa, ha trascorso molto più tempo di me.
Dunque, il “mal d’Africa”. Credo vi siano diverse componenti che si fondono a comporre questo sentimento di attrazione, fascinazione vagamente malinconica e quasi nostalgica che gli europei hanno chiamato “mal d’Africa”. L’aspetto più interessante e anche più profondo di questo stato d’animo è secondo me quel particolare senso di straniamento che produce in un europeo l’immergersi in un ambiente naturale e umano percepito, a torto o a ragione, come “primitivo” (dando a questa parola una connotazione tutt’altro che negativa). L’Africa, sia nella natura che negli uomini, rappresenta per un europeo uno stato più basilare, meno assoggettato alle regole della civiltà e quindi meno convenzionale, più misterioso e imprevedibile, meno utilitario, più terribile per certi aspetti, ma anche più innocente, meno spiegato e al tempo stesso più vero. L’Africa rappresenta quasi uno stato anteriore e una componente del “mal d’Africa” è una sorta di nostalgia del caos che precede l’ordine umano, e pare più vicino alla verità. Situazioni diversissime contribuiscono a creare questa percezione: dal contatto quotidiano, crudo e quasi brutale, coi problemi basilari, di sopravvivenza umana, in cui ci s’imbatte di continuo, tanto nei minuscoli villaggetti sperduti nel bush quanto nelle terribili bidonville delle metropoli africane; alla natura così poco umanizzata e tanto più presente; alle forme di cultura; al rapporto con il tempo: sa che la maggior parte delle lingue africane non ha il modo condizionale né il periodo ipotetico? Ovvero non ha le forme grammaticale e sintattica attraverso le quali un europeo, tramite il linguaggio, cerca d’introdurre una logica e un ordine nel tempo a venire.

 

Oltre alla cultura, alla storia, a forse, come ha osservato anche lei, un senso di ritorno alla primigenia culla evolutiva che l’uomo sente per le terre dell’“Africa nera”, i tempi si evolvono e anche l’Africa sta evolvendo. La Nigeria è, come ho scritto anche nella mia recensione, una terra dalle potenzialità impressionanti; ma dalla profonda confusione politica e dall’ancora più irrisolvibile intolleranza sociale e religiosa. Lei che la conosce così bene potrebbe magari illustrarci un po’ più chiaramente la situazione di questo stato che potrebbe, realmente, candidarsi a diventare una potenza assoluta?
È vero che l’Africa sta evolvendo. E la Nigeria è, anche in questo – cioè nel contrasto tra i retaggi della civiltà tribale, l’identità culturale originaria africana, la sua “primitività” e, d’altra parte, la giusta aspirazione allo sviluppo economico e sociale, attraverso l’inevitabile e talora traumatico assorbimento di una cultura che non ha prodotto – un paese emblematico dell’Africa post-coloniale. Con i suoi 160 milioni di abitanti, la Nigeria è il paese più popoloso del continente. Una nazione potenzialmente ricca e forte, perché ha il petrolio, e lo sfrutta da molti anni. Non è, quindi, l’Africa povera. È un paese a sua volta pieno di contraddizioni, la cui popolazione è l’amalgama di molte etnie diverse; un paese diviso letteralmente in due tra un nord radicalmente musulmano e un sud fortemente cristiano, periodicamente insanguinato da scontri etnici e religiosi. È uno dei pochi paesi africani ormai dotato di un embrione di economia “moderna” sviluppata, interamente amministrata da neri e che cerca anche di acquisire un ruolo sul piano internazionale, ma dove persistono, al tempo stesso, una fortemente radicata cultura tribale e vastissime aree di povertà e di arretratezza, di economia primitiva. Anche per questi forti contrasti, credo che la Nigeria possa essere considerata un po’ un laboratorio dello sviluppo dell’Africa post-coloniale. Un Paese che da un lato ha già raggiunto un fortissimo grado di urbanizzazione; un Paese in cui, d’altra parte, accanto alla gente povera delle città – le plebi urbane che si ammassano nelle sterminate e atroci bidonville dove si vive senza servizi igienici, ma magari sui tetti in lamiera delle baracche spuntano le parabole satellitari e tutti usano il telefonino – a distanza di pochi chilometri vi sono villaggetti di capanne di paglia e fango che campano d’allevamento brado e di piccola agricoltura, legati a un’economia tribale di sopravvivenza, dove vive ancora buona parte della popolazione. Però, tra queste due fasce ancora largamente maggioritarie della popolazione, si va inserendo il cuneo spingente di una sorta di classe media ormai abbastanza solida, sicuramente la più numerosa e diffusa dell’Africa; la classe di quelli che forse ormai ce l’hanno fatta a uscire dalla povertà, hanno un impiego in qualche banca o ministero o impresa, vivono in una casa decente, posseggono una macchina e magari risparmiano per comperarsene una migliore, o per mandare almeno uno dei figli all’università, magari all’estero.

 

L’ho paragonata a Conrad. E ho accostato il suo “L’Alhaji” a “Cuore di tenebra”. Ovviamente, andrebbero fatte tutte le distinzioni del caso, ma credo che le funzioni dei due libri siano più o meno similari. Ho scritto nella mia recensione che, così come Conrad “denunciò il feroce colonialismo ottocentesco, scarsamente documentabile e, per questo, difficilmente rimproverabile dai suoi contemporanei, ‘L’Alhaji’ illustra, con un piglio giornalistico ma con un’architettura raffinatamente narrativa, il colonialismo dell’oggi, del presente, dei nostri anni Zero”. Mi pare superfluo chiedere se ha letto Conrad, ma più interessante sarebbe sapere se le garba e se, in qualche maniera, la lettura dello scrittore polacco abbia effettivamente influito sulla sua scrittura.
Conrad è uno dei miei autori preferiti e “Cuore di tenebra” uno dei suoi libri che più ho amato. Il solo fatto che lei li menzioni con riferimento a “L’Alhaji” mi fa naturalmente un enorme piacere. Conrad è uno dei grandi scrittori che rileggo di frequente e che più hanno contribuito alla mia formazione letteraria. Se poi devo provare a individuare in cosa, nello specifico, Conrad abbia influito su “L’Alhaji” o più in generale sulla mia scrittura, sarei portato a indicare almeno due aspetti. Il primo è la forma dei conflitti morali e dei contrasti interiori che caratterizzano i grandi personaggi di Conrad, il modo ellittico e mai chiaramente risolto in cui Conrad stesso li descrive, come girandovi ripetutamente intorno, tenendosi a rispettosa e prudente distanza, come un marinaio che circumnavighi coste frastagliate e pericolose, delineando senza pretendere di penetrarlo il nocciolo irrazionale che quei conflitti contengono e che di fatto determina l’azione del racconto e il destino dei personaggi. Il secondo è la corrispondenza intermittente – ora ossessiva, ora catartica e liberatoria – tra la descrizione di quei conflitti e la descrizione della natura (nel caso di Conrad la grande Natura del mare, con le sue forze immense, le sue imperscrutabili tempeste e bonacce). La natura è una componente attiva e determinante nella scrittura di Conrad e fa metaforicamente da specchio, narrativamente da teatro e compositivamente da contrappunto ai conflitti umani raccontati nei suoi libri. Basterebbe, per fare un esempio, la meravigliosa citazione da Baudelaire che Conrad premette alla sua più bella storia di bonaccia, “La linea d’ombra”: “… D’autres fois, calme plat, grand miroir. De mon désespoir”. E visto che siamo in tema, mi permetto un’altra citazione da Conrad, sempre a proposito d’inspiegati conflitti morali; è la conclusione del capitano Giles, ancora dalla “Linea d’ombra”: “…. un uomo proprio deve affrontare la sua cattiva sorte, i suoi errori, la sua coscienza. Perbacco, contro che cosa vorreste lottare altrimenti?”

 

Non ci son soltanto la Nigeria e l’economia, nel suo romanzo. Ci sono anche dei rapporti umani, dei legami tra uomini e donne, tra uomini e uomini, tra donne e donne. C’è, insomma, una fitta e densa umanità che si caratterizza per i rapporti burrascosi e per i legami un po’ fragili e un po’ ricattanti, sempre al limite della sopportazione e del collasso. Ha inteso presentare questi personaggi come pura fiction, da collocare nel setting dell’Africa, oppure tali rapporti sono, per così dire, un correlativo oggettivo della difficile situazione della Nigeria stessa?
Il personaggio dell’Alhaji racchiude certamente in sé quel conflitto tra primitività e modernità, tra l’originaria cultura tribale e l’ancestrale comunione con la natura da un lato, e l’aspirazione allo sviluppo e il conseguente assorbimento di una cultura estranea, nonché il rapporto utilitario con l’ambiente dall’altro, di cui si parlava poc’anzi e che sono alla radice delle contraddizioni non solo della Nigeria, ma direi di tutta l’Africa post-coloniale. “Alhaji” è il titolo che in Nigeria prendono i musulmani che si sono recati in pellegrinaggio alla Mecca. Ha finito col diventare una sorta di titolo onorifico di cui si fregiano alcuni esponenti di ricche e potenti famiglie musulmane. L’Alhaji – capo della sua comunità, leader politico legato alle tradizioni della sua terra e della sua gente e, al tempo stesso, moderno business man che ha studiato in Inghilterra e fa affari in giro per il mondo – incarna questi contrasti, questo coacervo di contraddizioni, e mette in mostra le lacerazioni profonde che le due istanze contrapposte di cui parlavamo aprono nell’identità degli africani. Ma vi sono anche altri contrasti forti che caratterizzano i rapporti umani descritti nel libro. Attorno all’Alhaji si svolgono vicende perlopiù interpretate da bianchi, ed è giocoforza dal punto di vista di un bianco che tali vicende vengono narrate. Però i bianchi dell’Alhaji, a cominciare da Nevio, sono tutti dei transfughi, appartengono a una di quelle enclavi straniere che s’impiantano, per breve o lungo tempo, in Africa. È un mondo di frontiera, in cui il tema razziale, il rapporto tra bianchi e neri, fa da sfondo a ogni cosa e l’incontro ravvicinato, spesso abrasivo, tra civiltà e culture molto lontane tra loro, scuote i fondamenti morali dell’una e dell’altra e genera un’atmosfera di valori rarefatti, come una sorta di terra franca in cui è facile perdersi.

 

Proprio sull’Alhaji volevo rivolgerle l’ultima domanda. In parte ha già risposto, ma vorrei un po’ approfondire questa figura, per noi, remota anche nella definizione. L’Alhaji: la figura emblematica del potere, di chi e di come lo detiene. Una figura che imbarazza ma che esiste; e se esiste è per gran parte colpa della società occidentale, quella che, fino a poche settimane fa, pareva invincibile e insostituibile. Il crollo, nemmeno troppo lento e oramai inevitabile dell’anziana Europa e del vecchio modello capitalistico che conseguenze avrà, secondo lei, sul fragile equilibrio dell’Africa e, in particolar modo, dei paesi che, più di altri, avrebbero le risorse per esagerarsi potenze d’un futuro non molto lontano?
Quando ho cominciato a scrivere l’Alhaji, il punto di partenza è stato molto semplice. Noi europei abbiamo una visione pregiudiziale dell’Africa: è il continente che conosciamo meno e ce lo raffiguriamo come una terra di povertà, bisognosa di aiuto, di assistenza sanitaria e alimentare, di guida allo sviluppo, di programmi di aiuti; una terra di popolazioni in fuga, di emigranti e rifugiati che malvolentieri accogliamo in casa nostra, di bambini da adottare a distanza, di popoli affamati cui fare la carità, che hanno bisogno del nostro sostegno perché ancora incapaci di camminare con le proprie gambe. Bene, mi sono detto, proviamo a scrivere la storia di un africano ricco; di un africano potente, autonomo e forte e proviamo a descrivere i meccanismi del potere in Africa, che forse gli europei si illudono ancora di controllare, mentre io credo che ormai da decenni – per fortuna degli africani – non sia più così. E così è nato l’Alhaji. Non ho dovuto inventare molto, perché avevo sotto gli occhi situazioni non troppo diverse da quelle che ho raccontato. È venuto addirittura fuori (ma le assicuro, non per scelta ideologica bensì per rappresentazione realistica ed economia narrativa) un rapporto servo-padrone rovesciato, in cui Nevio (bianco) è assoggettato all’Alhaji (nero). Voglio anche aggiungere che, sotto questo aspetto, mi ha fatto molto piacere scrivere una storia di orgoglio africano. L’Africa ha sempre avuto una sua cultura e una sua organizzazione sociale, e quindi anche una sua propria struttura del potere. È forse una novità per noi europei (ma non credo che lo sia per gli africani) scoprire che da anni ormai, e sempre più, si vanno affrancando dalla tutela bianca. Il fatto che questo vada di pari passo col declino dell’Europa e forse con l’ascesa dell’influenza di altre potenze in Africa (in particolare la Cina, che da tempo penetra sempre più a fondo nel continente africano e ha un gran bisogno delle sue materie prime) secondo me è solo marginale: l’Africa oggi è cambiata, è autonoma; indipendentemente da quello che gli altri (europei, cinesi o americani) fanno attorno a lei, ha ormai una sua economia, che tutti gli indicatori danno in espansione (anche più rapida delle economie asiatiche); inoltre ha una popolazione giovane, che cresce a un tasso che oggi non ha riscontro in nessun’altra area del pianeta. Certo, i paesi africani sono ancora pieni di contraddizioni, di enormi difficoltà, di contrasti violenti; ma le difficoltà sono anche opportunità e c’è effervescenza in numerose nazioni dell’Africa, assai più di quanta ve ne sia mai stata prima. Tornando al libro e alla prima parte della sua domanda, attraverso l’Alhaji ho cercato di dare una rappresentazione del potere in un paese-guida dell’Africa, la Nigeria. Ho tentato di illustrare i suoi meccanismi, con un taglio realistico-oggettivo, provando ad astenermi da qualunque giudizio morale. Credo che il risultato sia stato narrativamente ambiguo: l’Alhaji, pur dando il titolo al libro e pur avendo molte pagine a lui dedicate, come personaggio è forse il meno definito del romanzo (credo che diversi altri personaggi, magari descritti in poche pagine, siano più intensi). D’altra parte, l’Alhaji fa come da veicolo per illustrare alcuni aspetti della società nigeriana e per investigare la forma che prende il potere in un contesto come quello nigeriano, dove i retaggi di una cultura arcaica e tribale (di cui il popolo, e quindi anche necessariamente chi, come l’Alhaji, aspira a guidarlo, è portatore) si mescolano o si scontrano con le esigenze dell’economia di un moderno paese petrolifero e anche con le genuine aspirazioni di quello stesso popolo allo sviluppo, all’uscita dalla povertà, al benessere. I contrasti e le contraddizioni interiori dell’Alhaji sono i contrasti e le contraddizioni del suo popolo e sono un dato storico oggettivo che l’Africa non può evitare di affrontare.

Un San Valentino tra poesia e antiche abitudini…

Giulio Gasperini

ROMA – Quest’anno, per San Valentino, darò spazio alla poesia e alla scrittura vera, quella pura, quella che rimaneva su carta, quando le emozioni si concretavano in parole e le parole prendevano forma e sostanza (tanto da parer più vere e meno cestinabili d’un sms o d’un messaggio sulla bacheca di feisbuc) con la linea dell’inchiostro. Che belle le lettere! Che nostalgia! Ma c’è spazio anche per l’amore giovane, per quello adolescente, per l’amore da ridere, per l’amore difficile, per quello biblico, per l’amore oramai remoto. È sempre intenso il tempo dell’amore!

1. Abelardo ed Eloisa, Storia delle mie disgrazie, Garzanti
2. Il Cantico dei Cantici, Adelphi
3. Patrizia Valduga, Libro delle laudi, Einaudi
4. George Sand & Alfred de Musset, Lettere d’amore, Archinto
5. Luigi R. Carrino, Acqua storta, Meridiano Zero
6. Wislawa Szymborska, Taccuino d’amore, Libri Scheiwiller
7. Brunella Gasperini, Rosso di sera, Baldini Castoldi & Dalai
8. Canti d’amore dell’antico Egitto, Salerno Editrice
9. Rossana Campo, Mentre la mia bella dorme, Feltrinelli
10. Per sempre tuo. Le più belle lettere d’amore di tutti i tempi, Mondadori

“Segni di pietra”: la Valle d’Aosta come (forse) non t’immagini

Giulio Gasperini
ROMA – Se dovessimo dire quel che ci viene in mente della Valle d’Aosta probabilmente tutti ci immagineremmo subito alte montagne, lunghe piste da sci, boschi fitti e animali selvatici, la lingua francese che vi si parla in regime di bilinguismo e, forse, qualcheduno penserebbe al casino di Saint-Vincent. Ma c’è un volto della Vallée che andrebbe, in maniera opportuna, sistemato al primo posto di questa improbabile classifica: quello, ovvero, della Storia che qui, in questa grande valle incastrata tra le montagne più alte d’Europa, si è concretata in ardite tracce. Ci riferiamo, ovviamente, ai tanti castelli che punteggiano il suo panorama, appollaiati su speroni di roccia che difficilmente potremmo pensare abitabili e, ancor meno, edificabili. Tutti questi castelli, le torri, i manieri e le residenze che hanno scolpito sulla roccia la storia della Vallée, questi “Segni di pietra”, sono riprodotti in un bel volume realizzato nel 2008 dall’Associazione Forte di Bard, che gestisce l’omonima fortezza, una delle prime che ci mozzano il fiato, per imponenza e arditezza architettonica, entrando nella regione.
Francesco Corni riproduce, con particolareggiati disegni a china, le architetture nel loro complesso, soffermandosi attentamente su dettagli peculiari o più significativi, e offrendoci l’illusione quasi di poter toccare, sfiorare quelle rocce, quei mattoni, quelle finestre dalle ardite linee e geometrie. In alcuni casi, addirittura, i castelli vengon smembrati, proposti in sezione, resi vulnerabile agli occhi di chi guarda, per far comprendere tutta la reale grandezza delle costruzioni. I disegni sono poi accompagnati da piccole didascalie chiarificatrici, che contestualizzano le architetture e tratteggiano indispensabili nozioni di storia.
Dopo alcune introduzioni sulla storia della Vallée, i disegni (che paion quasi elaborazioni grafiche tridimensionali) sono raccolti in tredici sezioni: dai castelli primitivi (tra i quali quelli di Cly, la Tour Colin a Villeneuve e la Torre dei Balivi ad Aosta) ai castelli che si tramutano in vere e proprie residenze (come nel caso di Montjovet e Sarriod de la Tour a Saint-Pierre), dai castelli del periodo aureo (Fénis, Aymavilles e Verrès su tutti) ai castelli trasformati col sopraggiungere dell’artiglieria (il Castello di Saint-Germain a Montjovet e il Forte di Bard) si squaderna tutta la storia della Vallée, così ricca di eventi inaspettati e fondamentali anche per la storia dell’Italia tutta. Basti pensare ai legami strettissimi che unirono la famiglia Savoia a questa piccola regione, a partire dal conte Umberto “Biancamano”, capostipite della dinastia sabauda, che intorno al 1000 stabilì una posizione egemone della sua famiglia in questo angolo di mondo, per finire con Umberto I e Maria José che trascorrevano le villeggiature con grande piacere nel castello di Sarre, usato precedentemente da Vittorio Emanuele II e da Vittorio Emanuele III come residenza per le amate cacce.

Premio letterario “Alga 2012”: la terza edizione di una preziosa scommessa letteraria.

TORINO Il premio letterario “Alga”, rivolto a tutti gli scrittori d’Italia, è giunto alla sua terza edizione. Tre anni fa fu nacque come una scommessa: cinque giovani, più o meno ventenni, tutti di Torino, decisero di unire un concorso a una casa editrice che non chiedesse nessuna spesa di pubblicazione agli autori, che potesse mettere in vendita i propri libri a un ridottissimo prezzo (tre euro, centesimo più centesimo meno) e che coinvolgesse direttamente i lettori nella valutazione dei libri. Tre caratteristiche peculiari ed esclusive, che hanno reso il progetto “Alga” un’interessante esperienza di letteratura e di vita. Le scelte coraggiose sembrano aver premiato gli intenti di questi giovani, che hanno deciso di distribuire i propri libri nella doppia versione – cartacea e digitale – ma preferendo nella distribuzione una loro rete alternativa, favorendo e sperimentando luoghi dove, di solito, i libri non si trovano.

Il bando della terza edizione del premio è stato pubblicato: al concorso sono ammesse opere di narrativa (romanzi e raccolte di racconti) purché inedite, a tema libero e in lingua italiana. Dovranno essere spedite tramite internet, all’indirizzo libri@premioalga.it, completi di dati dello scrittore. Dovranno però essere inviate anche tre copie anonime per posta, destinate al comitato di lettura designato dalla casa editrice, che potrà valutare i testi nel più assoluto anonimato.

Dal primo al quinto classificato, i libri saranno pubblicati nel doppio formato, cartaceo e digitale, a complete spese della casa editrice Alga. I testi, dal sesto al decimo classificato, saranno pubblicati esclusivamente nel formato digitale. Il termine ultimo dell’invio dei lavori sarà il 28 febbraio 2012, mentre l’annuncio dei dieci finalisti avverrà entro maggio 2012. A luglio, invece, verranno indicati i cinque testi che parteciperanno alla fase finale dell’edizione 2012.
Per qualsiasi informazione ci si può connettere alla pagina internet www.premioalga.it, mentre, per seguire i ragazzi del progetto “Alga” e tenervi sempre informati sulle novità, sono disponibili le pagine Facebook e Twitter.

(per ChrL Giulio Gasperini)

I viaggiatori viaggianti che trovano a “Marrakech” il loro altrove

Giulio Gasperini
ROMA – Esther Freud
ha un cognome pesante, gravido di responsabilità: figlia del pittore Lucian Freud e pronipote del grande Sigmund, intraprese un percorso d’arte dissimile a quello dei membri del suo albero genealogico, ma non per questo meno ficcante e utile. Il suo romanzo “Marrakech” (che, nell’originale, si intitola “Hideous Kinky”, due termini ovvero intraducibili in italiano senza perdere completamente il loro sapido significato di ‘orrendo perverso’), edito dalla Voland nel 2011, in una collana – Amazzoni – riservata alle femminili “stelle guerriere”, traccia un percorso di crescita che concretamente si configura come un percorrere sentieri e impolverarsi i piedi.
Cosa c’è, infatti, di più utile e migliore che camminare davvero sulle strade del mondo? Che essere viaggiatori viaggianti alla ricerca di una nuova curva di orizzonte? Il romanzo della Freud è geometricamente perfetto: comincia all’approdo in Marocco di uno sconclusionato manipolo di personaggi e finisce sui movimenti della loro partenza. Come sempre accade, è un congedo che non è mai un addio, perché le scoperte e le ricchezze dell’esplorato nuovo mondo rimangono aggrappate alle anime dei viaggiatori: loro stessi ne fanno tesoro e impastano al proprio sé tutti i dettagli di quella che sarà un’evoluzione del proprio intimo.
La genialità del romanzo della Freud sta nel presentare la vicenda con un’attenzione spasmodica alla descrizione dell’evento, del gesto, dell’atto. Il romanzo è comparabile con un vero e proprio rosario di situazioni descritte nel loro svolgimento, senza concentrarsi troppo – o troppo manifestamente – sull’analisi chirurgica dell’interiorità. I pensieri, i tremori, gli entusiasmi, l’inevitabile crescita che ogni personaggio edifica sullo sfondo esotico della kasba quasi mistica o del suq affollato e straripante di oggetti e persone son tutti presentati al lettore in sottrazione, mai in aggiunta: una serie, ovvero, di fotogrammi in sequenza, allacciati tra di loro, che completano un affresco di inaudita potenza narrativa e descrittiva.
Brulica, il romanzo, di personaggi, di volti, di nomi e di facce. Di sorrisi e di lacrime. Di insetti e di carezze. Ma soprattutto di piedi, tutti impolverati e pesanti di viaggio. Camminano tutti, in questo romanzo, anche chi pare arrendersi e non voler più proseguire; anche chi pare perdersi o volontariamente latitare; anche chi pare fuggire e poi tornare. La mèta è sempre quella che ci poniamo noi, senza nessuna pretesa di esser la più giusta o l’unica corretta. Esther Freud pare proprio voler dirci questo: qualsiasi altro nostro altrove è giusto, se lo decidiamo noi (per noi). Basta soltanto che, nel futuro (prossimo o anteriore) non recriminiamo.

“Francesco Borromini”: l’arte e il riscatto del proprio limite.

Giulio Gasperini
ROMA – Francesco Borromini lo si ricorda sovente soltanto per contrasto a Gian Lorenzo Bernini. Due superbi architetti che arricchirono la Roma barocca, due anime distanti e diverse, due concezioni divergenti: di forme, di spirito, di materia; di carne e fiato. Leros Pittoni, con la sua opera “Francesco Borromini. L’iniziato”, edita da De Luca Editori nel 1995, tenta il riscatto dell’uomo Francesco. Si cimenta in codest’impresa perché riscattare l’artista è facile: il Borromini architetto basta riscoprirlo, riportarlo alla luce degli studi, riprenderlo con discernimento e attenzione, esaminarlo di nuovo con prudenza ma perizia. È riscattare l’uomo che diventa più complesso, più arduo: perché Borromini fu personaggio scomodo e scomposto, troppo frugale e d’animo semplice per poter armonizzarsi con l’esuberanza del secolo, con la sua pretesa costante e irrinunciabile allo spettacolare, allo stupore, alla meraviglia.
Borromini fuggì sempre la Chiesa, grande mecenate del suo tempo: cercò di separarsene sempre e risolutamente. Fu uomo scisso tra la passione per la Roma esagitata e caotica del suo secolo migliore e il bisogno intimo e profondo della tranquillità e della sicurezza dei suoi monti, quelli della sua Svizzera lontana, che lo lasciavano tranquillo e placato come uno specchio d’acqua alpino. Ma la febbre del lavoro, l’entusiasmo per il plasmarsi delle forme e delle linee, la dedizione all’arte non potevano lasciarlo appagato del mediocre. Volle osare, nonostante i rifiuti e le diffidenze; volle sempre presentarsi per quello che veramente era, per quello che voleva conservare di sé stesso: un uomo integro, fedele ai propri dogmi e alle proprie necessità interiori, capace di non tradirsi e di accettare piuttosto la morte alla tirannia della società.
Leros Pittoni, scrittore conterraneo dell’architetto, analizza, più poeticamente che architettonicamente, le opere romane del Borromini, da San Carlo alle Quattro Fontane alla partecipazione al Baldacchino di San Pietro, significando ogni linea, ogni intento, ogni apertura e ogni varco, ogni spazio e ogni volume, e tessendo la narrazione delle opere con la biografia del grande genio. Sicché la storia delle opere diventa la storia del Borromini: è la sua travagliata disamina di un sé stesso sospettato sempre peccatore, sempre imperfetto, sempre inappagato dell’idiozia altrui, che sottrae valore a chi merita e conferisce onore a chi – mutatis mutandis – non dovrebbe meritare neppure pietà.
Il presunto scontro tra Borromini e Bernini è sempre aperto e sempre invocato anche da una certa critica attenta ai disagi e agli scandali da copertina: le opere del Bernini respirano il ponentino, si inondano di luce, giocano con l’acqua e l’aria, si incurvano alla pretesa d’evidente perfezione. Le opere del Borromini, all’opposto, a uno sguardo distratto quasi si nascondono, si crepano d’ombra, si incurvano in un sentire che è punizione del sé stesso, ma anche riscatto del proprio limite; a costo della morte.

“Storia naturale di una passione”, ovvero quando a mancare è l’amore

Giulio Gasperini
ROMA –
L’amore e la passione non sempre procedono con ugual passo, né misura. A volte c’è passione, ma non c’è amore; altre volte fiorisce l’amore ma la passione gela. Chi può sapere quale delle soluzioni sia la migliore? Forse vorremmo tutti dire: quando ci sono, contemporaneamente, passione e amore. Ma quanto dura, effettivamente, la passione? Quanto dura, invece, l’amore? Possono sostenersi a vicenda e creare una sinergia duratura, oppure l’uno fagocita inevitabile l’altro? Alfredo Todisco, con un linguaggio volutamente aulico, raffinato, come in una sorta di antiquariato linguistico, ci squaderna una “Storia natura di una passione” (Rizzoli, 1976).
Todisco parrebbe dirci che amore e passione son due accidenti ben distinti, e nessuno dei due implica obbligatoriamente l’altro. In questo romanzo, in una storia dai sinuosi intrecci sentimentali e dalle complesse personalità ritratte, la passione esiste, si consuma nel tempo d’un errore, ma l’amore gemma soltanto in “lui”, mentre “lei” rimane glaciale, spietata nella sua analisi, senza possibilità di ricorsi.
I due si rincorrono, s’indagano, s’annusano e si dileguano, si telefonano e s’ignorano, s’allontanano e si riavvicinano: la danza è quella delle più collaudate, delle più sperimentate: un accendersi di passione incontrollabile, una furia feroce di sensi e di trasporto emotivo, che trascinano i due protagonisti in un vortice irresistibile di frasi non dette e parole rubate, di sguardi troppo insistenti e rimorsi insaziabili.
Sicuramente Alfredo Todisco dimostra una grande perizia d’analisi, che, per altro, esibì nella sua carriera persino scrivendo dei reportage di viaggio (come in “Viaggio in India”). E i suoi personaggi son orchestrati così sapientemente da parere la visione d’un teatrino, di quelli che, un tempo, facevano divertire i bambini ma sorridere i genitori, perché ne capivan tutti i trucchi, e perdevano la magia della vita che, da inanimata, riusciva a sorprendere.
L’ultima immagine del romanzo, da cui si trae la morale e che purificherà i cuori di “lui” e di “lei”, come una catarsi involontaria e persino fastidiosa, è quella d’una natura che paga lo scotto della violenza e della prepotenza umane e che si autoflagella, si autopunisce per salvarsi risolutivamente, presa da una cieca ira e da una rabbia che, non possiamo non immaginare, nel giro di poco tempo si riverseranno frenetiche e furiose sugli uomini che rimangono a valle, e che stanchi del cammino non trovan di meglio che ritenersi fortunati d’avere una sedia sulla quale sedere.