Laureato in italianistica (e come potrebbe altrimenti), perdutamente amante dei libri, vive circondato da copertine e costole d’ogni forma, dimensione e colore (perché pensa, a ragione, che faccian anche arredamento!). Compratore compulsivo, raffinato segugio di remainders e bancarelle da ipersconti (per perenne carenza di fondi e per passione vintage), adora perdersi soprattutto nei romanzi e nei libri di viaggio: gli orizzonti e i limes gli son sempre andati stretti. Sorvola sui dati anagrafici, ma ci tiene a sottolinare come provenga dall’angolo di mondo più delizioso e straordiario: la Toscana, ovviamente. Per adesso vive tra i 2722 dello Zerbion, i 3486 del Ruitor e i vigneti più alti d’Europa.

“Casanova” e la teoria del non promettere promesse

Giulio Gasperini
ROMA –
Denigrato e ingiustamente svilito da una critica attenta alla falsa morale Giacomo Casanova fu personaggio allietante il secolo XVIII, quando ancora l’Italia dettava una linea culturale e non destava gli scherni e la sfiducia degli altri paesi. Roberto Gervaso, leggera penna biografica, ne tratteggia con una straordinaria limpidezza narrativa la vita, nel volume “Casanova” (Rizzoli, 1974), sottotitolandolo “storia di un filosofo del piacere e dell’avventura”.
Casanova prevedibilmente si nutrì all’aria pura di Venezia. Illuminò il suo essere con le antiche prospettive delle rotte commerciali, degli orizzonti lontani, delle terre remote che la Serenissima possedeva e dalle quali traeva la sua ricchezza e quel prestigio che parve intramontabile. Venezia era una città che viveva più sul suo passato che sul suo futuro, ma “la gioia di vivere era nell’aria e tutti la respiravano”. Il suo carnevale era la concretazione più evidente di questa forza edonistica e l’amore veniva cantato persino dai gondolieri, un vero e proprio esercito che sfilava silenzioso tra le nebbie della laguna e si sfidava a colpi di rime e poemi.
Amò sempre Venezia, Casanova: la sentì claustrofobica per quel governo oligarca che non amava le diserzioni civili e temeva le personalità borderline, ma se ne strusse al ricordo quando, esule e peregrino, cercò tutti gli appoggi possibili per rientrarci o come quando, tra le brume della Boemia, guardava fuori dalle finestre della biblioteca polverosa del castello di Dux, diventata tutto il suo mondo, e scriveva in un francese, istintivo e divertito, la storia non ordinaria della sua vita. Fu città dalle scoperte sorprendenti, dai legami avventurosi, dai rapporti violenti; e nessun’altra ne resse il confronto.
Durante i suoi anni tumultuosi, Casanova sviluppò una propria, indiscutibile e assolutamente personale teoria del piacere. Un piacere che partisse da quello carnale, fisico, portato all’estremo sforzo del corpo, per allacciarsi a quello spirituale, arrivando finanche a una prospettiva di squarcio metafisico. Casanova amò tutte le donne che possedé. Le amò pur abbandonandole, perché non faceva loro mai promesse. E loro ne erano consapevoli e accettavano il gioco. Fu sempre sincero Casanova, sempre cristallino nelle sue richieste e nelle sue pretese. Come scrisse Christina Rossetti, poetessa inglese, promise me no promises / so will I not promise you, / keep we both our liberties, / never false and never true: non promettermi promesse così io non prometterò a te; manteniamo entrambi le nostre libertà: niente di falso niente di vero. Se non riusciamo a mantenerle, le promesse, direbbe Casanova insieme a Christina, meglio non farle. Ma amiamoci lo stesso, finché gli dei ci concederanno il tempo! Sicché non fu certo da biasimare Casanova, perché la libertà è supremamente migliore dell’ipocrisia.
Casanova fu tanti personaggi: difficile distinguere l’uomo dalle varie maschere. Ebbe tante professioni non perché indeciso, eternamente sofferente e insicuro, ma perché sempre arduo da delimitare in una sola auto-definizione.

“Seminario Montale”: le ultime declinazioni d’Eugenio.

Giulio Gasperini
ROMA – Nel 1971 Montale pubblicò “Satura”, una raccolta che fratturava, risoluta, la linea della sua precedente esperienza (e vocazione) poetica. Alla paura cosmica del mondo che franava sotto la furia della bufera, si sostituì un inevitabile ripiegamento nel cosmo individuale, nell’intima personalità, nella quotidiana gestione di affetti e comportamenti; come a dire che, dopo la rinuncia all’universalità, l’uomo dovesse sperimentare finanche la diserzione nella terra del sé stesso. Gaffi editore ha pubblicato nel 2011 “Seminario Montale”, scritto da Fabrizio Patriarca (nella collana Centenaria), nel quale il critico si assume l’ingrato compito di guidarci alla scoperta e, più difficoltoso ancora, alla comprensione dell’ultimo consapevole Montale.
Con Satura si assiste, secondo il critico, al ripiegamento verso forme di “verità archetipiche”, finanche inspiegabili in una raccolta poetica che virava così risolutamente dal Morale degli “Ossi di seppia”, de “La bufera” e de “Le occasioni”. Prospettive metafisiche fin troppo raffinate e importata poetica del correlativo oggettivo lasciano spazio a un respiro che, se non più ampio, si concreta decisamente più diretto e sincero, lasciando spazio all’esperienze del lettore e al suo proprio apporto personale.
A partire da quell’odore di limoni, dal loro colore violento che ferì l’occhio e aprì alla presunta salvezza, Montale si accorse forse che il suo viaggio, giunto alle estremità più remote del mondo a toccare persino “Finisterre”, doveva tornare all’origine, come un fiume che, giunto alla foce, si strugge nella malinconia della separazione dalla sua sorgente. Patriarca vaglia attentamente tutta la critica del ‘900, la quale tanta attenzione riservò a Montale, fin quasi a spingersi nei lidi di una vera e propria elucubrazione teorica, tale da scontornare i veri limiti della sua poetica e presentarcelo forse più difficile di quel che in realtà fu.
Con uno stile, a tratti, un po’ pesante e difficile da leggere senza ricorrere al vocabolario persino per ricercare ansiosamente una congiunzione disgiuntiva, il critico Patriarca trapana con decisione e con puntualità chirurgica la superficie e il tessuto di una raccolta poetica ingiustamente bistrattata e considerata potenzialmente inferiore alle sue precedenti, che lo fecero scoprire e lo esagerarono poeta come mai nessun altro (con sommo dispiacere e disappunto del suo rivale Ungaretti). Fabrizio Patriarca ha uno sguardo attento e puntale, costantemente ci guida al riferimento e non ci abbandona mai durante la ricognizione del più tardo Montale, permettendoci così di giungere a una riscoperta che non sia di pura forma ma anche di ricca sostanza.

Durante un’“Estate al lago” un ragazzo pensa e cresce

Giulio Gasperini
ROMA – È il racconto d’un’esperienza di crescita sentimentale, umana e anagrafica, questa “Estate al mare”, dello scrittore Alberto Vigevani, pubblicata nel 1976 da Mondadori. È una vicenda, un’analisi lucida e nitida, totalmente interiorizzata dalla figura del protagonista, un ragazzo milanese annoiato dalle nebbie e affascinato dalle vele che, leggere, pare volino sull’acqua. Giacomo amava il mare, quello toscano, dove ogni estate trascorreva le vacanze, per cercare riparo dall’umidità e dalla calura della feroce Pianura padana; un anno, però, la mèta delle vacanze cambia: non più il mare ma un suo palliativo, le rive del lago di Como. E il lago diventa lo scenario dell’addio all’età infantile.
Giacomo è un personaggio che pensa troppo; pensa forse inutilmente. Tutto il romanzo, in effetti, si edifica come un percorso senza tempo, durante il quale il sole sorge e tramonta senza marcatori temporali, quasi a sottolineare una natura più partecipante al tempo dell’anima che, piuttosto, a scandire il tempo convenzionale, quello del quadrante. La storia dell’amicizia con un ragazzo di salute cagionevole e dalla libertà limitata si sviluppa arrivando fin a sfiorare la tragedia: una febbre d’entusiasmo che punisce, come sempre, coloro che troppo si sono spinti a varcare i limiti imposti e non hanno ancora la capacità né la forza di contrastare l’imprevisto. Giacomo però si innamora, in maniera sublimata e ideale, della madre del suo amico, la cerca come un sorso d’acqua fresca, in un continuo indagare le ragioni dei propri sentimenti e della sottile sofferenza.
L’amore astratto, quello etereo e immateriale, per la donna si conclude, bruscamente, con la fuga: un mascherato atto d’amore materno, chissà se per evitare una pericolosa risoluzione. Non lo potremmo mai sapere, perché quando Giacomo torna a cercare l’amico trova solo finestre sbarrate e una cameriera che conferma la ritirata. C’è anche l’altro amore, ovviamente, in questo romanzo: se l’estate è la stagione della crescita, non si può diventare adulti senza sperimentare anche le passioni dell’amore più carnale e violento, che lasciano però Giacomo come scosso e perplesso, ancora troppo immaturo per far veramente i conti con sé stesso.
Geno Pampaloni definì il romanzo un “piccolo classico”, proprio in virtù di questo suo merito: l’analisi di Giacomo è senz’appello. Ogni passaggio presuppone il precedente e non ci si può aspettare null’altro rispetto a quello che segue, in un legame talmente stretto e dipendente tra cause ed effetti che è come assistere a un’eclissi: siamo tutti ben consapevoli di quel che avverrà ma ne rimaniamo, ugualmente, col fiato mozzato.

“Lettere di Natale alla madre” e l’appuntamento delle sei.

Giulio Gasperini
ROMA –
Per venticinque anni, dal 1900 al 1925, “fedele di anno in anno”, Rainer Maria Rilke e la madre, Sophia “Phia” Rilke, ebbero un appuntamento: non importa dove fisicamente si trovassero, alle sei di sera della vigilia di Natale si incontravano nel pensiero. E il figlio, così peregrino ma sempre affettuoso, ogni anno rammentava alla madre il loro appuntamento, in lettere di straordinaria delicatezza e premura. Passigli Editori, storica casa editrice fiorentina, nel 1996 pubblicò queste “Lettere di Natale alla madre”, che testimoniano e documentano la visione profondamente cristiana che il poeta de “I sonetti a Orfeo” e delle “Elegie duinesi” nutriva e condivideva con la madre.
Indipendentemente da dove si trovasse, anche in luoghi nei quali sentiva “maturare la arance”, Rilke sa che il Natale non è il trionfo del consumismo, tanto che spesso si lamenta e si scusa con la madre di non poterle inviare bei regali, ricercati ed eleganti, ma costretto spesso a inviare soltanto i suoi pensieri e la sua grafia. Rilke sa che il Natale è una festa “carica di prodigio e carica di mistero”; in ogni Natale – lui stesso ammette – tutto si faceva “per un attimo indescrivibilmente chiaro e prodigiosamente animato”, in un’ansia e in un bisogno di raccoglimento che lo eleva al di sopra della contingenza e gli consente di stabilire con la madre stessa una “comunicazione interiore”, una vera e propria corrispondenza-d’amorosi-sensi per dare significanza e compimento alla festa stessa del Natale, che altrimenti festa non potrebbe definirsi.
Anche attraverso gli anni duri, sofferenti, della prima guerra mondiale, durante i quali il mondo si macchiò di “complicatissima colpevolezza”, il Natale rimane sempre “la festa dell’innocenza”. È soprattutto il giorno che, in tempi di delirio collettivo, di pazzia senza senso apparente né facile possibilità di redenzione, “merita di essere il giorno più fiducioso dell’anno”, il giorno nel quale l’uomo possa riappropriarsi della consapevolezza del proprio limite (e, dunque, della salvezza), accorgendosi che “per quanto avanti possa spingersi, non giungerà mai al confine di Dio ma alla sua stessa fine”. Sicché ecco che la necessità urgente diventa quella di tornare bambini, esattamente come il piccolo Gesù che, nascendo, ha portato lo stupore e la meraviglia nel mondo, quel rispetto per ogni forma del creato e per ogni essere umano. I migliori ricordi del Natale sono, infatti, quelli del Rilke bambino, del futuro poeta che scopre le luci, i doni, la festa e le decorazioni; e che ha al suo fianco gli affetti più forti, che non possono essere altri che quelli familiari. Sicché il Natale probabilmente è soltanto questo, a prescindere dall’altrove che abitiamo: è sapere che “non è triste essere soli quando sono aperte le strade per ogni amore”.

“I maestri del pensiero indiano”: la ricchezza del pensiero del paese più “strano” al mondo

Giulio Gasperini
ROMA – L’India è, forse, il paese più “strano” al mondo. “Strano” per la sua grandezza, che la rende quasi un continente (3.287.590 kmq, il settimo al mondo per estensione) e per la sua popolazione da capogiro (1.173.108.018 abitanti); per le sue contraddizioni, e per la sua ricchezza e varietà di architetture e religioni; per la sua composizione climatica (dal deserto di Jaisalmer alle foreste tropicali delle Andamane) e la sua frammentazione linguistica (1.652 dialetti oltre alle lingue “ufficiali”). Ma è anche un paese dalla storia millenaria e dalla grande eredità culturale: in particolar modo filosofica e religiosa. Giuseppe Gangi ne “I maestri del pensiero indiano dai Veda a Osho” delle Edizioni Clandestine (2011) vuole proprio ripercorrere la storia del pensiero che in questo subcontinente s’è sviluppato e ha finito per colonizzare e condizionare la crescita e lo sviluppo della società e della cultura di altri continenti, primi fra tutti l’Europa.
L’India ha, infatti, da sempre affascinato il Vecchio Continente: per la sua distanza, la sua magia, la sua apparente invulnerabilità, il suo mistero remoto. Dai romanzi di Salgari, ad esempio, ambientati in un’India quasi inventata, immaginata e mai esplorata, imparata dai libri e dai racconti di viaggiatori coraggiosi, passando dal fascino delle poesie di Tagore che gli valsero il Premio Nobel nel 1913 (straordinariamente assegnatogli dopo quello, del 1907, a Kipling, cantore, all’opposto, del colonialismo inglese), per finire al viaggio che i Beatles vi compirono nel 1968, per frequentare un corso di meditazione presso l’ashram di Maharishi Mahesh Yogi.
L’India è ricca e ubertosa: la bibliografia che la riguarda è talmente imponente da passare persino trascurata, consultata con velocità insidiosa. Ecco, allora, che il volume di Giuseppe Gangi può aiutarci a far un po’ d’ordine ed entrare in possesso dei primi e più rudimentali sistemi d’orientamento. Dai Veda, raccolta in sanscrito di testi sacri dei popoli arii che fondarono l’insieme delle dottrine religiose dell’induismo, al pensiero filosofico di Osho, i cui scritti son diventati dei veri e propri best-seller da primi posti in classifica, passando per l’esperienza del Buddha e del buddhismo, che in India conserva tre posti sacri (Bodhgaya, Sarnath, Kushinagar), e giungendo ad analizzare il pensiero dell’India contemporanea, divisa tra colonialismo inglese, voglia d’indipendenza e crudeltà intestina (da Tagore a Gandhi), Gangi permette anche ai meno esperti di poter costruirsi le ragioni di un mondo, quello indiano, così lontano ma anche così fortemente composito che, in un gioco di costanti equilibri e di profonde contraddizioni, riesce ancora a sorprendere sé stesso e si esagera, persino, potenza del futuro.

“L’amore negato” e il presunto diritto alla felicità.

Giulio Gasperini
ROMA – Vero o presunto è il diritto alla felicità? È dovuto o supposto? Esigibile o auspicabile? La Dichiarazione d’Indipendenza americana, già nel 1776, sancì, con forza, che gli uomini, creati eguali, sono stati dotati di alcuni diritti inalienabili “by their Creator”, tra i quali “life, liberty and the pursuit of happiness”; vita-libertà-ricerca-della-felicità. Il diritto alla felicità è anche l’assillante esigenza che muove Severa, la protagonista de “L’amore negato”, l’ultimo romanzo della ahimè dimenticata Maria Messina, edito nel 1928 dall’editore Ceschina. È così urgente la sua pretesa di felicità da soffocare gli altri istinti, da reprimerli inconsciamente, pensando unicamente al fare, all’agire, alla “roba”; proprio quella “roba” di verghiana memoria. Se, infatti, Maria Messina non può iscriversi nell’ambito della letteratura verista, è pur vero che Verga fu l’unico personaggio del mondo letterario col quale la giovane donna ebbe contatti. Maria Messina nacque, guarda caso, a Palermo, fu siciliana: sicché non le fu estranea la “filosofia della roba”, così magistralmente teorizzata soprattutto nelle novelle verghiane. Colpisce, il romanzo, infatti, soprattutto per la spietatezza della vicenda, per l’ineluttabilità dei comportamenti, per il disincanto che la vita oramai pare aver gettato nel cuore di una giovane donna e scrittrice, già consapevole che la sua malattia, la sclerosi multipla, l’avrebbe condotta a una morte attesa e prevedibile; che fu da tutti ignorata.
Severa (che bell’invenzione, il nome!, così altero e austero) disdegna la madre, la sorella, il fratello un po’ picchiato, che finisce per annegare, chissà quanto casualmente, in un fiume tumultuoso. Disdegna la loro vita di povere, le confina nelle stanze che un tempo furon ripostigli, perché il resto della casa le serve per fondare e guidare un’impresa di sartoria: soprattutto di cappellini che, all’inizio, le signore altolocate corron a comprare e farsi fare su misura; poi, virata la sorte, se ne vanno altrove, e a Severa resta l’umiliazione di veder fallire l’impresa nella quale aveva investito ogni più misero soldo di un’eredità ricevuta per grazia d’una vecchia, malata immaginaria ma abbandonata, accudita non per sincero spirito caritatevole, né per mutuo soccorso, ma per gelido tornaconto.
Fallisce, Severa, per causa sua: per la rudezza dei suoi modi, per gli scostanti atti, per una naturale superbia che le derivava dal suo pretendere, senza il minimo dubbio, la felicità. Fu troppo convinta di meritarsela, ché la sua vita era stata indefessa e rigidamente rivolta alla conquista della felicità stessa (che non si può chiamare in altro modo), in un circolo di cause ed effetti che subito, senza troppe illusione, collassò nel dolore. E anche l’amore la stordì: si illuse d’un legame mai allacciato, d’un sentimento mai provato, d’una passione mai esplosa. Si illuse e illudendosi si scoprì fragile, vulnerabile, esposta all’assedio e facile da espugnare: tutto quello che di lei non avrebbe mai voluto né vedere (lei stessa) né rivelare (agli altri).
E per vendetta, nei confronti del mondo, non si concederà la capitolazione, non si accorderà la resa; fuggirà ogni legame, soprattutto quelli familiari, e si negherà ogni altro possibile amore.

“L’Alhaji”:una storia su una Nigeria da tempo preda del nuovo colonialismo.

Giulio Gasperini
ROMA – Potrebbe essere una delle potenze del mondo, la Nigeria, se solo non fosse così terribilmente straziata da sé stessa. È una delle regioni al mondo più ricche di petrolio, è lo stato africano più abitato (160 milioni di persone), ha delle ingenti risorse di sottosuolo e di prodotti naturali. Potrebbe veramente diventare uno dei nuovi fulcri economici del mondo: ma non ci riesce. Troppe divisioni al suo interno, troppi interessi personali e privati, troppe inutili e cieche violenze che ne condizionano la vita, che ne appestano le menti, che ne limitano la lungimiranza e gli orizzonti. Leo Finzi, ingegnere civile esperto di mondo, si concreta come un nuovo Joseph Conrad e il suo romanzo, “L’Alhaji”, pubblicato da Alberto Gaffi Editore nel 2011 nella collana Godot, si esagera come un “Cuore di tenebra” di questa nostra stanca contemporaneità.
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“Le più belle pagine della letteratura sulla montagna”, là dove il pensiero si fa più leggero.

Giulio Gasperini
ROMA – La montagna è stata, nella letteratura italiana, una presenza costante ma silenziosa, dimessa, rispetto al più chiassoso, ipertrofico e tiranno mare. Più umile la montagna, più apparentemente remissiva. Come lo è nella realtà. In superficie calma, mai rumorosa, piuttosto refrattaria alle mode e agli eccessi. Sicché ecco la sorpresa nello scovare raffinate pagine della letteratura che hanno lei come protagonista, o come privilegiato scenario di vicende che spaziano dalla scalata sportiva all’indagine delle prospettive intime del sé. Le edizioni e/o raccolsero, nel 1992, un florilegio de “Le più belle pagine della letteratura sulla montagna”, perché la montagna, più del mare e di altri paesaggi antropici e naturali, è mutevole, vivace, briosa; e spinge al pensiero e alla meditazione.

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“Una via di pace”: dell’impegno e dell’ottimismo.

Giulio Gasperini
ROMA –
Il giornalista Andrea Semplici, raffinato descrittore d’orizzonti, ci regala un’altra straordinaria avventura. Questa volta condividendola con Mario Boccia, un fotoreporter specializzato in reportage sociali. La mèta dell’ennesima esplorazione è la Palestina; e Israele. Senza badare alla politica né alla logica del limes. Sono partiti, i due, per un reportage che si inserisce nell’ambito del programma di cooperazione internazionale Med Cooperation, finanziato dalla Regione Toscana oramai da più di dieci anni. Il risultato dell’incontro tra questi due maturi giornalisti, e la vivace Terre di Mezzo Editore, da sempre in prima linea nel sociale e nella cooperazione, è “Una via di pace. In viaggio tra Israele e Palestina” (2011).
Sei città, nemmeno tra le più famose di questo lembo straziato di terra, sono state visitate e, ancor più, esplorate: Akko, Haifa, Tulkarem, Taybe, Nablus e quella che la tradizione narra esser stata la prima città del mondo, Gerico. Tutte realtà particolari, dipinte con parole sapienti e curiose del mondo, di ogni suo dettaglio. Le esperienze concretamente vissute, tutte le verità toccate, annusate, viste coi sensi propri di chi impugna la penna, tutto il materiale umano che è il solo indispensabile per capire un paese e per compilare un’ottima guida di viaggio Semplici e Boccia sanno benissimo come raccoglierli e come proporceli, pianificando un viaggio che osservi le persone negli occhi, nei loro comportamenti, nelle loro abitudini e passioni, piuttosto che ammirare i monumenti e limitarsi alle pietre che subiscono il trascorrere dei secoli.
Sono nati, alla fine, dei brevi ma cesellati componimenti, non delle descrizioni ma dei veri e propri “ritratti” di città, proprio perché viste soprattutto nelle loro componenti antropologica, sociale, umana. I tre comuni israeliani e i tre palestinesi sono narrati negli aspetti più caratteristici e peculiari, se ne svelano segreti e curiosità, se ne cerca di penetrare l’anima e di trovare le ragioni della loro unicità e esclusività. Accompagna le parole un ricchissimo apparato iconografico: foto splendide, parlanti, che paion modellate dalle parole; mentre le parole sembrano prendere vita allo splendere dei colori sorpresi e catturati negli scatti.
Ecco allora che riusciamo a visitare, col pensiero prima ancora che col corpo, Akko, “la sola città di Israele che […] abbia conservato intatto il suo carattere arabo”; oppure Haifa, “una città di tasselli che cercano di incastrarsi l’uno con l’altro”. Oppure potremmo decidere di fermarci a Taybe, per assaggiare “the best humus of the region”; o proseguire per Tulkare, dove i risvegli sono lenti e si beve succo di harroob (carruba); potremmo perderci nel passato prestigio romano di Nablus o cercare di sorprendere il gocciolare del tempo a Jabal al-Quruntul, il Monte delle Tentazioni a Gerico. Tutte le sei città prendono forma e vita; e a noi che vorremmo visitarle, sorprenderci della loro meraviglia, si arrendono docili, con la dolcezza tipica di chi sa che abbandonare le armi e disporsi all’incontro siano le uniche vere “vie di pace”.